(l’Espresso) I cristiani in Turchia ieri, oggi e domani

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C’è un dossier Turchia sul tavolo del papa


A novembre Benedetto XVI andrà a Istanbul. Vuole più libertà religiosa per i cristiani e più dialogo con l’islam politico moderato. Un articolo di “La Civiltà Cattolica” spiega perchè

di Sandro Magister

 ROMA, 22 marzo 2006 – Nell’estate del 2004, quand’era cardinale, Joseph Ratzinger definì in due occasioni “un errore grande” inglobare la Turchia nell’Unione Europea.

Ma ora che Ratzinger è papa, la sua posizione non è più di rifiuto pregiudiziale. E quanto si ricava da un articolo uscito sull’ultimo numero di “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma che prima d’essere stampata è ogni volta esaminata e approvata dalla Santa Sede.

L’articolo ha per autore il gesuita Giovanni Sale, specialista di storia politica della Chiesa. Ed è un sommario preciso e aggiornato di come le autorità vaticane guardano oggi alla questione Turchia.

Alla fine del prossimo mese di novembre Benedetto XVI si recherà a Istanbul, invitato dal patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, e dal governo di Ankara. L’articolo di “La Civiltà Cattolica” è anche preparatorio a quel viaggio.

Nell’articolo c’è la denuncia dettagliata della mancanza di libertà religiosa che affligge le minoranze cristiane che vivono oggi in Turchia. E prima ancora c’è il richiamo al massacro degli armeni e all’espulsione dei greci-ortodossi: i due terribili atti di “ripulitura dell’elemento non-turco e non-musulmano” su cui è nata la moderna Turchia. Del “grande male” dello sterminio degli armeni, da essi “patito in nome della fede cristiana”, Benedetto XVI ha fatto memoria esplicita lunedì 20 marzo, ricevendo in Vaticano il sinodo armeno guidato dal patriarca Nerses Bedros XIX Tarmouni.

La piena attuazione della libertà religiosa – si legge nell’articolo di “La Civiltà Cattolica” – è quindi condizione “sine qua non”, a giudizio della Santa Sede, per un eventuale ammissione della Turchia nell’Unione Europea.

Ma nell’articolo c’è di più. C’è anche un giudizio positivo sul modello di islam politico “moderato” rappresentato dal partito di Recep Tayyip Erdogan attualmente al potere in Turchia. Un modello – scrive la rivista – che “costituisce il peggior nemico possibile” per i fondamentalisti tipo Osama Bin Laden, e “con il quale l’Occidente cristiano può interloquire per creare nel mondo islamico uno spazio comune di dialogo sui grandi temi della politica internazionale”.

Ecco qui di seguito larghi estratti dell’articolo uscito sul quaderno 3738 di “La Civiltà Cattolica”, datato 18 marzo 2006:


I cristiani nell’impero ottomano e nella Turchia moderna

di Giovanni Sale S.I.


La situazione dei cristiani nei paesi a maggioranza musulmana conobbe un notevole miglioramento sotto la dominazione dei turchi selgiuchidi. […] Nell’impero ottomano, nel XIX secolo, il tasso di scolarizzazione delle comunità cristiane era di gran lunga superiore a quello della comunità musulmana e perfino di quella ebraica. […] Tale relativo benessere si espresse anche in termini demografici: nel 1914, l’anno dello scoppio della grande guerra, i cristiani erano circa il 24 per cento della popolazione dell’impero, raggiungendo il 30 per cento nelle regioni delle attuali Siria, Libano, Giordania e Palestina. […]

Ma dopo la fine della prima guerra mondiale […] l’impero ottomano si dissolve e […] si profila per le comunità cristiane residenti nell’area una situazione del tutto nuova, meno vantaggiosa di quella precedente. In Turchia il processo di costituzione dello stato nazionale, basato sull’identità turca, condusse all’esclusione dei cristiani dal nuovo stato. […] L’ideologia dei “giovani turchi”, al potere dal 1908, si fondava su un nazionalismo intransigente, che, pur ispirandosi a modelli occidentali di impronta liberale, col passare del tempo aveva assunto tratti apertamente autoritari. Il nuovo governo ben presto entrò in conflitto con alcuni settori del mondo politico armeno, in particolare quello più sensibile alle idee socialiste, che chiedeva l’indipendenza o l’autonomia della regione abitata dalla maggioranza armena. Ora, mentre il distacco dell’area araba e balcanica dal dissolto impero ottomano poteva essere tollerato perché questa non era strettamente legata al nuovo assetto politico-istituzionale che si stava creando, l’autonomia di una parte dell’Anatolia, a maggioranza armena, avrebbe significato un’amputazione insostenibile del territorio nazionale, già fortemente ridotto, tanto più che le rivendicazioni armene erano appoggiate dalla Russia, la quale mirava a espandere il suo territorio a scapito della Turchia. Così la comunità cristiana armena, tradizionalmente considerata fedele alla Sublime Porta, fu percepita come un pericolo per la creazione di uno stato turco unitario, una sorta di quinta colonna al servizio del nemico russo, secolare antagonista degli ottomani.


IL MASSACRO DEI CRISTIANI ARMENI


L’occasione per risolvere una volta per tutte il problema della “minaccia armena” fu offerta al governo nazionalista dallo stato di guerra in cui a partire dal 1915 versava l’Europa. La repressione contro gli armeni fu attuata sia con truppe regolari, sia incitando contro di essi le tribù curde e circasse, tradizionali nemiche delle comunità cristiane, facendo appello alla guerra santa, il jihad, contro gli infedeli cristiani. Il ricorso al jihad e alla motivazione religiosa da parte di un governo, quello dei giovani turchi, che si presentava come laico e indifferente a questioni di natura religiosa, fu puramente strumentale e preordinato a fomentare le rappresaglie delle popolazioni musulmane contro i cristiani, avvertiti ormai come nemici irriducibili del nuovo ordine “panturco”. Gli storici calcolano che la sollevazione contro gli armeni costò la vita a circa un milione e mezzo di persone.

Nella quasi indifferenza delle cancellerie europee, preoccupate dagli sviluppi della guerra in corso e troppo indaffarate a tessere il sistema delle alleanze, si consumò uno dei più tragici massacri del XX secolo, purtroppo per lungo tempo disconosciuto o sminuito. In Turchia il processo di costituzione dello stato nazionale fu attuato disgregando il vecchio sistema della coabitazione tra confessioni religiose ed etniche diverse che aveva caratterizzato il lungo periodo della dominazione ottomana. […] Il nuovo stato nasceva ripulito dell’elemento non-turco e non-musulmano. […] Oltre agli armeni, anche i cristiani di confessione greco-ortodossa furono espulsi […]. Dopo la fine della guerra greco-turca, nel 1922, il governo turco, avendo vinto il conflitto, stabilì nelle trattative di pace – con l’accordo delle potenze occidentali – che fosse attuato uno scambio di popolazioni. In tal modo la maggior parte dei greco-ortodossi furono obbligati a lasciare la Turchia, che consideravano la loro terra, e a installarsi sul territorio greco, di cui non conoscevano neppure la lingua. Si calcola che 1.344.000 cristiani greco-ortodossi turchi furono deportati in territorio greco e che 464.000 musulmani greci furono trasferiti in Turchia. […]


LA TURCHIA LAICA DI KEMAL ATATÜRK


La Turchia moderna si definisce come un repubblica laica, la quale nella costituzione sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge “senza distinzione di opinione o di religione”, e stabilisce solennemente “la libertà di culto, di religione e di pensiero”. Quindi, affermano gli osservatori, essa è sostanzialmente diversa dagli altri stati musulmani, nei quali il rapporto tra sfera politica e sfera religiosa è così stretto da confondersi.

Di fatto, però, il laicismo turco, nonostante gli sforzi compiuti in un recente passato per ricalcare l’ammirato modello francese, ha poco in comune con la dottrina illuministica e liberale della cosiddetta separazione tra stato e Chiesa nell’ambito pubblico. Nell’islam, sia in quello fondamentalista e radicale sia in quello moderato, non esiste alcuna distinzione tra ambito religioso e ambito politico; le due realtà convivono l’una dentro l’altra. […] Nel mondo cristiano al contrario esistono due poteri, quello di Dio e quello di Cesare; essi possono essere associati o separati, possono essere in armonia o in conflitto, come spesso è accaduto nella storia, ma sono sempre due, quindi distinti tra loro e autonomi nell’ambito delle rispettive competenze.

Per Kemal Atatürk (1881-1938), il fondatore della Turchia moderna, laicizzare lo stato non significò distinguere e separare gli ambiti di competenza dei due poteri, secondo il modello europeo, ma semplicemente eliminare la religione dall’ambito pubblico e sottoporre a tutela statale l’organizzazione del culto. Di fatto ancora oggi il ministero degli affari religiosi gestisce direttamente in Turchia 75.000 moschee, nelle quali lavorano circa 100.000 funzionari stipendiati dallo stato, e ha un bilancio superiore a quello del ministero dell’industria. Insomma, lo stato in Turchia, come del resto anche negli altri Paesi musulmani, è l’ultima istanza in materia religiosa; è infatti l’autorità governativa che limita e a volte anche reprime alcune manifestazioni di carattere religioso, ritenute non compatibili con la laicità dello stato: ad esempio, vietando il velo alle donne che studiano all’università o lavorano negli uffici pubblici.


DA ATATÜRK A ERDOGAN: UN MODELLO DI ISLAM MODERATO


Ma l’islam turco, cacciato dalla sfera politica, sopravvive e prospera nella società civile: nelle numerose confraternite sufi e nei movimenti politici filoislamici nati in questi ultimi decenni. Questo complesso movimento islamico comprende in sé varie tendenze, sia quella fondamentalista, ispirata ai movimenti radicali, presenti in quasi tutti i paesi islamici, che predicano il jihad contro l’Occidente “ateo e corrotto” e vorrebbero che la shari’a diventasse legge dello stato, sia quella moderata, attenta al dialogo con la modernità e interessata a intrattenere rapporti di amicizia con il mondo occidentale. […]

La maggioranza della popolazione turca si definisce di fede musulmana sunnita. In realtà gli aleviti, che sono un ramo degli alauiti sciiti, sono più del 20 per cento della popolazione e praticano un islam moderato, secondo alcuni eretico, in ogni caso alieno dalle nuove tendenze fondamentaliste. Essi non velano le donne, sono monogami, non pregano in moschea e non vanno in pellegrinaggio alla Mecca, non osservano le cinque preghiere giornaliere del pio musulmano e sostituiscono il digiuno del Ramadam con l’astinenza dell’Ashura. Politicamente sono filokemalisti.

Al laicismo di stato rigorosamente praticato dai governi kemalisti è succeduto negli anni della guerra fredda un indirizzo politico più tollerante nei confronti della religione. Di fronte all’incapacità dei governi kemalisti di fronteggiare il terrorismo curdo di matrice comunista e separatista, dopo il colpo di stato del 1980 il potere fu attribuito, per suggerimento dei militari e degli Stati Uniti, a una personalità religiosa di ambiente sufi, Turgut Özal, che godeva di un ampio consenso popolare. In quel momento l’appello alla comune fede musulmana sunnita sembrava l’unica via per tenere sotto controllo il separatismo curdo. La prematura morte di Özal aprì la via a un periodo di instabilità politica e sociale, mentre nel paese guadagnava consensi il partito Refah (che significa Benessere) di ispirazione islamica sunnita e diretto da Necmettin Erbakan. Esso si presentò nelle elezioni politiche del 1995 ottenendo la maggioranza dei suffragi: era la prima volta in Turchia che un partito di forte ispirazione religiosa vinceva ed era chiamato a governare il paese.

Il nuovo indirizzo politico seguito da Erbakan – in politica interna chiaramente anti-kemalista e in politica estera anti-USA e anti-israeliano – non ebbe però il favore delle élites militari del paese. Fu molto criticato, inoltre, il sostegno che il nuovo presidente diede ai movimenti del fondamentalismo arabo, in particolare ai Fratelli Musulmani. I militari kemalisti reagirono alla politica filoislamica di Erbakan con il colpo di stato “soffice” del 28 febbraio 1997. Il capo del governo fu costretto suo malgrado a promulgare leggi antireligiose, a mettere fuori legge il suo stesso partito e a emanare provvedimenti repressivi nei confronti degli oppositori politici. La campagna antireligiosa che seguì al colpo di stato, come anche l’arresto dei capi dei movimenti islamici fondamentalisti, non ebbe però il sostegno delle masse popolari turche. All’interno del movimento islamico, intanto, si facevano strada due correnti: quella dei “vecchi” legata a Erbakan e collegata al fondamentalismo arabo e in particolare iraniano, e quella dei “giovani” capeggiata dal carismatico sindaco di Istanbul, Recep Tayyip Erdogan, messo al bando dal potere giudiziario controllato dai militari con l’accusa di voler sovvertire il laicismo dello stato.

Il movimento islamico, forte dell’appoggio popolare, si presentò alle elezioni del 2002 con due partiti, l’erbakaniano Saadet (che significa Felicità) e l’erdoganiano Kalkinma (in sigla AKP, che significa Giustizia e Sviluppo), il quale presentò un programma politico in cui la shari’a era indicata non come la fonte diretta della legislazione dello stato – come chiedevano i fondamentalisti – ma semplicemente come orizzonte di ispirazione per una legislazione autenticamente islamica e moderna. In politica estera, poi, esso sosteneva l’alleanza con gli Stati Uniti, anche nella lotta contro il terrorismo islamico, e chiedeva l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. L’AKP, avendo ottenuto col 34,2 per cento la maggioranza relativa dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, fu chiamato a governare il paese. Esso mise subito in atto una serie di riforme legislative che permisero al suo leader Erdogan di ritornare alla vita politica e divenire primo ministro, proprio nei giorni in cui il parlamento doveva votare sulla richiesta degli Stati Uniti di autorizzare il passaggio attraverso il territorio turco di truppe americane dirette in Iraq: richiesta che fu respinta con lo scarto di soli tre voti. Qualche giorno dopo Erdogan concesse agli americani l’uso dello spazio aereo, non però il passaggio delle truppe, e iniziò così a ricucire i rapporti con Washington. Dal punto di vista occidentale l’AKP costituisce un interessante esperimento di movimento radicato nell’islam politico, un movimento cioè di ispirazione sufi, che è in parte diverso da quello arabo e allo stesso tempo si presenta come partito democratico filo-occidentale. Un partito con il quale l’Occidente cristiano, fin troppo demonizzato dai fondamentalisti arabi, può interloquire per creare nel mondo islamico uno spazio comune di dialogo sui grandi temi della politica internazionale.

Secondo i fondamentalisti islamici, il modello turco costituisce il peggior nemico possibile. Si comprende così la volontà di stroncarlo, possibilmente creando a colpi di bombe un clima d’insicurezza che induca i militari a porre fine a tale esperimento, come già ad altri precedenti, con l’ennesimo colpo di stato. Il modello Erdogan rischia infatti di far proseliti anche fuori della Turchia, e questo per chi non vuole il dialogo tra il mondo islamico e l’Occidente è considerato il male peggiore. Esso sta a indicare che accomunare nella stessa categoria politico-interpretativa, quella del fondamentalismo, ogni forma di islam politico, da Erdogan a Bin Laden, è un’operazione scorretta, che alla fine fa il gioco dei terroristi, cioè di chi lavora per il malaugurato “scontro di civiltà”.


I CATTOLICI IN TURCHIA E LA MANCANZA DI LIBERTÀ RELIGIOSA


La Turchia ha chiesto per la prima volta di entrare a far parte della Comunità Europea nel 1987, dichiarando di riconoscersi nei valori dell’Occidente, di accettare pienamente i princìpi del liberalismo politico ed economico e di voler diventare un ponte tra il mondo islamico e quello occidentale. Negli ultimi anni essa ha lavorato per adeguare la propria legislazione interna ai princìpi fondamentali sanciti dalla comunità internazionale in materia di diritti umani e di tutela delle minoranze. In tale direzione molto è stato fatto, ma, secondo alcuni osservatori, ancora molto resta da fare, considerando che la cultura e la società europea oggi sono molto sensibili a tali temi. In ogni caso, a partire dal 2005 la Turchia è stata ufficialmente candidata – grazie all’appoggio di alcuni stati, primo dei quali l’Italia – a entrare nell’Unione Europea. Ciò però dovrebbe accadere a lunga scadenza (si parla di 10 anni) e dopo un serio e impegnativo esame da parte degli stati dell’Unione sugli adempimenti richiesti allo stato candidato su diversi importanti fronti di carattere giuridico, politico, economico e sociale.

Uno degli aspetti più controversi riguarda il tema della tutela delle minoranze religiose, in particolare dei cristiani che vivono nel paese, circa 150.000, i quali si sentono e sono discriminati sul piano dei diritti e spesso minacciati dal fanatismo dei fondamentalisti.

Di fatto, l’uccisione del sacerdote italiano don Andrea Santoro, avvenuta il 5 febbraio 2006 mentre pregava nella sua piccola chiesa nei pressi di Trebisonda, da parte di un giovane turco per motivi, pare, di carattere religioso, nonché le minacce di morte rivolte ad alcuni altri sacerdoti cattolici che svolgono il loro ministero in Turchia, pongono in modo drammatico il problema della tutela della libertà religiosa in un paese islamico che pure si professa filo-occidentale e rispettoso dei diritti fondamentali della persona e che intende condividere con l’Europa tutti gli aspetti della vita pubblica.

Anche se la Turchia riconosce la libertà religiosa come uno dei fondamenti dello stato laico, di fatto l’esercizio di tale libertà risulta, per le minoranze religiose non musulmane, sottoposto a restrizioni e condizionamenti. In base al Trattato di Losanna del 24 luglio 1923, soltanto le comunità religiose greco-ortodossa, armena ed ebraica sono riconosciute dallo stato come “confessioni ammesse” e godono perciò di un particolare statuto giuridico, mentre le altre confessioni cristiane, compresa quella cattolica, sono fatte oggetto di discriminazione e soggette a pesanti limitazioni nell’esercizio del culto pubblico.

Per quanto riguarda tale Trattato, va detto che tutta la sua terza sezione è dedicata alla “protezione delle minoranze” e che le sue disposizioni erano sottoposte non solo alle garanzie degli stati firmatari, ma anche della Lega delle Nazioni. Gli articoli 37 e 45 in particolare garantiscono la piena libertà religiosa a membri delle “minoranze non musulmane”. I governi turchi hanno però sempre interpretato questi articoli in modo restrittivo; in effetti essi, secondo il Trattato, riconoscono come minoranze religiose soltanto quelle che al tempo dell’impero ottomano erano ufficialmente riconosciute come tali, cioè armeni, greco-ortodossi, ebrei. La repubblica turca quindi considera le altre minoranze religiose (caldee, siriaco-cattoliche, siriaco-ortodosse, latine, protestanti) come “straniere” e, quindi, non tutelate dalle disposizioni del Trattato di Losanna. Tale interpretazione è stata fortemente contestata non soltanto dai rappresentanti delle comunità religiose escluse, ma anche dagli organismi internazionali, come, ad esempio, dalla commissione delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo.

La Chiesa cattolica in Turchia è composta da una piccola comunità di circa 40.000 fedeli e ha tre circoscrizioni ecclesiastiche di rito latino: l’arcidiocesi di Smirne (con 1.350 fedeli), il vicariato apostolico di Istanbul (con 15.000 fedeli) e il vicariato apostolico dell’Anatolia (con 4.550 fedeli). A queste vanno aggiunte le comunità di rito orientale: le arcidiocesi di Istanbul per gli armeni cattolici (con 3.670 fedeli) e di Diarbekir dei caldei (con 5.993 fedeli), e il vicariato apostolico dei siri cattolici (con 2.155 fedeli). Spesso si tratta di comunità frantumate, che vivono in un territorio molto ampio; questa situazione, come è comprensibile, rende difficile concordare tra pastori in cura d’anime, religiosi e vescovi una strategia pastorale comune: ciò rappresenta un elemento di debolezza della piccola ma vitale comunità cattolica turca. La Chiesa cattolica, in quanto confessione non riconosciuta dallo stato, è sottoposta a limitazioni, soprattutto in ordine all’esercizio del ministero pastorale, e quindi fatta oggetto di discriminazioni. Le strutture cattoliche – diocesi, parrocchie, istituti religiosi – non godono di riconoscimento giuridico, per cui il personale religioso non è annoverato tra i ministri del culto, mentre quello di nazionalità non turca deve sottomettersi a un regime particolare per ottenere il permesso di soggiorno. Ai cattolici inoltre non è permesso costruire nuove chiese o strutture per la formazione del clero: ciò rende difficile il lavoro dei pastori in cura d’anime e, soprattutto, penalizza le comunità cattoliche turche, frequentemente esposte all’intolleranza e alla violenza dei fondamentalisti islamici, che li considerano come traditori e spie dell’Occidente. Non si può, certo, parlare di persecuzione contro i cattolici, ma indubbiamente la loro situazione è precaria e tale che un numero crescente di cristiani è costretto a lasciare la Turchia.


LE RICHIESTE DELLA SANTA SEDE


La Santa Sede ha più volte protestato in questi ultimi anni presso il governo turco, condannando gli atti di discriminazione compiuti contro i cattolici e contro le altre minoranze cristiane e chiedendo la piena attuazione del principio di libertà religiosa, sancito nelle convenzioni internazionali. Il ministero degli esteri, ad esempio, ha dichiarato che in Turchia tutte le comunità religiose godono degli stessi diritti riconosciuti dalla legge e che la Santa Sede non può richiedere per i cattolici un trattamento privilegiato. La migliore risposta a tali affermazioni è contenuta nel Rapporto finale del 2005 presentato nello scorso novembre dalla Commissione Europea (la quale ripete quanto contenuto nel Rapporto presentato l’anno precedente), dove si dice apertamente che in Turchia “le comunità religiose non musulmane sono prive di personalità giuridica”, soffrono restrizioni in materia di proprietà privata, sopportano ingerenze nella gestione delle fondazioni e sono impossibilitate a formare sul luogo il proprio clero.

Purtroppo le riforme messe in atto o semplicemente annunciate in vista dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea non fanno menzione della piena attuazione del principio di libertà di religione – come se su tale punto non ci fosse nulla da eccepire – ma si limitano semplicemente a riconoscere a tutte le confessioni religiose il diritto di proprietà sulle loro fondazioni. La sensazione è che l’Europa nelle trattative con il governo di Ankara sia stata, per motivi politici, eccessivamente arrendevole in tema di libertà religiosa e di diritti delle minoranze. Se la Turchia intende entrare a pieno titolo in Europa è però necessario che, su questo punto molto delicato per il dialogo e il rispetto tra culture e fedi religiose diverse, essa dia alla comunità internazionale serie garanzie di affidabilità, poiché, come dimostra la storia passata e recente, è sui valori della tolleranza, della libertà religiosa e del rispetto delle minoranze che si misura l’effettiva democraticità di un paese, tanto più quando la Turchia afferma pubblicamente di voler fungere da ponte tra il mondo islamico, attraversato in questi anni da un forte spirito di rinascita religiosa, e quello occidentale, le cui radici, checché ne dicano i laicisti, sono profondamente cristiane.

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, essa non chiede al governo turco nessun privilegio particolare, ma semplicemente il riconoscimento dei suoi diritti, per esercitare il proprio ministero a vantaggio dei cattolici turchi. A tale proposito ricordiamo le parole che Giovanni Paolo II indirizzò al nuovo ambasciatore della Turchia il 7 dicembre 2001: “In Turchia, i cattolici sono una piccola minoranza. Essi non vedono contraddizione tra l’essere cattolici e l’essere turchi, e attendono […] di vedere riconosciuto lo stato giuridico della Chiesa. Essi confidano che nella loro patria continueranno a trovare quel rispetto per le minoranze che costituisce ‘la pietra angolare dell’armonia sociale e l’indicatore della maturità civile raggiunta da un paese e dalle sue istituzioni’. La Turchia può servire anche da ponte, mostrando chiaramente che le sue legittime preoccupazioni per l’unità nazionale non sono in conflitto con il rispetto dei diritti degli individui e delle minoranze”. Parole illuminate che ancora oggi conservano tutta la loro attualità e tutto il loro valore.

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A proposito della proteste vaticane presso il governo turco, una nota a piè di pagina le esplicita così:

“Tra i punti segnalati dalla Santa Sede ci sono i seguenti:

a) le diocesi, parrocchie e istituti religiosi della minoranza cattolica non beneficiano di riconoscimento giuridico da parte dello stato;

b) i loro responsabili – vescovi, parroci, superiori religiosi – e il loro personale religioso non sono riconosciuti come ministri di culto;

c) i loro diritti di proprietà sugli immobili (chiese, conventi, scuole, ospedali) non sono riconosciuti in quanto tali, ma unicamente vengono registrati con il nome di privati o come fondazioni private, cosicché in caso di estinzione di tali persone o fondazioni, in assenza di successori, gli immobili sono confiscati dal tesoro pubblico;

d) le minoranze non riconosciute non possono costruire nuovi luoghi di culto e non possono fondare né scuole confessionali, né seminari per la formazione del clero;

e) il personale religioso straniero è soggetto a un regime particolare di permesso di soggiorno, valido spesso soltanto per un anno, quando al contrario gli altri residenti provenienti da paesi europei ricevono il loro permesso di soggiorno per tre o per cinque anni”.

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Quanto alle riforme già introdotte dal governo turco per essere ammesso nell’Unione Europea, un altra nota in calce all’articolo dice:

“L’adozione da parte del parlamento turco di importanti riforme legislative, suscettibili di favorire in un prossimo avvenire un maggiore rispetto dei diritti dell’uomo, ha causato grande soddisfazione presso numerosi partner dell’Unione Europea. L’abolizione della pena di morte, l’allargamento della libertà di opinione, di espressione e di associazione, l’uso della lingua tradizionale, sono misure che non possono che far gioire tutti coloro che hanno a cuore il bene della persona umana e la coesistenza armoniosa di tutti all’interno della società. Da alcuni, in particolare dalla Santa Sede, non si è mancato tuttavia di constatare l’assenza di riferimenti alla libertà religiosa; libertà riconosciuta da tutti come un diritto fondamentale della persona umana”.