Dieci anni dopo Pechino, il Vaticano manda avanti la sua donna
È Mary Ann Glendon, capodelegazione della Santa Sede alle Nazioni Unite. I perché dell’opposizione della Chiesa di Roma alla politica dell’ONU sulle donne. Ed è battaglia anche sulla clonazione umana
di Sandro Magister
ROMA, 14 marzo 2005 – Il Vaticano ha celebrato l’ultima festa della donna a modo suo: inviando a New York, alla sessione speciale della Commissione dell’ONU sulla Condizione delle Donne, un’agguerrita delegazione capeggiata da Mary Ann Glendon (nella foto), docente di diritto all’università di Harvard e prima donna chiamata a presiedere un organismo vaticano, la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.
La sessione si è svolta al Palazzo di Vetro dal 28 febbraio all’11 marzo, nel decimo anniversario della Conferenza Mondiale sulle Donne organizzata dall’ONU a Pechino nel 1995, per fare il punto sull’attuazione degli obiettivi fissati da quella conferenza.
Già a Pechino Mary Ann Glendon, che anche allora faceva parte della delegazione vaticana, non era stata tenera con gli indirizzi dell’ONU:
“La conferenza vuole contrastare le violenze patite dalle donne? Giusto. E allora prendiamone nota. Tra le violenze ci sono i programmi obbligatori di controllo delle nascite, le sterilizzazioni forzate, le pressioni ad abortire, la preselezione dei sessi e la conseguente distruzione dei feti femminili”.
E ancora:
“Molti che propongono l’aborto come un diritto della donna non hanno minimamente a cuore gli interessi veri delle donne. All’ombra del movimento per il diritto d’aborto si muovono uomini irresponsabili, traffici di prostituzione, industrie che traggono i loro profitti dai corpi delle donne”.
Ma anche questa volta la professoressa Glendon è stata severa. Nel suo intervento, il 7 marzo, ha tracciato un bilancio negativo dei risultati della conferenza di Pechino. Ha mostrato che la povertà nel mondo continua a pesare più sulle donne che sugli uomini; e che questo vale anche nei paesi ricchi, dove “c’è una forte correlazione tra la disgregazione delle famiglie e la femminilizzazione della povertà”.
Inoltre, ha avuto parole dure per quei “gruppi d’interesse che sostengono di parlare a nome delle donne ma spesso, delle donne, non hanno a cuore gli interessi veri”.
Ma l’attacco più forte è venuto dal pronunciamento ufficiale della delegazione vaticana nel suo insieme, pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 9 marzo:
“La Santa Sede condivide le preoccupazioni di altre delegazioni circa gli sforzi di presentare i documenti finali di Pechino come creatori di nuovi diritti internazionali. […] Ogni tentativo di fare ciò andrebbe al di là delle competenze dell’autorità di questa Commissione. Nella dichiarazione ultimamente adottata la Santa Sede avrebbe preferito una più chiara affermazione che sottolineasse che i documenti di Pechino non possono essere interpretati come creatori di nuovi diritti umani, includenti un diritto all’aborto”.
Tra le delegazioni d’accordo col Vaticano c’era quella degli Stati Uniti, come spesso avviene su questi temi da quando alla Casa Bianca c’è George W. Bush.
Quanto agli orientamenti prevalenti all’ONU sulla condizione delle donne – bersaglio delle critiche della Santa Sede – ecco qui di seguito l’analisi di una specialista, Lucetta Scaraffia, docente di storia contemporanea all’Università di Roma “La Sapienza”, autrice di saggi sui movimenti femminili e columnist di “Avvenire”, il quotidiano della conferenza episcopale italiana. L’analisi è apparsa su “il Foglio” del 5 marzo 2005:
Il dogma dell’ONU si chiama “salute riproduttiva”
di Lucetta Scaraffia
Come ogni conferenza mondiale delle Nazioni Unite, anche quella di Pechino del 1995 sulla donna ha prodotto un documento finale che indicava gli obiettivi da raggiungere. In questi giorni si è fatto a New York un bilancio, per verificare se quegli obiettivi siano stati effettivamente raggiunti.
Dai reportage dei giornali sembra che il bilancio non sia positivo, cioè che le donne continuino a essere vittime in troppi paesi del mondo.
La colpa però è sempre addebitata ad altri: quasi nessuno avanza una vera analisi critica della politica impostata dalle Nazioni Unite nei confronti delle donne, sia dal punto di vista del progresso rispetto agli obiettivi dichiarati, sia da quello del carattere e del contenuto degli interventi.
Sembra che solo gli Stati Uniti, fra i relatori, abbiano provato a indicare carenze o errori nel sistema di agenzie e organizzazioni non governative nate per estirpare la discriminazione contro le donne.
E invece carenze ed errori nella politica dell’ONU sulle donne ci sono, e non sono pochi.
Ad esempio, al fine di evitare scontri politici, la prima Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW), creata nel 1979, ha consentito ai firmatari di aderire con riserva. Questo vuol dire che i paesi musulmani hanno la possibilità di firmare pur dichiarando di non accettare quanto, nella convenzione, non è previsto dalla legge islamica.
In sostanza, a proposito di parità delle donne, è ammessa la possibilità di rifiutare lo spirito della dichiarazione pur figurando fra i firmatari.
Questo atteggiamento viene ritenuto dall’ONU un male inevitabile, e passa sopra a palesi violazioni, anche perché l’obiettivo primario delle Nazioni Unite non sembra essere, almeno a breve periodo, il riconoscimento della pari dignità delle donne, il loro diritto all’istruzione e il riconoscimento del loro lavoro, ma piuttosto il controllo demografico.
La considerazione che ha prevalso nella conferenza ONU del Cairo del 1994 – e che è stata ribadita ancora più esplicitamente in quella di Pechino dell’anno successivo – è che le donne vedano riconosciuti i loro “diritti umani” solo se hanno ottenuto il riconoscimento dei loro diritti sessuali, che consistono sostanzialmente nella possibilità di controllare la fertilità con contraccettivi o con l’aborto sicuro.
L’istruzione, il lavoro, i diritti politici, sembrano contare meno: anzi, si sottintende che saranno la conseguenza del controllo della fecondità.
È un modo per schiacciare le donne sulla loro identità biologica, e imporre una concezione della fertilità e della generazione dei figli tipicamente occidentale, come è stato rilevato da voci critiche di donne appartenenti a paesi del Terzo mondo.
Gli Stati Uniti di Bush si oppongono a questa semplificazione: chiedono di correggere l’accento che a Pechino è stato posto sui “diritti riproduttivi” che, sia pure in modo velato, alludono anche al diritto di aborto. Ma l’Unione Europea si muove nella direzione opposta: si distingue per la difesa tenace di un’idea della libertà della donna fondata sulla sua possibilità di autodeterminare la fecondità.
Capiamo meglio come operano le Nazioni Unite in questo campo se, al di là delle dichiarazioni ufficiali, andiamo a vedere qual è la modalità di intervento di una sua organizzazione come l’UNFPA – United Nations Population Fund: agenzia che ha fra gli obiettivi primari quello di promuovere il controllo delle nascite e l’uso del preservativo contro l’AIDS – in due casi, cioè in un paese cattolico come il Guatemala e in un paese plurireligioso come l’Uganda.
In Guatemala, la dura opposizione fatta dalla Chiesa cattolica e da quella evangelica alla politica di “family planning” ha portato a un compromesso, cioè si è deciso di avviare solo progetti condivisi, come la scolarizzazione, l’aiuto allo sviluppo economico, l’assistenza dei più deboli. In questo caso, anche se non si esclude la contraccezione, l’accento è decisamente portato sulla salute delle donne e dei bambini.
In Uganda invece, paese dove vivono cristiani e musulmani, l’UNFPA ha attuato una politica completamente differente a seconda dell’appartenenza religiosa.
Mentre è riuscita convincere i leader religiosi musulmani – finanziando studi sul Corano che provassero che il controllo delle nascite non è proibito dalla loro tradizione religiosa – e a farne dei sostenitori del loro programma, con i cattolici ha dovuto spostare i progetti su altri campi, come l’istruzione femminile e l’aiuto finanziario alle donne. L’istruzione femminile evita i matrimoni precoci, e in questo modo, naturalmente, rallenta il ritmo delle nascite senza ricorrere a metodi anticoncezionali di tipo farmaceutico, in coerenza quindi con i principi della Chiesa. Si tratta in questo caso di un programma completo di intervento sociale nei confronti delle donne, mentre, sul versante islamico, le donne vengono viste piuttosto come destinatarie di materiale informativo sul controllo delle nascite.
In sostanza – come la Chiesa cattolica ha denunciato a più riprese – l’unico progetto che sembra veramente interessare le Nazioni Unite è il controllo demografico, posto come condizione vincolante per i paesi che hanno bisogno di aiuti economici, mentre non è mai stato considerato come clausola ineludibile il rispetto dei diritti politici e sociali delle donne.
Finché la cosiddetta “salute riproduttiva” – in pratica la possibilità di aborto sicuro e di informazioni e mezzi anticoncezionali – viene considerata più importante della dignità delle donne come persone, o meglio, finché essa viene considerata la condizione base perché la donna possa godere del rispetto dovuto a un essere umano, è molto difficile che gli ostacoli alla sua emancipazione vengano rimossi.
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Il discorso di Mary Ann Glendon alla sessione speciale della Commissione dell’ONU sulla Condizione delle Donne, il 7 marzo 2005, nel sito del Vaticano:
> Intervento della delegazione della Santa Sede
Il rapporto finale, in pdf, della Conferenza Mondiale sulle Donne tenuta a Pechino nel 1995:
> Report of the Fourth World Conference on Women
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E intanto, sulla clonazione umana…
Negli stessi giorni nei quali faceva il punto sui dieci anni dalla conferenza di Pechino sulla donna, l’ONU ha votato in assemblea generale una dichiarazione contro la clonazione umana, sia riproduttiva, sia “terapeutica”.
La dichiarazione non è obbligante. Però invita gli stati membri ad adottare tutte le misure necessarie per “proibire tutte le forme di clonazione umana in quanto incompatibili con la dignità umana e la protezione della vita umana”, così come per “proibire il ricorso a tecniche di ingegneria genetica che possano essere contrarie alla dignità umana”.
Dal Vaticano, il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, monsignor Elio Sgreccia, ha detto di apprezzare che “la maggioranza degli stati rappresentati all’ONU sente la clonazione come una minaccia all’essere umano, alla sua dignità e alla sua vita”.
Ha lamentato però che “l’assemblea generale dell’ONU non ha avuto la forza e il coraggio di far valere il suo ‘no’ come obbligante”. Col risultato, ha aggiunto, che “i paesi più spregiudicati” ignoreranno la raccomandazione e continueranno a sviluppare i loro progetti di clonare embrioni per ricavarne cellule a fini “terapeutici”.
Il voto, avvenuto l’8 marzo, ha avuto il seguente esito: 84 favorevoli alla messa al bando della clonazione umana, 34 contrari, 37 astenuti, 36 assenti.
Tra i favorevoli vi sono Stati Uniti, Italia, Germania, Austria, Irlanda, Portogallo, Polonia, Slovenia, Slovacchia, Ungheria, Malta, Svizzera, Australia, Filippine, Messico, Marocco, Bangladesh.
Tra i contrari – i “più spregiudicati” secondo Sgreccia – Gran Bretagna, Spagna, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia, Canada, Giappone, Corea del Sud, India, Cina, Cuba, Brasile, Nuova Zelanda.
Tra gli astenuti Israele, Turchia, Sudafrica.
Tra gli assenti la Russia.
Il Vaticano – che non ha diritto di voto ma ha espresso chiaramente il suo pensiero – ha dunque protestato con l’ONU, negli stessi giorni, per due ragioni opposte.
Nel caso della clonazione ha contestato il rifiuto dell’ONU di dare forza di legge alla sua totale messa al bando.
Nel caso delle donne ha contestato la pretesa dell’ONU di trasformare in legge vincolante il “diritto alla salute riproduttiva”, ossia il libero aborto.
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Il comunicato dell’ONU sul voto della risoluzione n. A/RES/59/280 dell’8 marzo 2005:
> United Nations Declaration on Human Cloning