(Avvenire) Marta Sordi: «Bush impari da Augusto»

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 “Avvenire”, 6 luglio 2003

INTERVISTA
Analogie e differenze fra impero romano e impero americano: parla la storica Marta Sordi. «Bush impari da Augusto»

Manhattan e le legioni di Cesare

Di Maurizio Blondet

Alle radici dell’Occidente: è il titolo con cui Marta Sordi, la docente di
storia romana alla Cattolica, ha raccolto in volume (Marietti, 148 pagine,
15 euro) una serie di articoli sul mondo greco e romano pubblicati su
Avvenire. Titolo provocatorio, oggi che l’Europa omette di ricordare le sue “radici”
nella sua Costituzione. Che cosa può dire a quest’Europa l’antica Roma?
«Anzitutto, la grande capacità di integrare popoli diversi nella
cittadinanza. E’ una vera “linea politica” cui Roma resta fedele, nonostante
ostacoli e opposizioni. Roma dà la cittadinanza agli schiavi liberati, ai
barbari arruolati nelle truppe ausiliarie; nel 48 d. C., Claudio apre la
carriera senatoria ai Galli, di recente conquista. Infine Caracalla, nel
212, estende la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero…».
E da dove nasceva questa, diciamo, generosità politica così unica, e così
costante?
«Il mito di Troia vi ha la sua parte. Fin dal sesto secolo a. C., Roma “sa”
di essere nata dall’incontro di popoli diversi, nella realtà storica da
Latini, Sabini ed Etruschi. Roma non si sente uno stato “nazionale” ed
etnico, ma vuole rappresentare, almeno potenzialmente, un ordine universale.
E’ su questo che il Cristianesimo “incontra” Roma: anche la Chiesa è
universale fin dall’origine, quando era composta da poche decine di fedeli».
Ma così non si trascura un po’ la Roma “imperialista”, che estende il suo
potere con la violenza militare?
«Anzitutto, durante l’Impero, Roma non è imperialista. Anzi gli imperatori
pongono un limite alle conquiste. La fase “imperialista” è precedente,
avviene nella Repubblica Romana, basta ricordare le conquiste galliche di
Cesare. Ma va detto che il dominio di Roma cambiava subito, e in meglio, la
vita dei dominati. Gli acquedotti, le strade e le fogne che costruivano
miglioravano di colpo la salute della gente; il diritto dava ad essa un
quadro chiaro dei doveri e dei diritti dei soggetti. La stessa “glob
alizzazione” portava vantaggi: Plinio ricorda, a proposito di una carestia
in Egitto, che ormai le merci prodotte in terre lontane potevano raggiungere
i Paesi in cui ce n’era necessità, grazie all’impero».
Ciò fa pensare alla globalizzazione d’oggi, così fortemente voluta
dall’America. E’ quella la nuova Roma?
«Un’analogia c’è. L’America d’oggi, superpotenza rimasta dopo la caduta
dell’Urss, somiglia alquanto a Roma dopo la seconda guerra punica. Roma, a
quel punto, non ha più davanti dei nemici. Vince facilmente gli Stati
ellenistici, la Siria, la Macedonia…».
Anche l’America si espande verso l’Asia, solo molto più in là: Iraq,
Afghanistan.
«E qui c’è una differenza. Ai tempi di Roma, al di là dell’Eufrate ci sono i
Parti, i popoli che sono sempre stati sentiti dai romani come “altri”.
Augusto risolve diplomaticamente le pendenze con i Parti, e crea una serie
di stati-cuscinetto al confine».
Come se Roma sentisse quei popoli quali non-integrabili. Chissà se Augusto,
sarebbe riuscito a integrare l’Islam.
«Chissà. Si può solo dire che Roma rispettò, dei popoli soggetti, le lingue
locali, le usanze etniche, le religioni. Li privava solo del diritto di
emettere condanne capitali, e perseguitò solo le religioni che perpetravano
sacrifici umani. Ma per il resto, quanto più possibile, salvaguardava le
autonomie locali, l’autogoverno».
Dunque nessuna “americanizzazione”, volevo dire “romanizzazione” omologante?
«Nel suo momento migliore, nel secondo secolo, l’impero romano è quasi una
federazione di città che si autogovernano. Nel Vangelo vediamo che Pilato
esce dal pretorio per parlare coi membri del Sinedrio, sapendo che costoro
si sarebbero resi “impuri”, secondo la loro fede, se vi entravano. Del
resto, la religione ebraica era stata dichiarata “religio licita”, fede
riconosciuta, già da Cesare: per questo gli ebrei erano esentati
dall’offerta d’incenso all’imperatore».
Una tolleranza che non fu usata verso i cristiani.
«Tiberio ci provò, a riconoscere i cristiani. Fu il Senato, per ripicca
verso questo imperatore inviso, a bloccare i suoi tentativi. Decretò “Non
licet esse christianos”, il che esponeva i cristiani alla persecuzione.
Tiberio parò il colpo mettendo il veto almeno a questa».
Una sorta di veto sospensivo?
«E’ a quel veto che probabilmente allude San Paolo nella seconda Lettera ai
Tessalonicesi, quando dice: il mistero d’iniquità è già all’opera, ma c’è
chi lo trattiene. E non dice di più, perché è un tema delicato, da non
sollevare in pubblico»
La tradizione cristiana vide in quella parola di San Paolo, “ciò che
trattiene” l’Anticristo, l’impero romano.
«Di fatto, credo che San Paolo si riferisse a quella situazione concreta. Ed
effettivamente il veto di Tiberio salva i cristiani fino al 62 d.C., quando
Nerone scatena la nuova persecuzione. Ma l’idea che il potere debba essere
“ciò che frena l’Anticristo” (il kathecòn, nel greco di Paolo) sopravviverà
nei secoli. Gli imperatori germanici che rifondano il Sacro Romano Impero si
considerano “kathecòn”. Il mito di Roma, ossia del diritto e della forza
pubblica come argine, “freno” al dilagare dell’iniquità, resiste fino agli
Absburgo, ultimi imperatori “romani”».
L’Europa avrebbe dovuto ricordare nella Costituzione almeno questa
funzione…
«Oggi l’Europa ha paura della storia».