Nel Paese che tiene in scacco il mondo con lo spettro delle sue armi nucleari. I fratelli del Sud: abbandonate i progetti atomici e vi daremo l’energia elettrica
Tra i bambini impauriti del parco di Pyongyang
Viaggio nell’inaccessibile Corea del Nord stremata dalla carestia. Nelle campagne niente utensili: si ara con le mani
DAL NOSTRO INVIATO
PYONGYANG – Dire «Paese delle tenebre» non è solo un luogo comune. Basta affacciarsi la sera dalle finestre dell’elefantiaco hotel Koryo per rendersene conto: perché intorno al grattacielo dell’albergo c’è solo una notte buia e silenziosa. Spenti i lampioni delle strade deserte, spente le insegne dei pochi ristoranti, spente le luci nei palazzoni slabbrati tutto intorno. La Corea del Nord ha fame, di cibo ma forse più ancora di luce. E adesso che nella granitica nomenklatura nordcoreana sembra tornato un brandello di ragionevolezza, adesso che si torna a un tavolo di trattativa dopo un anno di stallo, i «fratelli» del Sud promettono: se rinunciate al nucleare vi porteremo l’energia elettrica di cui avete bisogno. Un passo giusto nella direzione giusta, accompagnato da 500 mila tonnellate di riso. Un dono prezioso, per un Paese stremato da una fame che caparbiamente, orgogliosamente viene negata e nascosta. Ma che ti cade addosso prepotente, anche solo girovagando poche ore per le strade della capitale, o viaggiando lungo le campagne che portano al confine.
Annusare Pyongyang, anche prigionieri dei confini imposti da chi ci accompagna e dai limiti di un tempo troppo breve, è un esercizio che fa male al cuore. E non tanto per la povertà evidente delle case – intonaci a pezzi, finestre spesso senza vetri, minuscole stanze spoglie che intravedi passando – contrasta malamente con la megalomane magniloquenza degli archi, delle statue, dei palazzi del potere. Ma soprattutto per gli sguardi dolenti di una moltitudine che cammina in fretta lungo i grandi viali: vanno in fretta, gli occhi bassi, senza parlare con chi hanno accanto, senza nemmeno stupirsi per quegli stranieri che si fermano a guardarli, a fotografarli. Nessuno dà l’impressione di passeggiare, tutti invece paiono diretti verso qualche posto. Anche chi trascina carretti sbilenchi carichi di povere cose sembra avere una meta. E noi che li osserviamo, gonfi di pena, sembriamo invisibili: nessuno ci guarda, nessuno rallenta il passo, nessuno si gira indietro per gettarci almeno un’occhiata. E nessuno ride.
Ridono invece i bambini dell’immenso parco giochi di Monsu Fan. Sono vestiti tutti uguali, camice bianche e fazzoletti rossi al collo. E aspettano contenti che arrivi il loro turno di salire su una delle tante giostre che costellano il parco. Ma basta avvicinarsi, impugnare la macchina fotografica, e subito i sorrisi si spengono. I bambini girano tutti assieme le spalle all’obbiettivo, e fuggono via. Ci vuole la paziente gentilezza di un maestro per convincerli a fermarsi. Seri, accettano allora di farsi riprendere. Ma quando vedono nei display delle macchine digitali i loro volti appena rubati, allora ridono. E si accalcano attorno agli stranieri, si spingono per entrare nell’obbiettivo, commentano la magia a cui hanno appena assistito. «Quando ero piccolo anch’io mi comportavo così – mormora Bac, il più giovane dei nostri guardiani -. Mi dicevano che dovevo avere paura degli stranieri. E io ci credevo…». La sera prima Bac, che parla un inglese eccellente, aveva cantato «Bella Ciao» per i suoi ospiti-prigionieri. Aveva bevuto, fumato, e tradotto con enfasi esagerata i convenevoli di circostanza del suo capo. Ma quando gli avevamo proposto un giro per le strade di notte si era ritratto, spaventato a morte. «No, no, è pericoloso», aveva sussurrato prima di spingerci di nuovo verso l’albergo.
La paura la vedi agli incroci delle strade, quando i camion carichi di terra frenano bruscamente solo perché un’auto ha suonato il clacson: chi ha un’auto ha potere, e dunque è da temere. E la vedi negli sguardi dei passeggeri della metropolitana, scesi giù per cento metri per imbarcarsi in uno dei vecchi vagoni, sorvegliati da immensi ritratti di Kim Il Sung, il «presidente eterno». Vedono stranieri, ai quali è stata imposta una fascia bianca e azzurra al braccio. Vedono i controllori, abito nero e camicia bianca. E come per miracolo un vagone rimane vuoto: nessun passeggero ci sale, senza che nessuno lo abbia chiesto. Sarà quello il vagone degli stranieri. Ma forse l’immagine più netta e lucida del rapporto fra la gente e il potere la cogli davanti a uno dei palazzi ministeriali: un contadino, abito grigio, cravatta e un cappello di paglia in testa, aspetta immobile sull’attenti. Due metri più in là una giovanissima sentinella controlla al telefono con qualcuno i documenti dell’uomo. E’ poco più di un bambino, mentre l’altro è un vecchio. Ma il bambino indossa una divisa e ha un kalashnikov a tracolla. E’ anche lui il potere. Ma c’è anche chi, nel chiuso delle sue case, cerca di ribellarsi come può. La televisione trasmette solo marce e immagini del vecchio leader defunto e del suo erede, Kim Jong Il. Solo la sera c’è uno scarno telegiornale, e nel fine settimana qualche film. Allora si comprano videocassette o Cd di contrabbando, e li si ascolta a volume basso, per timore dei vicini. Ma la polizia sa, fruga. E in uno dei giganteschi palazzi all’improvviso va via la luce. L’hanno tolta loro, i poliziotti. Cassette e Cd restano bloccati nei lettori. Basta entrare nelle case e scoprire chi tradisce.
Eppure è bello, questo sfortunato Paese. Nel lungo viaggio che ci porta a Panmunjom, al fatidico 38° parallelo, corriamo in mezzo a colline basse e dolci, accanto a campi di frumento e risaie dove lavorano donne e soldati. Nessun villaggio, nessuna casa isolata. Ogni tanto un gruppo di edifici bassi e malconci: sono fattorie collettive. Niente trattori, niente aratri. Solo uomini e donne chini sui campi. Poi i soldati si moltiplicano, e sui campi svettano due altissimi piloni, con due bandiere: Nord e Sud. La «no man’s land» è ormai un museo. C’è il tavolo dove venne firmato l’armistizio, c’è la frontiera che corre a separare il tavolo dei contendenti, giusto in mezzo. E ci sono le telecamere che si spiano a vicenda. Ma almeno quello è un tempo che di sicuro non tornerà più.
Giuliano Gallo
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L’ALTRA FACCIA DELLA DITTATURA
Quadri e palazzi, il «Kim style» seduce l’Occidente
E’ come se, dovendo avere a che fare con un soggetto poco raccomandabile, ci si consolasse considerandone il taglio degli abiti, la fattura delle scarpe, la mano del barbiere. La Corea del Nord resta un Paese poco raccomandabile, non a caso pezzo forte della lista di «nazioni canaglia» stilata da George Bush. Però sa esercitare un fascino perverso, sollecita curiosità inconfessabili. Per cominciare, i boulevard deserti della capitale, i monumenti di proporzioni sempre maggiori rispetto all’utile o al ragionevole, l’orwelliana, spettrale onnipresenza di slogan che sormontano i palazzi, tutto forma un implacabile repertorio di suggestioni. E se la chiusura politica del suo regime (avvitato in un ibrido di stalinismo e autarchia xenofoba) alimenta il gusto del proibito, allo stesso tempo le claudicanti aperture economiche consentono sguardi che per un attimo – solo per un attimo – ignorino i terrificanti rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch sui diritti umani violati o i resoconti dei profughi fuggiti attraverso la Cina. La Corea del Nord è ancora un mondo a parte. E come tale conserva intatto un universo di immagini, forme, situazioni capaci di sedurre e di fare vittime illustri. L’attenzione di riviste patinate, mercanti d’arte, architetti, fotografi occidentali sembra scovare persino un lato glamour nella truce estetica real-socialista di Pyongyang, nel décor giurassico eppure attuale di certi interni, congelati negli anni Sessanta della prosperità perduta. Alla nazionale di calcio di allora, quella che nel 1966 stese l’Italia, l’inglese Nicholas Bonner ha dedicato un documentario. Ora ha aperto a Pechino una galleria che raccoglie un migliaio di lavori di artisti nordcoreani. Le opere vanno via per cifre che oscillano tra gli 80 e le migliaia di dollari, con cinesi e occidentali pazzi per tempere e olii d’argomento politico-pedagogico e i sudcoreani – scrive il New York Times – che si buttano su chine e acquarelli dallo stile più tradizionale.
Facile, per i coreani a sud del 38° parallelo, nutrire di tanto in tanto un po’ d’indulgenza verso i fratelli separati al di là della munita cortina di bambù e di ferro. Dopo gli exploit della «diplomazia del sole» – era il 2000, secoli fa – a Seul andavano montature d’occhiali, giacchine con lo zip, capelli cotonati alla maniera di Kim Jong Il. Per gli occidentali è invece la capitale a scatenare le passioni più inconsulte. La rivista di architettura Domus ha lanciato un concorso di idee su come riportare in vita l’immensa mole del Ryugyong Hotel, «rudere di un albergo mai ultimato», piramide di 330 metri avviata nel 1987 che incombe vuota su Pyongyang. Il direttore Stefano Boeri e i suoi collaboratori hanno incontrato gli urbanisti nordcoreani, mentre il fotografo Armin Linke documenta una città concepita come uno sterminato set. Con lampi metafisici: falce, martello e pennello giganti, un po’ stalinismo un po’ Cinecittà. Pyongyang è un organismo artificiale, nato sulle ceneri dei bombardamenti americani e diventato un eclettico compendio di storia dell’architettura (da Lloyd Wright a Le Corbusier), con infinite quinte di edifici innalzati a celebrare il regime, il culto (confuciano, alla fin fine…) del suo fondatore Kim Il Sung, il suo dogma.
Aveva avviato il corso tre anni fa Wallpaper , e colpiva che la raffinata, altezzosa rivista impaginasse – tra un servizio sulla grazia un po’ agé del Lido e la pubblicità di una Mercedes – «il primo rapporto approfondito sui tesori architettonici e le attrazioni della città pubblicato in Occidente». Quindi il fotografo Nicolas Righetti ha compiuto un’operazione da artista («The Last Paradise», Umbrage Editions) sgranando le immagini della Repubblica Popolare Democratica come dentro uno schermo televisivo, giocando con il «caro leader» Kim Jong Il, le parate, i dipinti della propaganda. Un caleidoscopio irriverente che vale una condanna politica. Scrive lo studioso Michael Breen in «All’ombra del dittatore grasso» (Isbn Edizioni) che Pyongyang «non è che un’enorme menzogna. I suoi viali e i magnifici palazzi formano un panorama emozionante e ingannevole». Tutto quadra. In fondo, ogni seduttore gioca di emozioni e inganni.
Marco Del Corona