Il Giornale, 07/04/2003
[titolo originale: Nessuna guerra può essere santa]
Forse non è questo il momento più felice per una riflessione pacata su ciò che sembra avvicinare, a uno sguardo superficiale, gli uomini bomba islamici ai martiri cristiani.
E tuttavia ci si sta abituando al fenomeno che si moltiplica di persone che si offrono come ordigni di guerra per far massacro di comandanti nemici o di innocenti, lasciandosi trucidare con loro, pur di recare panico in campo avverso mediante un terrorismo incontrollabile.
Cinquemila kamikaze sono pronti a dare la vita?
E non è raro il caso di sentirli chiamare eroi e perfino
martiri per la gloria della loro nazione, della loro etnia o altro.
Basti qualche osservazione, in proposito, per controllare le
idee e per cercare di capire una mentalità, se non una
religione quale l’Islam.
Si dica chiaro, come primo rilievo, che ci si trova di fronte
a suicidi consapevoli e deliberati.
Anzi a suicidi accolti, desiderati e attivamente affrontati.
Il martirio come fenomeno cristiano, all’opposto, è qualcosa
di subito: liberamente accolto ma non provocato o cercato.
In nome di una fede che non è semplicemente una infilata di
affermazioni dogmatiche, ma è la verità di un uomo-Dio che per
primo si è lasciato mettere in croce per amore, ed è risorto.
Non a caso il martirio è visto dai credenti – quelli che ne
hanno ancora il ricordo – come una nascita a una vita nuova e
un’incontro con Cristo Glorioso.
Al punto che la Chiesa si rifiuta di considerare e di venerare
come martiri coloro che il martirio se lo sono voluto.
Il cupio dissolvi – il desiderio di morire – non è sentimento
cristiano quando non si declina come aspirazione a essere con
il Signore e non si attende la morte con pazienza.
Alla fine, poi, l’uccidere o l’esporsi all’uccisione per il
cristianesimo è sempre somaticidio, non annientamento.
E si aggiunga pure che anche per i musulmani c’è l’attesa del
paradiso con le hurì date in sovrappiù.
Ma è altra cosa.
Ancora.
Il martire cristiano non si pone in atteggiamento aggressivo
per sterminare che gli sta di fronte. Immola se stesso per
coerenza e per la volontà di concludere l’esistenza nella
beatitudine eterna, ma si rifiuta di fare il male allo stesso persecutore.
Di sovente per il persecutore addirittura egli prega perchè
Dio lo perdoni dal momento che forse ignora ciò che fa.
Non così i kamikaze dell’Islam – o di un certo Islam – i quali
sono addestrati e si preparano a morire proprio per ammazzare.
E per ammazzare poco o tanto a tradimento. senza l’onore pur
discutibile di un duello o di una battaglia con due fronti
contrapposti e precisati.
Una terza osservazione tocca forse l’aspetto più odioso della
questione.
Almeno in certe frange musulmane – l’Islam non è una realtà
unitaria e omogenea – i kamikaze motivano la propria scelta
tragica a partire con una religione fatta coincidere con una
cultura, un popolo, una potenza terrena.
Trucidano e vanno in pezzi per una bomba che si portano
addosso e fanno esplodere in nome di Dio.
Orrendo.
Non nominare il nome di Dio invano vale anche per i
suicidi-omicidi di guerra.
Di cui non si può giudicare la coscienza, ma annotare
l’oggettiva barbarie, sì.
Non ci può mai essere guerra santa.
Il cristianesimo l’ha imparato da tempo.
E domanda di perdonare perfino ai nemici.
Non di regalargli la vittoria.
+ Mons. Alessandro Maggiolini
Vescovo di Como