Una condanna da 1.800 anni
I trenta denari e la politica
L’eresia dell’«Iscariota benefico»
L’eresia dell’«Iscariota benefico»
di Vittorio Messori
Smettiamola, innanzitutto, con le sciocchezze un po’ ridicole. Come alcune sintesi e interpretazioni di ieri a commento dell’omelia del Papa alla liturgia che commemora l’istituzione dell’eucaristia. Sintesi come: «Nessuna riabilitazione per l’apostolo che pure non tradì, come ora sappiamo». Come già detto su queste stesse colonne, già oltre diciotto secoli fa la Chiesa condannò un’eresia gnostica tra tante, quella dei «cainiti» che, valorizzando in chiave antiebraica le figure negative della Scrittura, ipotizzava un Iscariota benefico, traditore su commissione di Gesù stesso. Da 1800 anni sapevamo della condanna dei Padri della Chiesa di questo pseudo-vangelo e, oltre al nome, ne conoscevano a larghi tratti i contenuti e le intenzioni. Sapevamo, dunque, su che cosa si basava la condanna. Il papiro pubblicato ora a cura del National Geographic Magazine, con un clamore mediatico sospettato non a torto di interesse commerciale, non ci rivela nulla di nuovo se non alcuni dei testi precisi sui quali calò l’interdetto cattolico.Insomma: un frammento di apocrifo come tanti, una curiosità per specialisti sugli infiniti deliramenta della capacità orientale di costruire fantasiose eresie, non certo la rivelazione di un «altro modo » di leggere la figura di Giuda all’interno della Chiesa apostolica. Se nessuno parla delle infinite bizzarrie eterodosse dei testi apocrifi del Nuovo Testamento, forse non è solo perché i giornalisti ne sanno poco, ma perché nessuna azienda ha pensato di sfruttarli per vendere riviste, libri, dvd. E anche perché non si è deciso (almeno per il momento, ma ci stiamo arrivando) di inserire anch’essi nel grottesco filone pseudo-biblico del quale Dan Brown è solo lo spacciatore più fortunato.
Per venire a cose più concrete: nel suo commento all’apertura del Triduo Pasquale, Benedetto XVI ha mostrato di aderire ad una tra le molte ipotesi che — peraltro liberamente e legittimamente — dividono esegeti e teologi cristiani, non solo cattolici. Il papa, infatti, ha detto che Giuda «valuta Gesù secondo le categorie del potere e del successo: per lui l’amore non conta, solo potere e successo sono una realtà».
Questa dell’attuale pontefice è la lettura più severa del mistero del tradimento. Per altri commentatori, non ci fu, all’origine, il desiderio di soldi: le trenta monete d’argento (non denari, assai preziosi, ma modesti sicli o stateri) non erano una gran somma, equivalevano al prezzo di uno schiavo della qualità peggiore, vecchio e poco abile. Poiché l’apostolo era l’amministratore della comunità itinerante (mantenuta, con generosità, da ricche mogli e vedove, oltre che da offerte di devoti e simpatizzanti), sarebbe stato più proficuo fuggire con la cassa. Secondo alcuni, non il lucro maproprio l’amore deluso spiega il comportamento di Giuda.
Alla pari dei suoi compagni, e di ogni ebreo del tempo, egli attendeva un Messia vincitore, un Inviato che—in nome di Dio—liberasse Israele dall’oppressione e gli sottomettesse gli altri popoli. La delusione andò crescendo, davanti al rifiuto di Gesù di assumere un ruolo politico; davanti al suo rifiuto di difendersi; davanti —addirittura—al preannuncio della morte. E che morte, visto che la croce era per i romani il supplizio per gli schiavi e per gli ebrei il segno della maledizione divina! Soltanto per una finta Giuda avrebbe accettato dal sinedrio il modesto compenso per indicare dove il Maestro passasse le notti, così da poterlo arrestare.
Era questo il modo—pensava—per mettere con le spalle al muro, per snidare quel Messia riluttante e così tardo a svelare il suo potere: per non essere catturato avrebbe finalmente mostrato quale fosse la potenza del Dio che lo aveva inviato. E, invece, non andò così: Gesù proibì agli apostoli ogni difesa con la spada, si lasciò legare e percuotere, fu trascinato davanti al tribunale che avrebbe chiesto al governatore romano la sua morte. Da qui, la disperazione di Giuda, il crollo che lo portò al suicidio. Ciò che lo aveva mosso era, probabilmente, anche l’interesse personale: quello di far parte del gruppo ristretto e intimo dei collaboratori del Messia destinato, finalmente, a trionfare come un grande re. E in questo è d’accordo papa Ratzinger, parlando di ricerca di «potere e successo». Ma poteva esserci anche, lo si diceva, l’amore per quanto distorto, il desiderio di aiutare quel Galileo — che tanto lo aveva attratto da indurlo a seguirlo per anni — a rompere gli indugi, a mostrare chi fosse veramente.
Ipotesi, naturalmente, destinate a rimanere tali: Dio solo sa che cosa sia passato nel cuore di quello sventurato, quali siano state lemotivazioni profonde della decisione fatale. Non a caso la Chiesa non prende posizione ufficiale su di esse e lascia libertà ai biblisti, ai teologi, ai predicatori. Anche il papa, ovviamente, ha ogni facoltà di propendere per una congettura o per un’altra, poiché ciò che conta è la conseguenza sia storica che metastorica del gesto dell’Iscariota. In ogni caso, anche per Giuda la Chiesa non viene meno alla sua convinzione di sempre: sa, cioè, di avere dal Cristo la possibilità di affermare la salvezza eterna di un suo figlio, proclamando beati e santi. Ma sa di non potere affermare di nessuno che si sia perduto per sempre: indica alcuni degli abitanti del Paradiso, si astiene da ogni nome per l’Inferno. E’ un silenzio che vale per tutti, persino per colui del quale il Maestro disse le parole terribili: «Meglio pr lui se non fosse mai nato». Neppure questo, confermano concordi Santi e Dottori, permette agli uomini di porre limiti alla misericordia divina.
Vittorio Messori
14 aprile 2006