(il Foglio) Pena di morte ”extrema ratio”

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Un filosofo cattolico ci spiega perché giustiziare Saddam si può ma non si deve


Giacomo Samek Lodovici
Il Foglio, 22.06.2006, p. 2.

La richiesta dell’accusa al processo intentato a Saddam
Hussein, come già, recentemente, l’assassinio del piccolo
Tommaso, ha riportato in auge il dibattito sulla pena di
morte (cfr. per es. il parere favorevole all’esecuzione dell’ex
dittatore iracheno da parte del liberal Paul Barman sul
Corriere).
Ma qual è la posizione cattolica riguardo alla pena di
morte? Per comprenderla bisogna interrogarsi sulle funzioni
della pena che per S. Tommaso (Somma teologica, II-II, q.
108, a. 4) e per il Catechismo della Chiesa Cattolica (n.
2266) sono: 1) rieducativa; 2) difensiva 3) retributiva.
Quest’ultima è il corrispettivo, proporzionato, del male
commesso dal reo, e ristabilisce l’uguaglianza, la
reciprocità, la simmetria che il reo infrange ottenendo un
vantaggio indebito a spese degli altri.
Perciò, come una squadra sportiva che ha barato deve essere
penalizzata, così il reo deve subire una pena per scontare
il male che ha compiuto.

Non solo, ma il reo, prevaricando sui suoi simili, ha
abdicato alla propria dignità, che la pena gli restituisce.
In tal modo, dice Platone (Gorgia, 478 A – 479 E), la cosa
peggiore che può capitare ad un uomo non è commettere
ingiustizia, ma commettere ingiustizia e non venire punito,
perché non recupera la propria dignità.

Ciò significa che esiste un diritto-dovere dello Stato di
punire, ma anche un diritto del reo di essere punito dallo
Stato (qualche volta, sebbene raramente, il reo ne è
consapevole) per poter recuperare la propria dignità.

Qual è la differenza con la vendetta? Come spiega S. Tommaso
(Somma teologica, II-II, q. 108, a. 1) la vendetta desidera
danneggiare il reo, e Berman sul Corriere invoca la pena
capitale per Saddam “per placare il popolo iracheno”; invece
la pena come retribuzione ha un’intenzione diversa:
ristabilire l’uguaglianza infranta dal reo e ridargli la
dignità che ha perso, quindi non vuole il male del reo, ma
il suo bene.
Fare del male a qualcuno non vuol dire sempre fare il male
morale: il padre che punisce il figlio che sbaglia gli fa
male, ma non fa del male morale, anzi fa del bene morale e
fa il bene del figlio.

Qual è la differenza con la legge del taglione?
La pena dev’essere proporzionata, ma non guarda solo ai
fatti (occhio per occhio), bensì anche alle intenzioni, alla
consapevolezza e alla premeditazione del reo; inoltre la
logica del taglione colpisce anche chi non c’entra (se x
uccide i figli di y, y per ritorsione uccide i figli di x),
mentre la pena retributiva affligge solo il responsabile di
un male.

Un’ultima obiezione: il male compiuto non si può cancellare
e la pena aggiunge un nuovo male a quello già compiuto.
In realtà, nessuno pretende che il male sia cancellato; con
la pena si vuole ristabilire l’uguaglianza tra gli uomini,
quindi la pena non aggiunge un nuovo male a quello già
esistente, bensì fa del bene.

Ora, il perdono cristiano concerne il colpevole ma non
toglie la colpa e la pena: altrimenti il confessore non
comminerebbe la penitenza al peccatore, che è già pentito. E
il porgere l’altra guancia non toglie la liceità della
legittima difesa che, dice il Catechismo (n. 2265), “oltre
che un diritto, può anche essere un grave dovere, per chi è
responsabile della vita degli altri” perché io posso
scegliere di porgere l’altra guancia se qualcuno aggredisce
me, ma ho il dovere di reagire se qualcuno aggredisce chi è
sotto la mia responsabilità (per es. se io sono un padre e
qualcuno aggredisce mio figlio, oppure se sono un governante
e qualcuno mette in pericolo i cittadini che io devo
tutelare).

Per quanto concerne la pena di morte, l’insegnamento
cattolico distingue la giustificazione teorica della pena di
morte dall’opportunità della sua applicazione pratica, in un
caso concreto.
Ci sono dei requisiti in presenza dei quali la pena capitale
può essere teoricamente giusta, ma poi essi debbono essere
riscontrati in concreto.

Dal punto di vista retributivo, la pena dev’essere
proporzionata al male compiuto, perciò, dice S. Tommaso
(Somma teologica, I-II, q. 1, a. 3, ad 3), in linea teorica
non si può escludere che esistano crimini straordinariamente
efferati che solo la pena di morte può riequilibrare.
Ma come stabilire in concreto quando si configura questa
proporzione, quanto il reo era veramente consapevole della
malvagità di ciò che stava facendo, quanto era libero, ecc.?

Dal punto di vista difensivo, per S. Tommaso (Somma
teologica, II-II, q. 66, a 2, q. 108, a. 3, ad 3) e per il
Catechismo (n. 2267) è possibile che lo Stato sia costretto
per difendersi ad uccidere un colpevole: “L’insegnamento
tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno
accertamento dell’identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.

Del resto la pena di morte era prevista dalla legge mosaica
(Es 21, 14-23, cfr. anche Lev 10 e ss.) ed era conciliabile
con il comandamento del “non uccidere”, che è rivolto alle
persone private. E S. Paolo dice che l’autorità “non invano
porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta
condanna di chi opera il male” (Rm 13, 4 ss).
Lo Stato non ha diritto di togliermi la vita come non ha
diritto di togliermi la libertà, a meno che io non meriti
una pena. Se la pena di morte fosse un assassinio di Stato,
allora la prigione sarebbe un sequestro di Stato.

Tuttavia, prosegue il Catechismo, la pena capitale è lecita
solo “quando questa fosse l’unica via praticabile per
difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani”.
Perciò se “i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere
dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone,
l’autorità si limiterà a questi mezzi” e oggi “i casi di
assoluta necessità di soppressione del reo “sono ormai molto
rari, se non addirittura praticamente inesistenti””.
Così, dal punto di vista pratico, la pena di morte non è più
necessaria per la difesa della società.

Infine, dal punto di vista rieducativo la prospettiva della
morte può condurre una persona a rivisitare la sua vita e a
pentirsi; ma non si può essere certi che egli si ravveda per
questa minaccia, quindi si corre il grave pericolo di punire
con la morte senza raggiungere il risultato voluto; e
qualora si potesse conoscere l’interiorità del reo e si
potesse accertarne l’avvenuto pentimento, non avrebbe più
senso eseguire la condanna, perché la sola prospettiva della
morte, senza bisogno dell’esecuzione, avrebbe già ottenuto
lo scopo.