2 ottobre – XXVII domenica del tempo ordinario

\"\"Ventisettesima Domenica del Tempo Ordinario – Ciclo A


I Lettura: Is 5,1-7;
Salmo: Sal 79;
II Lettura: Fil, 6-9;
Vangelo: Mt 21, 33-43

NESSO TRA LE LETTURE

Le letture di questa domenica ci presentano l'immagine della vigna. Una vigna che simbolizza Israele, amato e assistito da Dio, ma che, tristemente, non produce i frutti che Dio si aspettava e che sapeva – poiché l'ha coltivata con amore – che essa poteva dargli: questo è il tema su cui riflettere in questa domenica. La prima lettura ci mostra il poema dell'"amico diletto" e della sua vigna. Con parole piene di trasporto, il poema ci presenta il padrone della vigna, prodigo di attenzioni, che ne dissoda il terreno, toglie di mezzo tutte le pietre, edifica una torre, vi pianta buone viti e scava un tino. Questo uomo ama la sua vigna, e si aspetta che essa dia buoni frutti, ma invece riceve uve selvatiche, acerbe, e che non maturano mai. L'uomo ha ragione di lamentarsi, e si domanda con animo affranto: cosa avrei potuto fare di più per la mia vigna che già non ho fatto? Niente, certamente. Aveva usato tutti i mezzi all'epoca noti per coltivare una vite eccellente (prima lettura). Nel vangelo torna nuovamente il tema della vite, in una specie di allegoria: il padrone della vite l'affida ad alcuni lavoratori e se ne va. Invia, dopo qualche tempo, i suoi ambasciatori per raccogliere i frutti, ma i vignaioli maltrattano gli inviati e, quando vedono venire il figlio, prendono la decisione di ucciderlo. Anche qui, il padrone della vigna non viene ricambiato del suo sollecito affetto per la vigna: i vignaioli non producono i frutti che il padrone si aspettava. In entrambi i casi, l'argomento dei frutti che Dio attende da Israele e dagli uomini è posto in speciale rilievo: l'uomo ha ricevuto molto da Dio e deve produrre frutti di vita eterna, di santità vera, di carità sincera (Vangelo). Da parte sua, Paolo, nella lettera ai Filippesi, continua la sua esposizione e li esorta a tenere in conto tutto quello che è vero, nobile, giusto e li invita a realizzare opere buone (seconda lettura).


 

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25 settembre – XXVI domenica del tempo ordinario

\"\"Commento al Vangelo – XXVI domenica del Tempo Comune

I due figli della Parabola
e gli altri due

Comportandosi in modo di gran lunga peggiore di quello dei due figli della parabola, i sacerdoti e gli anziani del popolo non solo si sono rifiutati di lavorare nella vigna del Signore, ma di fatto, non ci sono nemmeno andati. Questa sarebbe l’attitudine di un terzo figlio, manifestazione estrema del cattivo comportamento nei confronti del Padre! Ma c’è anche un quarto figlio: quello che ha udito con entusiasmo l’invito del Padre e dà la propria vita per Lui!

di Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP
fondatore degli Evangeli Praecones
courtesy of
http://www.salvamiregina.it

 

 

 

La Parabola dei Due Figli

28 "Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. 29 Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. 30 Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. 31 Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?". Dicono: "L’ultimo". E Gesù disse loro: "In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32 È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli" (Mt 21, 28-32).

I – Introduzione: Innocenza e inerranza

Come sembra bella la vita onesta, in tutte le sue manifestazioni, quando si è capaci di analizzarla con occhi limpidi, disinteressati e innocenti! Nella vecchiaia essa si presenta permeata di fragilità, ma robusta e arricchita di esperienza. Si mostra forte, decisa e audace in gioventù, a mano a mano che però, entrando per le porte della maturità, si va arricchendo in riflessione, chiarificazioni e saggezza. Niente attira tanto l’attenzione del nostro sguardo, nel corso dell’esistenza umana, quanto lo sviluppo degli istinti primordiali in un bambino, dai suoi primi vagiti fino al raggiungimento dell’età della ragione. Si comprende come l’animo infantile, nel mettere in pratica a poco a poco gli atti dell’intelligenza o della volontà entri in possesso di un ricco tesoro di esperienze che si basano sui primi principi innati.

L’anima umana è alla ricerca della verità

Ci incanta il vedere con quale sicurezza gli animali – e persino gli stessi insetti – vadano in cerca degli alimenti di cui hanno bisogno. Non è difficile discernere la mano di Dio dietro a tutte queste attività, pur sapendo che Lui, evidentemente, non le sta orchestrando in forma diretta in ogni momento. Dio crea gli esseri viventi con istinti propri che sono conformi alle necessità e alle convenienze di ognuno. Anche l’uomo, essere razionale, nasce con stimoli iniziali e spontanei che gli daranno sicurezza nella ricerca degli obbiettivi per i quali è stato destinato. A questo proposito, la Tomistica ci spiega, con estrema chiarezza, che l’anima, creata e infusa nell’essere al momento del concepimento, è già arricchita dal senso dell’essere.

Approssimiamoci alla culla di un bambino e mostriamogli delle belle palle di differenti colori. Le sue reazioni dimostrano la meraviglia di questi istinti umani, i quali agiscono molto prima dell’uso della ragione. Egli sceglierà una palla del colore che più gli piace, dopo un po’ di tempo passerà a giocare con un’altra e così di seguito. Si tratta della ricerca istintiva del bene, del bello e del vero che finirà per condurre alla scelta di una delle palle rispetto le altre. Questi sono riflessi che precedono la costituzione della capacità di giudicare in forma razionale, in conformità a dei principi chiaramente stabiliti.

Il peccato fa perdere la capacità di giudicare correttamente

Eccellente a questo proposito è l’affermazione di un grande domenicano del secolo scorso, Frate Santiago Ramírez O.P., secondo cui l’anima umana è essenzialmente aristocratica, in quanto è sempre alla ricerca del meglio.

Se gli uomini hanno questi istinti, come si spiega allora l’esistenza dell’errore, della cattiveria e della bruttezza? Speriamo in un prossimo articolo di approfondire questa questione tanto essenziale. Per oggi basti dire che l’inerranza di questi istinti si mantiene solamente se si conserva l’innocenza, in altre parole è il peccato la causa della perdita della capacità di giudicare bene. Lo stesso San Tommaso d’Aquino ci insegna che il senso della verità, del bello e della bontà è un istinto aristocratico, perché soltanto gli innocenti lo possiedono in modo tanto solido. Ora – conclude il Dottore Angelico – pochi sono gli innocenti nel mondo, pertanto pochi sono coloro che ne godono in modo integrale.

È intorno a questa meravigliosa problematica che si svolge il Vangelo di oggi.

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18 settembre – XXV domenica del tempo ordinario

\"\"Commento al Vangelo – XXV Domenica del Tempo Ordinario

Il verme roditore dell’invidia
Veleno che corrode le anime, l’invidia è ancor peggiore quando si rivolta contro i favori spirituali concessi da Dio al prossimo. A questo vizio morale si attribuisce il nome di invidia della grazia fraterna.

Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP
fondatore degli Evangeli Praecones
courtesy of
http://www.salvamiregina.it

 

Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi (Matteo 20, 1-16).
Non raramente, il brano del Vangelo da commentare guadagna in prospettiva, quando lo situiamo nel suo contesto di tempo e luogo, osservando il comportamento del pubblico e le ripercussioni psicologiche dei protagonisti.

 

L’ambiente nel quale Gesù ha esposto la parabola
La parabola dei lavoratori della vigna fu proferita dal Divino Maestro nel suo ultimo viaggio, quando ritornava a Gerusalemme. Era un momento cruciale. Attingendo l’apice dei suoi miracoli, prova inequivocabile della sua divinità, Gesù aveva resuscitato Lazzaro e, per ragioni di prudenza (prevedendo le reazioni irate dei suoi nemici), aveva deciso di andarsene da Gerusalemme. Passato del tempo riprese il cammino verso la Città Santa, dove sarebbe entrato solennemente la Domenica delle Palme. Ed è in quest’ultimo viaggio che andiamo a incontrarLo.
In quell’epoca, molto precedente a Guttenberg, non esisteva evidentemente la stampa, e meno ancora si poteva pensare alla radio, televisione e internet. Abituati come siamo a tutti questi mezzi di comunicazione, facciamo fatica a immaginare come le notizie potessero diffondersi. In verità, sebbene fossero trasmesse di bocca in bocca, non per questo era lenta la loro divulgazione, soprattutto se erano rivestite di un carattere spettacolare. Così, per esempio, le notizie sull’intensa attività di San Giovanni Battista, il cui operato di poco aveva preceduto quello di Gesù, erano corse per tutto il paese e anche oltre frontiera, causando grande mormorio tra il popolo e profonda preoccupazione nel Sinedrio. Era stato solo l’inizio. Dai giorni in cui il Precursore aveva battezzato i suoi primi penitenti, Israele non aveva più smesso di esser assalito da una crescente ondata di avvenimenti inusitati e perturbatori. E questa successione di fatti sarebbe culminata nella resurrezione di una persona morta da quattro giorni.
Tuttavia, tanto quanto i miracoli — e anche più di loro —, erano sorprendenti gli insegnamenti del Divino Maestro. Le sue parole cadevano come rinfrescante pioggia su un arenile assetato, com’era il mondo di allora, includendo il popolo eletto. Ci troviamo qui in una prospettiva psicologica piena di curiosità e inquietudine, che portava le persone a interessarsi nei minimi dettagli dei sermoni di Gesù di Nazareth. Di qui il gran numero di quelli che si riunivano intorno a Lui, al punto che gli evangelisti parlano a volte di “grande moltitudine”, come avvenne nella traversata del Giordano (Mt 19, 1-2), al tempo del ritorno dalla Galilea alla Giudea. D’altra parte, la dottrina di Gesù e i suoi movimenti erano motivo di grande inquietudine per scribi, farisei e dottori della legge. La progressiva fama del Divino Maestro li aveva portati a presentarGli questioni apparentemente insolubili e sempre più capziose, ma l’unico risultato dei loro attacchi era darGli l’opportunità di esporre i suoi divini insegnamenti, che costituiscono il fondamento della Dottrina Cattolica. E l’insegnamento di una dottrina nuova creava il clima per la spiegazione di un’altra, in una concatenazione naturale straordinaria.


Dottrine concatenate
Vediamo questo capitare nel suddetto viaggio di ritorno a Gerusalemme, antecedente alla Domenica delle Palme. In quest’occasione avviene il pronunciamento di Nostro Signore sulla indissolubilità del vincolo matrimoniale e la bellezza della verginità (Mt 19, 3-12). Con questo, fu creato l’ambiente favorevole in modo che Gesù chiamasse tutti a far parte della sua futura Chiesa.
Nella sequenza del racconto evangelico, è presentato il Suo incontro con i bambini: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli” (Mt 19, 14).
Subito dopo, Nostro Signore dice che il primo nel Regno dei Cieli sarà colui che si farà come un bambino, indicando la necessità che gli uomini assomiglino ai bambini per entrare nel Regno dei Cieli.
Segue l’episodio del ragazzo ricco. Con questo, è reso palese a tutta la Storia uno dei maggiori ostacoli per l’adesione piena e totale alla Chiesa: l’attaccamento ai beni di questo mondo (Mt 19, 16-26). È stato l’insegnamento di Gesù, causato dal rifiuto del giovane di rispondere alla chiamata del Maestro, che ha provocato un intervento di Pietro. Con il suo carattere estremamente comunicativo, egli non ha resistito a chiedere: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?” (Mt 19, 27). Attraverso la risposta a questa domanda, vediamo come Gesù stava preparando l’opinione pubblica a ricevere la sua chiamata. Ed Egli risponde con divina chiarezza: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19, 29). Come il “centuplo” si riferisce alla vita presente, la frase di Nostro Signore ci conduce alla facile conclusione che ci sono promessi due premi differenti: uno sulla terra, l’altro nell’eternità. Si tratta di un grande incoraggiamento a tutti i seguaci di Cristo, che li aiuta a mantenersi incrollabili nel cammino da percorrere.
Precisamente su questo punto del Vangelo inizia la parabola dei lavoratori della vigna, con la quale Gesù conclude per così dire un’ulteriore fase d’istruzione dei suoi seguaci, includendo quelli del futuro.

 

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11 settembre – XXIV domenica del tempo ordinario

Commento al Vangelo – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

 

Devo perdonare una volta sola?

Il problema del perdono è complesso. La legge antica dava all’offeso il diritto di vendicarsi. Il Vangelo prescrive il dovere di perdonare le offese e glorifica chi lo fa. Ora, quali sono i limiti? Fino a che punto deve esser prodiga la nostra misericordia?
Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP
fondatore degli Evangeli Praecones
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"In quel tempo, 21 Pietro gli si avvicinò e gli disse: "Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?". 22 E Gesù gli rispose: "Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. 23 A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. 24 Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. 25 Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito.

26 Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa!’. 27 Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito.

28 Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi!’. 29 Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito!’. 30 Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.

31 Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32 Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. 33 Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?’. 34 E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto.

35 Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello’" (Mt 18, 21-35).

 

I – Invito alla bontà, mansuetudine e clemenza

Si osserva con frequenza in alcune persone, quando intraprendono le vie della pratica della virtù, la tendenza a cercare una regola precisa che garantisca loro la salvezza. Spiriti pragmatici, si sentono interamente sicuri solo cercando di avere sotto il loro controllo la propria vita spirituale, senza dipendere da altri e, probabilmente, nemmeno dalla grazia divina.

Vorrebbero ottenere meriti soprannaturali più o meno come chi destina denaro in banca, con la garanzia che renderà una determinata somma ogni mese. Così come le occupazioni fisse e manifeste conferiscono stabilità alla nostra esistenza terrena, esse desiderano lo stesso per l’ottenimento della vita eterna.

Nessuno può conoscere con certezza il suo stato d’animo

Nemmeno il più saldo e virtuoso degli uomini può però evitare un briciolo di insicurezza riguardo il suo stato d’animo. A questo riguardo, solo Dio conosce con certezza la situazione di ciascuno; pertanto, nessuno può ritenere di essere senza dubbio nella grazia divina, come spiega il Dottor Angelico: "Uno non può sapere, con certezza assoluta, di possedere la grazia, secondo la prima Lettera ai Corinzi: ‘Non mi giudico da me stesso. Chi mi giudica è il Signore’" (1).

Un commovente fatto storico illustra questa realtà. Quando Santa Giovanna d’Arco affrontava il processo orchestrato contro di lei, uno degli inquisitori – Jean Beaupère, maestro dell’Università di Parigi – le fece una domanda insidiosa: "Sei in stato di grazia?" (2). Se avesse risposto affermativamente, sarebbe stata biasimata per il fatto di contrariare la dottrina cattolica; se avesse negato, avrebbe dato pretesto alla malevolenza dei suoi accusatori. La giovane pastora, invece, affrontò in maniera perfetta la capziosa questione, come avrebbe fatto il più esperto teologo: "Se non lo sono, che Dio mi vi introduca; se lo sono, che Dio mi ci conservi" (3).

Ora, questa salutare insicurezza quanto alla salvezza diverge dalla mentalità orgogliosa e pragmatica dei farisei dell’epoca di Nostro Signore, che avevano elaborato centinaia di regole il cui semplice compimento, essi credevano, rendeva la persona giustificata davanti a Dio. Concepivano la Religione come un contratto, nel quale a loro toccava osservare con precisione questo elenco di precetti esteriori, e a Dio premiare chi li osservasse, qualsiasi fossero le loro disposizioni interiori.

Come vedremo più avanti, San Pietro, formulando la domanda trascritta all’inizio del Vangelo di oggi, mostra di essere influenzato in certa misura da questo modo di pensare. Perché la psicologia umana è costituita in modo tale che ognuno tende a giudicare normale l’ambiente dove è nato e vive, di conseguenza l’uomo si adatta con facilità persino alle maggiori contingenze e avversità che incontra nella vita di tutti i giorni.

Il concetto di giustizia all’epoca di Nostro Signore

Nel corso del ciclo liturgico, la Chiesa ci mostra differenti aspetti degli infiniti attributi di Dio, per meglio conoscerLo, amarLo e imitarLo. In questa 24ª Domenica del Tempo Ordinario, il Vangelo ci invita alla bontà, alla mansuetudine e alla clemenza: dobbiamo essere buoni come Egli è buono, compassionevoli come Egli è compassionevole, clementi come Egli è clemente. "Imparate da me, che sono mite e umile di cuore" (Mt 11, 29), ci esorta Gesù.

Per meglio comprendere il passo proposto oggi dalla Chiesa alla nostra considerazione, dobbiamo aver ben presente quanto l’odio, il desiderio di vendetta e l’incapacità di perdonare imperversavano nelle civiltà precedenti alla venuta del Signore Gesù.

Il concetto di giustizia vigente nell’Oriente biblico si fondava sulla Legge del Taglione, secondo la quale il criminale doveva esser punito taliter, cioè con rigorosa reciprocità in relazione al danno inflitto: "Occhio per occhio, dente per dente" – tale il crimine, tale la pena. Vale la pena notare che questo principio legale mirava anche a mitigare i costumi violenti dei popoli antichi, dove la rappresaglia era la regola e, in generale, provocava un danno maggiore di quello dell’offesa (4). Vigendo il costume di fare giustizia con le proprie mani, prevaleva sempre il più forte e il perdono era visto come segno di debolezza.

Nell’antica Mesopotamia, per esempio, "le pene erano atti di vendetta e raramente bastava tagliare la testa; troviamo spesso, soprattutto in Assiria, il supplizio del palo e lo scorticamento. Si lasciava insepolto il cadavere, perché servisse da lezione. Per delitti di minor valore, era all’ordine del giorno tagliare la mano, il naso, le orecchie, strappare gli occhi. Il debitore insolvente restava schiavo perpetuo del creditore, il quale poteva venderlo o utilizzarlo a suo servizio" (5).

Consideriamo in questa prospettiva il passo del Vangelo di oggi.

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4 settembre – XXIII domenica del tempo ordinario

Commento al Vangelo – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

 

La correzione fraterna, un’opzione o un dovere?
Chi non corregge il suo prossimo, causa un danno non solo a questi ma anche a se stesso. Si vedrà privato dei meriti e benefici del compimento del proprio dovere, e finirà per scandalizzare coloro che constatano la sua negligenza.
Don João Scognamiglio Clá Dias, EP
Fondatore degli Evangeli Praecones
courtesy of
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Vangelo 
Se il tuo fratello commette una colpa, và e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano. In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo. In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”(Mt 18, 15-20).

 

I – La Correzione, grande mezzo di salvezza

Sant’Alfonso Maria de Liguori scrisse una bella opera intitolata “L’orazione, grande mezzo di salvezza”. Il suo contenuto è preziosissimo e irrefutabile. In una delle sue pagine, il Santo arriva ad affermare che chi prega si salva e chi non prega si condanna.
Penetrando nel cuore del Vangelo di questa XXIII Domenica del Tempo Ordinario, giungiamo ad una conclusione simile: la correzione fraterna è un grande mezzo di salvezza, perché il destino eterno di qualcuno può dipendere proprio dall’accettazione delle correzioni che gli siano fatte.
Questa è la materia che la Liturgia di oggi ci porta a considerare: il dovere della correzione fraterna e la necessità di accettarla bene.

 

II – Qual’è il figlio che il padre non corregge?

Se il tuo fratello commette una colpa, và e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello.
È chiaro il consiglio di Gesù, quanto alla necessità di correggere coloro che peccano contro di noi.
Nelle offese personali, ingiurie, o anche nei difetti che osserviamo nella condotta di altri – soprattutto mancanze concernenti la Fede e i costumi, col rischio di suscitare qualche scandalo – non possiamo evitare di ammonire il nostro prossimo, per indifferenza, o peggio ancora, per disprezzo. Per mettere in pratica la direttiva del Signore, espressa nel versetto sopra, il nostro zelo deve essere pieno di fervore.
San Giovanni Climaco compara, con molto acume, la crudeltà di uno che toglie il pane dalle mani di un bambino affamato, con quella di colui che ha l’obbligo di correggere e non lo fa (1). Quest’ultimo causa un danno non solo al suo prossimo ma anche a se stesso. Si vedrà, per quest’omissione, privato dei meriti e benefici del compimento di questo dovere e finirà per scandalizzare quelli che costatano la sua negligenza.
Lo stesso capita in campo agricolo, poiché quanto più fertile è un terreno, più si deve lavorarlo per evitare che si trasformi in bosco e sterpaglia.
Evidentemente, nell’applicazione di questo precetto, non si deve agire sotto l’influsso di una qualche passione, per quanto minima sia. L’animo disinteressato è fondamentale. Ogni carità dovrà essere impiegata nel delicatissimo compito della riconciliazione.

L’obbligo di ammonire
La prima responsabilità – riconoscere il proprio errore – è di chi lo commette, però, lo zelo, la prudenza e l’amore verso Dio spettano a chi ha l’obbligo di ammonire. “Chi risparmia il bastone odia suo figlio, chi lo ama è pronto a correggerlo” (Pr 13, 24). Pertanto, è falsa tenerezza rinunciare ad applicare una necessaria correzione, giudicando con questa omissione di risparmiare un’amarezza a chi ne necessita. Chi si omette in questo modo, in realtà non solo è connivente con la mancanza praticata, ma dimostra di mal volere chi necessiterebbe dell’appoggio di una parola chiarificatrice. Questo sentimentalismo, disequilibrio ed equivocata indulgenza confermano nei loro vizi coloro che sbagliano.
È importantissimo che genitori, educatori, ecc. compiano in questa materia il loro dovere, poiché così ci insegna il Libro dei Proverbi: “La stoltezza è legata al cuore del fanciullo, ma il bastone della correzione l’allontanerà da lui” (22, 15). Del resto, è un vero segnale di grande amore ammonire per le loro mancanze gli inferiori; quando un padre così procede con suo figlio, desidera per lui il bene e la virtù.
La reciprocità in quest’amore deve essere una caratteristica di chi riceve l’ammonimento o rimprovero: “Figlio mio, non disprezzare l’istruzione del Signore e non aver a noia la sua esortazione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3, 11-12).
Se il superiore rinuncia ad ammonire quelli che gli sono affidati, è un chiaro segnale che non si sente amato come un padre; o non ama l’inferiore come un figlio, ed in questo caso non è raro che di lui si venga persino a mormorare. Scrivendo agli ebrei, San Paolo non ha timore di affermare: “È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre? Se siete senza correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete bastardi, non figli legittimi” (Eb 12, 7-8). Dunque, di fatto, il rimorso, il dolore per le nostre mancanze, il peso della coscienza, costituiscono un inestimabile dono di Dio.

Non risparmiare la verga a tuo figlio
Cornelio a Lapide, nella sua famosa opera di commenti sulle Sacre Scritture, così si esprime su questa questione: “Non risparmiare al bambino la correzione; se lo castigherai con la verga, egli non morirà, dice il Libro dei Proverbi (Noli subtrahere a puero disciplinam; si enim percusseris eum virga, non morietur). Castigalo con la verga e salverai la sua anima dall’inferno (Tu virga percuties eum et animam eius de inferno liberabis) (23, 13-14). La correzione è per il bambino quello che il morso è per il cavallo e il pungolo per i buoi.
I genitori che sono troppo indulgenti coi loro figli non li castigano, ma li espongono ai supplizi dell’inferno. Chi ha un’eccessiva indulgenza verso suo figlio, è il suo più crudele nemico. Così, padri e madri, se amate i vostri figli, applicate loro la verga delle correzioni, affinché non succeda che essi vadano a finire all’inferno: se li dispensate da quelli, sarà per condannarli a questo. Scegliete!
Ripetiamo: la salvezza e la felicità dei figli risultano da una buona educazione e dalla giusta severità dei genitori. Al contrario, una condiscendenza licenziosa e la mancanza di correzione sono il principio della cattiva condotta e della condanna dei figli: essi cadono in eccessi e crimini che li portano alla disgrazia eterna. Quanti figli, nell’inferno, maledicono i loro genitori e li riempiranno di imprecazioni per il resto dei secoli, per aver trascurato di rimproverarli, correggerli e castigarli, diventando così causa della loro eterna perdizione!
Si comprende l’odio di questi disgraziati, perché tali padri hanno dato loro, non la vita, ma la morte; non il Cielo, ma l’inferno; non la felicità, ma la ­disgrazia senza fine e senza limiti. Il bambino conserva fino alla sua vecchiaia e fino alla morte gli abitudini della sua infanzia e della sua gioventù, secondo le parole della Sacra Scrittura: ‘Abitua il giovane secondo la via da seguire; neppure da vecchio se ne allontanerà. (Adolescens juxta viam suam etiam *censura* senuerit non secedet ab ea) (Pr 22, 6). L’albero che presto si torce continua con la sua cattiva inclinazione fino a che sarà tagliato e gettato sul fuoco” (2).

Gratitudine verso chi corregge
Nella vita comune e corrente, non è raro che capiti di uscire di casa distrattamente trasandati nell’aspetto esteriore: calze dai colori differenti, vestiti mal combinati, ecc. Basta che, per carità, qualcuno ce lo faccia notare perché ci manifestiamo pieni di gratitudine; se, al contrario, nessuno ci dicesse niente, ce  ne risentiremmo. Ora, abbiamo un motivo maggiore, per ringraziare chi ci ammonisce per la nostra mancanza di virtù, soprattutto per ciò che può costituire uno scandalo.
Le considerazioni stesse di coloro che percorrono il cammino del paganesimo mostrano che i dettami della saggezza umana vanno nella stessa direzione riguardo a questo particolare. Plutarco afferma che dovremmo pagare bene i nostri avversari perché dicono le verità a nostro riguardo. Gli amici, secondo lui, sanno solo blandire, adulare e lusingare (3). È, d’altronde, quello che succede nelle relazioni abituali odierne, ossia, ci si imbatte in una correzione solo quando si stabilisce un’inimicizia, soltanto lì arriviamo a conoscere ciò che realmente gli altri pensano di noi.
Ugo di San Vittore sintetizza in modo sapiente i buoni effetti della correzione. Quando è accettata con umiltà e gratitudine, essa trattiene i cattivi desideri, colloca un freno alle passioni della carne, abbatte l’orgoglio, spegne l’intemperanza, distrugge la superficialità e reprime i cattivi movimenti dello spirito e del cuore (4). È per questo che guadagniamo un fratello quando siamo ascoltati con buona disposizione da parte di chi correggiamo, poiché gli restituiamo la vera pace dell’animo e lo riconduciamo sulla via della salvezza.

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28 agosto – XXII Domenica del Tempo Ordinario

Ventiduesima Domenica del Tempo Ordinario – Ciclo A

 

Letture
I Lettura: Ger 20,7-9;
Salmo: Sal 62;
II Lettura: Rm 12, 1-2;
Vangelo: Mt 16, 21-27

 

NESSO TRA LE LETTURE
Il cammino della propria vocazione passa necessariamente per la croce. Vogliamo proporre questa affermazione come il fulcro delle letture di questa domenica ventiduesima del tempo ordinario. Geremia, nelle sue famose confessioni, ci mostra fino a che punto porta l'esperienza drammatica della vocazione, della chiamata di Dio a realizzare il compito della propria vita. Egli sa che è stato chiamato da Dio a una missione ardua e difficile. Tuttavia, a un certo punto si sente tradito da Dio: tutta la sua vita non è stata altro che "distruggere", e non si vede da nessuna parte la realizzazione della promessa divina della costruzione del popolo di Dio. Si sente sedotto e ingannato. Se Geremia non lo avesse manifestato, nessuno avrebbe potuto intuire la profondità del suo scoraggiamento e la prova tanto dolorosa che la sua fede stava affrontando (prima lettura). La lettera ai Romani esprime invece una verità molto più consolatrice, ma non per questo meno esigente. Ci esorta a offrire i nostri corpi come ostia vivente, santa e gradita a Dio. Cioè, ci esorta al sacrificio. Ci invita a vivere la vita e la vocazione come un'offerta a Dio uno e Trino. Tuttavia questa esortazione non giunge se non dopo che è stato annunciato il "vangelo", cioè il piano salvifico di Dio, in Gesù Cristo. La grazia del dono precede la richiesta dell'offerta (seconda lettura). Nel Vangelo Cristo annuncia con chiarezza ed esigenza che è necessario prendere il cammino della croce per salvare gli uomini. Chi vuole seguire Cristo fedelmente, dovrà prendere la sua croce e mettersi in cammino. Il messaggio cristiano è un messaggio di gioia pasquale, che però passa per la croce (Vangelo).

MESSAGGIO DOTTRINALE
1. La vocazione cristiana. La parola "vocazione" descrive molto bene le relazioni che Dio realizza con ciascun essere umano nell'amore. In realtà, "ogni vita è una vocazione", come diceva Paolo VI (Paolo VI, Lett. Enc. Populorum progressio, 15), perché è una chiamata a svolgere un compito speciale nella costruzione del mondo e nell'opera della salvezza. Quando parliamo di vocazione cristiana, tuttavia, ci riferiamo ad una vocazione specifica. Si tratta di una chiamata a "vivere in Cristo" e a far sì che "Cristo sia tutto in tutti". La vita cristiana è vocazione nel senso che Dio inizia con la sua creatura un dialogo di amore. La fa sentire amata. Amata eternamente di un amore infinito e, qualche volta, la invita a prender parte del suo stesso amore, che si riversa nei cuori. La vocazione cristiana è perciò l'invito a passare dal livello iniziale della semplice osservanza dei comandamenti a un livello più elevato della donazione, dell'imitazione di Cristo. Vocazione-donazione-amore che si offre, possono essere tre sinonimi di una stessa realtà profonda. Chi non prende la sua vita come una vocazione e missione è costretto a vivere nel tedio, nel passatempo banale, nel piacere effimero. "L'aspetto più sublime della dignità dell'uomo – leggiamo nel documento conciliare Gaudium et Spes – consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio. Se l'uomo esiste, infatti, è perché Dio lo ha creato per amore e, per amore, non cessa di dargli l'esistenza; e l'uomo non vive pienamente secondo verità se non riconosce liberamente quell'amore e se non si abbandona al suo Creatore" (GS, n. 19). E così, perciò, la chiamata alla comunione con Dio è la nostra vocazione essenziale come uomini e come cristiani. È importante tenere nella nostra mente e nel nostro cuore queste verità fondamentali affinché la nostra vita e la nostra stessa esistenza non si perdano nella noia e nella perdita di tempo. La comunione con Dio è la nostra metà finale, ma è anche una meta che ha inizio in qualche modo qui sulla terra.

Dunque, questa vocazione in Cristo è una chiamata a partecipare al mistero pasquale. Cioè a partecipare alla passione, morte e resurrezione del Signore. Il Signore, chiamandoci alla fede cristiana, non ci ha lasciati come semplici spettatori passivi della redenzione, perché, infatti, ci ha detto: 'vieni a prendere parte alla lotta del bene contro il male, accogli questa singolare chiamata a redimere insieme a me l'umanità, attraverso la tua sofferenza, delle vicissitudini della tua vita e della tua stessa morte. Vieni, partecipa'. "Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me che sono in carcere per Lui; ma soffri anche tu insieme con me per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia che ci è stata data da Cristo Gesù fin dall'eternità". Il Signore ci ha chiamati ad una vocazione santa da tutta l'eternità. Il cristiano è un uomo convocato, un uomo chiamato a vivere una nuova vita, la vita in Cristo. Si tratta di una chiamata divina. Non è un'iniziativa personale, non è un prodotto delle opere o un merito personale. È semplicemente un dono di Dio. E questo dono passa per la croce e per la sofferenza, come abbiamo visto nella vita dell'apostolo e nella drammatica testimonianza di Geremia. Quest'uomo, di carattere mite e tranquillo, deve passare la vita combattendo per il suo popolo e annunciando calamità. Si sente preso in giro e ingannato perfino da Dio stesso. Decide di non accordarsi più con il suo creatore, ma non può, è come una fiamma che brucia le sue viscere. Sì, la vocazione passa per momenti di totale oscurità, di sofferenza tanto radicale che sembra che Dio ha abbandonato il suo "chiamato". Ma Dio non si dimentica. I suoi doni sono senza pentimento. Potrà forse una madre scordarsi del figlio del suo ventre, ma Dio non si dimentica delle sue creature. Se si guarda la vocazione cristiana da questa prospettiva, cambiano molte cose nella nostra scala di valori. La croce allora non sarà più quella triste realtà, che bisogna evitare a tutti i costi. No, la croce sarà un cammino di santificazione. Del resto tutti hanno croci e sofferenze, ma mentre qualcuno si ribella contro il Creatore, altri invece compiono umilmente la loro parte che a loro corrisponde nella storia della salvezza. In fondo, si tratta di comprendere il senso della croce, di comprenderne il suo senso salvifico, di comprendere il cammino di felicità e pace interiore che passa per la strada stretta del calvario e della accettazione gioiosa della croce.

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21 agosto – XXI domenica del tempo ordinario

Omelia della XXI domenica del Tempo Ordinario

 

Letture
I Lettura: Is 22,19-23;
Salmo: Sal 137;
II Lettura: Rm 11, 33-36;
Vangelo: Mt 16, 13-20

 

NESSO TRA LE LETTURE
“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. La confessione di Pietro nel Vangelo di questa domenica ci porta a concentrare su di essa tutta la nostra attenzione. Pietro menziona due verità fondamentali: la messianicità e la divinità di Cristo. Egli è il Messia, colui che è venuto per salvare il suo popolo, l'Unto del Signore, il Figlio di Dio. Gesù, rivolgendosi agli apostoli, domanda loro: "la gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?" Gli apostoli, senza troppo impegno rispondono che qualcuno pensava fosse Giovanni il Battista, altri Geremia o qualcuno dei profeti. In effetti Gesù aveva fatto già vari miracoli, e parecchie predicazioni e per questo la sua fama cominciava ad estendersi.
In ogni modo, Gesù desiderava sapere quale fosse il pensiero dei suoi uomini: "E voi, chi dite che io sia?". Da questa risposta dipende il senso delle loro vite. Da questa risposta dipendeva il senso del sacrificio che avevano fatto lasciando ogni cosa per seguire Gesù. Pertanto non era una risposta che si poteva dare in modo leggero e superficiale. Bisognava meditare prima di parlare. Per ciò dobbiamo ringraziare Pietro per la sua risposta, perché questa orienta anche tutte le nostre risposte che noi possiamo offrire riguardo all'identità di Gesù. Dobbiamo ringraziare il Padre che dal cielo rivela a Pietro l'identità del suo Figlio. "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". Gesù è il Messia, cioè colui che Dio ha unto con lo Spirito Santo per realizzare la missione di salvezza degli uomini e per riconciliarli con Dio. Gesù è colui che viene a instaurare il Regno di Dio. L'atteso dalle nazioni. Gesù Cristo è il Figlio del Dio vivente: e nel caso di Gesù, l'espressione Figlio di Dio, a differenza del caso in cui si riferisce ad un qualsiasi essere umano, creatura di Dio, ha un senso pienamente proprio. Cioè qui Pietro riconosce il carattere trascendente della filiazione divina, e perciò Gesù afferma solennemente: "né la carne, né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei Cieli" (Vangelo). Ha le idee chiare Paolo quando, dopo una lunga meditazione sul mistero della salvezza, afferma che i piani divini sono ineffabili: "o profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio!" (Seconda Lettura). Effettivamente, quando uno contempla il piano della salvezza e comprende, per quanto ciò sia possibile, che Dio si è incarnato per amore dell'uomo, non può fare a meno di prorompere in un canto di gioia e in una disponibilità totale al piano divino. E così, dopo la sua confessione, Pietro riceve il primato: sarà la roccia della Chiesa e custodirà le chiavi del Regno dei Cieli.

MESSAGGIO DOTTRINALE
1. Gesù è il Messia. La parola Messia significa "unto". In Israele erano "unti" coloro che erano consacrati per una missione ricevuta da Dio. Erano re (cf. 1 Sam 9, 16; 10, 1; 16, 1. 12-13; 1 Re 1, 39), sacerdoti (cf. Es 29, 7; Lv 8, 12) e, eccezionalmente profeti (cf. 1 Re 19, 16). E per eccellenza sarebbe stato "unto" per eccellenza il Messia inviato da Dio per instaurare definitivamente il suo Regno (cf. Sal 2, 2; At 4, 26-27). Il Messia doveva essere unto dallo Spirito del Signore (cf. Is 11, 2) allo stesso tempo come re e sacerdote sacerdote (cf. Zc 4, 14; 6, 13) e però anche come profeta. (cf. Is 61, 1; Lc 4, 16-21). Gesù portò a compimento la speranza messianica di Israele nella sua triplice funzione di sacerdote, profeta e re (cf. Catechismo della Chiesa cattolica, 436). Gli angeli annunciarono ai pastori: "Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo (il Messia, l'Unto) Signore" (Lc 2,11). Gesù è colui che il Padre ha santificato e inviato al mondo. Questa consacrazione messianica manifesta la sua missione divina: Gesù è venuto per glorificare il Padre e salvare gli uomini, seguendo il piano divino. Molti suoi contemporanei scoprirono in Gesù il Messia che doveva venire: Simeone, Anna, la gente che lo acclamava Figlio di David.

Tuttavia lo stile di Messia che Gesù incarna cozza fortemente contro le speranze dei sommi sacerdoti, che speravano in un messianismo di tipo politico. Vedere invece un Messia umile che parla di povertà, di sofferenza, di beatitudini, risultava per loro del tutto incomprensibile. Anche gli stessi apostoli, nel momento dell'Assunzione esprimono la speranza che Gesù manifesti tutto il suo potere: "Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il Regno di Israele?" (At 1,6). La comprensione del messianismo di Gesù avvenne per gli apostoli in modo lento e progressivo. Essi dovevano entrare dentro se stessi e meditare tutta l'opera di Cristo, dovevano giungere a comprendere "che era necessario che Gesù soffrisse per entrare nella sua gloria". Gesù mette un impegno particolare nel purificare la concezione messianica dei suoi apostoli. La sua missione di Messia ripeterà i passi del servo sofferente, sarà necessario che il Messia sia rifiutato dagli anziani, che lo si condanni a morte e risusciti il terzo giorno. Gesù, che in tutta la sua vita era stato "riservato" a ricevere il titolo di Messia, cambia atteggiamento davanti alla domanda del Sommo sacerdote: " 'Ti scongiuro per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio'. 'Tu l'hai detto, gli rispose Gesù, anzi io vi dico: d'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo' " (Mt 26,63). Non è vero forse che noi, come gli apostoli, dobbiamo purificare la nostra concezione su Cristo, sulla sua missione e su come metterci alla sua sequela? Non è vero forse che, anche noi, dobbiamo entrare nel mistero di Cristo e vedere che Egli è il capo e noi siamo le sue membra e ciò che si è verificato nel capo anche i membri lo riprodurranno? In fondo si tratta di scoprire il senso della missione della propria vita, il senso della donazione per amore nel sacrificio, il senso dell'amore alla verità per dar gloria a Dio e agli uomini. "Dar gloria a Dio": questo potrebbe essere il motto della vita del cristiano. Sii innestato nella vita di Cristo, unto, fa parte del suo sacerdozio reale, sii popolo di sua proprietà, dai gloria a Dio con la tua vita, con le tue sofferenze, con le tue gioie, con la tua morte.

2. Gesù è il Figlio di Dio. "Figlio di Dio", nell'Antico Testamento è un titolo dato agli angeli (cf. Dt 32, 8; Gb 1, 6), al popolo eletto (cf. Es 4, 22; Os 11, 1; Ger 3, 19; Sir 36, 11; Sap 18, 13), ai figli di Israele (cf. Dt 14, 1; Os 2, 1) e ai suoi re (cf. 2 Sam 7, 14; Sal 82, 6). Significa una filiazione adottiva che Dio stabilisce con le sue creature, relazione di particolare intimità. Quando il Re-Messia promesso è chiamato "Figlio di Dio" (cf. 1 Cr 17, 13; Sal 2, 7), non implica necessariamente, secondo il senso letterale di questi testi, che sia qualcosa di più che umano. Quelli che designarono così Gesù, in quanto Messia di Israele (cf. Mt 27, 54), forse non poterono dire niente di più (cf. Lc 23, 47). (Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 441). Tuttavia, il caso di cui ci stiamo occupando è diverso. Quando Pietro confessa Gesù come "il Cristo, il Figlio del Dio vivo" (Mt 16, 16) fa una confessione della divinità del Messia. Perciò Cristo risponde con solennità: "né la carne, né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei Cieli" (Mt 16, 17). Parallelamente, Paolo dirà a proposito della sua conversione sul cammino di Damasco: "Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani…" (Gal 1,15-16), "e subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio" (At 9, 20). Questo sarà fin dal principio (cf. 1 Ts 1, 10), il centro della fede apostolica (cf. Gv 20, 31) professata in primo luogo da Pietro come fondamento della Chiesa (cf. Mt 16, 18).

Se Pietro ha potuto riconoscere il carattere trascendente della filiazione divina di Gesù Messia, questo è stato perché Egli lo ha lasciato intendere chiaramente. I vangeli ci riportano due momenti solenni, il battesimo e la trasfigurazione di Cristo, nei quali la voce del Padre lo indica come il suo "Figlio prediletto" (Mt 3,17; 17,5). Gesù definisce se stesso come "il Figlio unigenito di Dio" (Gv 3, 16) e afferma, mediante questo titolo, la sua esistenza eterna (cf. Gv 10, 36). Chiede la fede nel " Nome del Figlio unigenito di Dio" (Gv 3, 18). Questa confessione cristiana compare già nell'esclamazione del centurione, davanti a Gesù sulla croce: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio" (Mc 15, 39), perché solamente nel mistero pasquale il credente può trarre il senso pieno del titolo "Figlio di Dio". Anche il mondo di oggi trova delle difficoltà a comprendere la divinità di Cristo. Nella comunità dei credenti pare oscurarsi questa verità fondamentale della nostra fede. Il Credo che recitiamo ogni domenica afferma la divinità di Gesù Cristo: "Credo in Gesù Cristo, Figlio Unigenito di Dio. Nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, luce da luce". È importante che questa nostra predicazione aiuti le persone a scoprire le meraviglie del piano divino e la profondità dell'incarnazione. Dio, nel suo immenso amore, si è fatto uno come noi, per condurci al Padre.

SUGGERIMENTI PASTORALI
1. Importanza della catechesi sulla divinità di Cristo. I mezzi di comunicazione: periodici, libri, riviste, televisione, cinema ecc., offrono non poche volte una visione distorta di Cristo. Viene presentato come un uomo magnifico, di grandi ideali, però un semplice uomo, la cui dottrina si può paragonare con quelle degli altri grandi personaggi o leader religiosi, ma non si dice niente sulla sua divinità, la si nasconde e la si sciupa. Noi fedeli siamo esposti a tutte queste informazioni o, meglio, disinformazioni. È perciò importante, in certi casi urgente, buttar via tutti questi mezzi a disposizione, per avere un'adeguata catechesi su questi punti essenziali della fede. Una catechesi dei bambini che origina dal ventre materno, ma che incontra un momento privilegiato nella catechesi per la prima comunione. Le prime nozioni apprese in famiglia non si dimenticano, ma penetrano soavemente e definitivamente nell'anima accompagnandoci durante tutto il cammino della vita. Una catechesi dei giovani, nella quale si pongono i più seri problemi della vita e si apre il ventaglio dell'esistenza. È questo il momento in cui si scopre il proprio "io" e si stabilisce un dialogo profondo con Cristo Signore. Catechesi per adulti, quando, passate le prime età della vita, si sono cristallizzate le abitudini e le disposizioni dell'uomo e della donna, e la persona passa un momento di aggiustamento profondo della sua esistenza. Quanto bene potremo fare all'uomo mostrando Cristo, il Figlio di Dio venuto sulla terra per salvarlo e riconciliarlo con il Padre. Mostrare che Lui è la rivelazione del Padre e che grazie a Lui abbiamo accesso al cielo, alla vita eterna. Questa è la speranza che vince qualsiasi pena e la sfida della vita eterna.

2. L'amore per il Papa. La liturgia di oggi ci invita a incrementare il nostro amore e la nostra adesione al Papa, come successore di Pietro e vicario di Cristo. Vediamo in lui il Buon Pastore, la roccia sulla quale si edifica la Chiesa, colui che detiene le chiavi del Regno dei Cieli. Non lasciamolo solo nella sua sofferenza per la Chiesa, accompagniamolo, invece, non solo con la nostra preghiera, ma anche con le nostre personali sofferenze e con l'azione apostolica. È opportuno ripetere ciò che Giovanni Paolo ha detto a una religiosa di clausura all'inizio del suo pontificato: "Conto su di voi, sulla vostra preghiera e il vostro sacrificio". Che il Papa, successore di Pietro, possa contare anche con noi, per la "Nuova Evangelizzazione".

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14 agosto 2011 – XX domenica del tempo ordinario

Commento al Vangelo – XIX Domenica del Tempo Ordinario

Tutto si ottiene per mezzo della Fede!
“Verbum Domini manet in aeternum”, la parola di Dio rimane in eterno. Il Vangelo di oggi sulla Fede della Cananea si può applicare interamente, fin nei suoi minimi particolari, alla nostra quotidianità. Come ottenere ciò di cui abbiamo bisogno e che chiediamo? Quale deve essere la relazione tra Fede e preghiera? Ecco alcune nozioni indispensabili alla nostra esistenza esemplarmente illustrate in queste considerazioni.
di Mons. João Scognamiglio Clá Dias
fondatore degli Evangeli Praecones
courtesy of
http://www.salvamiregina.it

 

La donna cananea
21 Partito di là, Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone. 22 Ed ecco una donna Cananea, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio”. 23 Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i discepoli gli si accostarono implorando: “Esaudiscila, vedi come ci grida dietro”. 24 Ma egli rispose: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele”. 25 Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: “Signore, aiutami!”. 26 Ed egli rispose: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”. 27 “È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. 28 Allora Gesù le replicò: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri”. E da quell’istante sua figlia fu guarita. (Mt 15, 21-28).

 

I – Introduzione: Giudei e Cananei
I nemici di Gesù erano estremamente irritati per la predicazione di una nuova dottrina dotata di potere di attrazione e di conversione. Gesù, con la sua Sapienza infinita, per ragioni diplomatiche ha deciso di ritirarSi per qualche tempo evitando il contatto con i suoi avversari, al fine di calmarne gli animi esaltati. Era l’atteggiamento più indicato in quelle circostanze, secondo quanto si può dedurre dalla narrazione fatta da due Evangelisti (1). Attraversando la Galilea superiore, a nordest si trovava il territorio di Tiro e Sidone (nell’attuale Libano), abitato da pagani di etnia cananea, molto ostili ai giudei di allora, secondo quanto ci riferisce il famoso storico ebreo Flavio Giuseppe (2).
A proposito se Gesù sia entrato o meno  in quelle città fenicie, gli esegeti discordano. Alcuni mantengono un buon margine di dubbio, considerato il senso vago delle espressioni utilizzate da entrambi i Vangeli, quando si riferiscono a questo viaggio, nonostante menzionino esplicitamente la regione. Le argomentazioni degli altri vanno in senso contrario. Questi ricordano che Elia era già stato in quei paraggi (3) e si chiedono se fosse stato conveniente per il Signore entrare in terre pagane, anche se non per esercitare il suo ministero.
La questione di fondo è legata a fatti più antichi.
Di ritorno dalla schiavitù in Babilonia, il popolo giudeo ha impiegato più di un secolo per insediarsi nuovamente in Palestina (dal 538 a.C. al 398 a.C.). Per un certo periodo (approssimativamente nel 458 a.C.), un secondo nucleo di rimpatriati ha potuto contare al suo interno su una figura di spicco: Esdra. Tra le sue numerose iniziative vi era quella che mirava a dare nuovo impulso ai costumi e ai precetti prescritti da Mosè, in modo particolare a quelli relativi ai matrimoni misti. È stata in questa occasione che sono state escluse dal popolo giudeo tutte le donne cananee, con i loro rispettivi figli (4). Oltre a ciò, un altro profeta, Neemia, spinto da santo zelo, in un periodo successivo, ha espulso da Gerusalemme i mercanti della città di Tiro, così come ha preso severe misure per separare il popolo eletto dagli stranieri (5)

 

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7 agosto 2011 – XIX domenica del tempo ordinario

Commento al Vangelo – XIX Domenica del Tempo Ordinario

Fino a dove deve arrivare la nostra fede
La barca con gli Apostoli è in balìa della tempesta: potrebbe essere l’immagine della Chiesa in lotta, nei mari di questo mondo, in piena notte, con l’obiettivo di approdare sulle rive del Regno Eterno.
João Scognamiglio Clá Dias
fondatore degli Evangeli Praecones
courtesy of
http://www.salvamiregina.it

Subito dopo ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull'altra sponda, mentre egli avrebbe congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù. La barca intanto distava già qualche miglio da terra ed era agitata dalle onde, a causa del vento contrario. Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare. I discepoli, a vederlo camminare sul mare, furono turbati e dissero: "È un fantasma" e si misero a gridare dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro: "Coraggio, sono io, non abbiate paura". Pietro gli disse: "Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque". Ed egli disse: "Vieni!". Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma per la violenza del vento, s'impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: "Signore, salvami!". E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: "Uomo di poca fede, perché hai dubitato?". Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti, esclamando: "Tu sei veramente il Figlio di Dio!" (Mt 14, 22-33).

I – La moltitudine voleva proclamarLo re

Ecco il grande Profeta, atteso da secoli! Ecco colui che è stato annunciato da Mosè! Ecco il figlio di Davide!". Tra grida e acclamazioni, sembrava si stesse realizzando in Galilea il trionfo di Gesù. In forma sintetica, ma molto espressiva, San Giovanni è l’unico evangelista a narrare la forte impressione prodotta dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci in coloro che ne beneficiarono, come abbiamo potuto contemplare la precedente domenica, XVIII del Tempo Ordinario.

I testimoni del miracolo, oltre ad aver molto apprezzato il cibo, rimasero psicologicamente colpiti dal potere di quel Gesù di Nazaret, convinti che fosse realmente Lui il Profeta che sarebbe dovuto venire al mondo.

Altra era, invece, la realtà vista dagli occhi di Gesù. Quello che sembrava il maggiore successo della sua vita, era, nella concretezza dei fatti, il maggior pericolo che la sua opera poteva correre. Ecco perchè Egli ha impiegato la sua forza e saggezza divina per indirizzare bene questo spontaneo e frizzante entusiasmo.

Concezioni erronee riguardo al messianismo

Tutti erano convinti di trovarsi dinnanzi a quel Messia tanto commentato e anelato. E, senza dubbio, avevano ragione! Infatti era Lui il preannunciato dai Profeti, l’atteso da Patriarchi e Re, e il promesso da Dio ad Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre. Era il Salvatore. Ma non corrispondeva al modello creato, nel corso dei tempi, dal Popolo Eletto. Non era un leader politico nazionalista, terrestre e carnale; ma piuttosto il Messia, nel contempo uomo e Dio, celeste e spirituale.

Egli stesso dirà a Pilato che il Suo Regno non è di questo mondo e, pertanto, con nulla in comune con gli altri regni tanto dibattuti e ambiti da un’opinione pubblica obnubilata.

Era dovuto a questo equivoco il desiderio del popolo, eccitato all’estremo, di appropriarsi del Signore e di proclamarLo immediatamente re di Israele, anche se contro la Sua Divina Volontà.

A questo punto della vita pubblica di Gesù – noi ci troviamo nel quattordicesimo capitolo di San Matteo, che corrisponde al sesto di San Giovanni -, nulla portava a blandire l’infondata ambizione del popolo, nemmeno le mirabolanti idee dei dottori della legge, farisei, sacerdoti, ecc. In ogni caso, né gli uni né gli altri hanno voluto comprendere e neppure vedere o intuire, le linee generali delineate dal Signore riguardo l’annuncio della Buona Novella. Pochi presenti si sono resi conto, e comunque anch’essi in modo insufficiente, delle bellezze che il Salvatore portava.

Tali concezioni erronee riguardo il messianismo, fermentate nel corso dei secoli all’interno del popolo eletto, hanno prodotto un’incompatibilità tra le moltitudini e Gesù, rendendo più profondo, ad ogni passo, l’immenso abisso che le separava dal Vangelo. Sarebbe proprio a partire da questo punto che molti discepoli Lo avrebbero abbandonato; infatti pensieri simili, sebbene con meno acume e sostanza, si annidavano perfino nello spirito degli Apostoli.

Problema quasi insolubile per l’intelligenza umana

Incomparabilmente più dinamica di loro, accecata dalle sue idee fisse, la moltitudine non riusciva a raggiungere le vette della dottrina predicata da Nostro Signore, a proposito del vero Regno messianico, né desiderava abbandonare i suoi preconcetti distorti sulla figura del Messia.

Quegli uomini vedevano in Gesù il capo che li avrebbe portati a conquistare il potere per mezzo di miracoli portentosi e, abbacinati dagli aspetti sovrumani della moltiplicazione dei pani e dei pesci, progettavano di condurre il Signore a Gerusalemme, per proclamarLo re.

Momenti di grande perplessità e suspense: che fare? Per un’intelligenza puramente umana, la situazione era intricata, confusa e quasi insolubile. Sappiamo quanto le agitazioni popolari siano terribili quando arrivano al parossismo: ingaggiano le personalità più forti e attirano quelli più abili, con decisioni molte volte impensate, frutto di puro impulso. Ma tutto questo costituisce per Gesù un problema estremamente facile da risolvere.

Incipiente rivoluzione sventata in un sol colpo

Subito dopo ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull'altra sponda, mentre egli avrebbe congedato la folla.

Se Gesù fosse rimasto con la moltitudine, insieme con i suoi discepoli, probabilmente questi si sarebbero lasciati influenzare dall’esaltazione di tutti. Infatti, coltivavano anche loro il sogno di essere liberati dal giogo romano e di conquistare il mondo intero.

Se, d’altra parte, Egli fosse partito con i suoi discepoli per altri luoghi, l’esaltazione della folla non avrebbe fatto altro che aumentare e, all’improvviso, sarebbe potuta sfociare in una rivoluzione nella stessa Galilea. La Storia ci insegna quanto questi momenti portino, alle volte, a veri incendi le cui fiamme divorano tutto.

Gesù constatò fino a che punto la moltitudine si lasciasse prendere dall’idea di un trionfo politico-sociale. Non c’era chi fosse in grado di frenarla da una glorificazione umana del Signore. Era convinta che proclamarLo re avrebbe portato come conseguenza la fondazione brillante dell’atteso regno terreno.

Di fronte a questo delirio popolare, la prima preoccupazione di Gesù è stata quella di salvare i suoi discepoli. E così ha proceduto senza perdere un secondo. Per questo motivo "ha obbligato i suoi discepoli a salire in barca". Don Manuel Tuya, OP commenta in questo modo: "Così facendo, disfaceva in un sol colpo tutta quella incipiente rivoluzione pseudo-messianica" (1).

Gesù mira ad irrobustire la Fede dei discepoli

Visualizzando un altro aspetto di questo procedimento del Divino Maestro, San Giovanni Crisostomo analizza l’accaduto, dal punto di vista della vita spirituale e della formazione morale dei suoi Apostoli: "Volendo il Signore dare loro l’opportunità di fare un minuzioso esame di quello che era avvenuto, ordinò che si separassero da Lui tutti quanti avevano assistito al miracolo e ricevuto come prova i cesti con gli avanzi; perché poteva sembrare che, essendo Lui presente, avesse fatto loro immaginare una cosa che di fatto non si era realizzata; invece, essendo Lui assente, era impossibile dare al miracolo questa spiegazione" (2).

Teofilatto condivide la stessa opinione, ed è assolutamente possibile che l’intenzione di Gesù sia stata quella di rendere più robusta la Fede dei discepoli. Comunque, non c’è mai una ragione soltanto per spiegare i Suoi gesti, gli atteggiamenti e le parole. Per questo Matteo e Giovanni presentano ragioni diverse per spiegare la partenza degli Apostoli verso l’altra sponda (3).

Dominio sulla moltitudine

Su questo passaggio, nelle sue omelie 50 e 51, San Giovanni Crisostomo tesse altre considerazioni a beneficio della nostra vita spirituale: "È necessario tener presente che, quando opera grandi cose, il Signore congeda le moltitudini, facendoci capire che non dobbiamo mai cercare il plauso popolare, né fare in modo che il popolo ci segua" (4).

Gesù, nel suo potere umano-divino, incantava, seduceva e dominava la moltitudine, ma non permetteva mai che essa avesse su di Lui una qualche emprise. In quei tempi di frequenti insurrezioni e agitazioni, le turbe erano abituate ad acclamare come salvatori della patria questi e quegli pseudo eroi. Con Gesù, su questa materia, non sono approdati a nulla, poiché Lui era determinato a fare la volontà del Padre; e non solo nel caso Suo, ma anche per tutti i suoi discepoli lungo i secoli, la norma sarà sempre fuggire da tutti quelli che cercano di pregiudicare o deviare il richiamo di Dio.

Preghiera in cima al monte

Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù.

In che cosa sia consistita la preghiera di Gesù, in cima al monte, è per noi un mistero. La Sua anima si trovava nella Visione Beatifica e, pertanto, aveva una nozione chiara di quali erano i disegni di Dio. La Sua conoscenza divina è eterna, per il fatto che Egli è la seconda Persona della Santissima Trinità. Inoltre, la sua conoscenza sperimentale umana si svolgeva in ogni momento.

Certissimo è che questa preghiera è stata fervorosa e perfetta ed è consistita in rendimenti di grazia, lode, adorazione ed anche suppliche forti e definite. Attraverso queste preghiere Egli esercitava la Sua missione di Pontefice Supremo, Sacerdote dell’Altissimo.

Che cosa avrà chiesto? Lagrange solleva un’interessante ipotesi: "Essendo il miracolo dei pani un simbolo dell’Eucaristia, non è forse da pensare che in questa occasione Gesù abbia chiesto a Suo Padre di concedere questa grazia alla Sua Chiesa, ringraziandoLo anticipatamente a nome nostro per questo beneficio?" (5).

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Continua a leggere7 agosto 2011 – XIX domenica del tempo ordinario

Diciottesima Domenica del Tempo Ordinario

Diciottesima Domenica del Tempo Ordinario – Ciclo A


Commento al Vangelo

[Mt 14,13-21] Udito cio`, Gesu` parti` di la` su una barca e si ritiro` in disparte in un luogo deserto. Ma la folla, saputolo, lo segui` a piedi dalle citta`. Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e senti` compassione per loro e guari` i loro malati. Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: "Il luogo e` deserto ed e` ormai tardi; congeda la folla perche' vada nei villaggi a comprarsi da mangiare". Ma Gesu` rispose: "Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare". Gli risposero: "Non abbiamo che cinque pani e due pesci!". Ed egli disse: "Portatemeli qua". E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull'erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunzio` la benedizione, spezzo` i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.

1 – Contesto storico-geografico:
marzo del 29 d.C. (Vanetti); prima di Pasqua (cf Gv 6,4), con l'erba ancora verde (Mc 6,39; cf v. 19 e Gv 6,10), in prossimita` di Betsaida (Lc 9,10).

Perche' Gesu` si ritira in disparte?
a) Per evitare la persecuzione di Erode che lo credeva Giovanni Battista resuscitato (Crisostomo, Teofilatto, Eutimio); Gesu` e` padrone della sua ora e consegnera' la sua vita liberamente al momento giusto.
b) Per dare occasione di riposo spirituale ai discepoli che erano ritornati dalla loro missione (cf Mc 6,31)
c) Per mostrare ai futuri predicatori e carismatici come si debba fuggire il plauso delle folle e la vana gloria (C. a Lapide)

2 – Articolazione letteraria della pericope
La narrazione del miracolo si trova inclusa tra:
a) indicazione che Gesu' che si ritira in preghiera v 13 – v 23
b) indicazione dei suoi sentimenti e la sua sollecitudine per le folle v 14 – vv 22-23

Cf vv 22-23, non inclusi nella lettura liturgica, ma parti integranti della pericope: "Subito dopo ordino` ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull'altra sponda, mentre egli avrebbe congedato la folla. Congedata la folla, sali` sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù".

3 – Considerazioni
Il miracolo non e' solo un intervento dell'amore di Gesu' per l'umanita` bisognosa, ma il coivolgimento dei discepoli in questo stesso amore e in questo stesso intervento: "date voi stessi loro da mangiare": il miracolo anticipa sia la Pasqua (la moltiplicazione per eccellenza e` l'Eucaristia), sia l'attrazione dei discepoli nella sfera di una collaborazione indipensabile – per scelta divina – all'economia della salvezza.
Non e` piu` la manna che discende dal cielo (assenza di cibo, Dio e il popolo, senza intervento di alcuno), ma: il pane che c'e` gia`, moltiplicato miracolosamente da Gesu` e distribuito dai discepoli. La manna succedeva al nulla e pioveva dal cielo, il pane moltiplicato succede a cinque pani che ci sono gia` ed e` distribuito dagli apostoli. Viene cosi` rivelata la collaborazione della creatura umana, necessaria nella nuova Economia. Il discepolo che non riesce neppure ad immaginare che cosa Dio puo` fare per l'uomo ("Il luogo e` deserto ed e` ormai tardi; congeda la folla perche' vada nei villaggi a comprarsi da mangiare") si trova ora profondamente trasformato (vita di grazia, misericordia e zelo apostolico) e dispensatore delle ricchezze del Cuore di Cristo.

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