Una mostra a Milano e una a Reggio per celebrare il Sessantotto. E soprattutto il suo lascito principale, cioè la “rivoluzione”, parola ormai abusata che di rivoluzionario non ha più nulla.
Resta soprattutto la rivoluzione sessuale: la pillola, l’aborto, la separazione fra sesso e gender. E cosa resta? Tutto ormai è abituale, burocratizzato

Il Sessantotto compie 50 anni, ma non è mai diventato grande, ed è pure a corto di lessico. Appena spente le luci della mostra milanese Revolution. Musica e ribelli 1966-1970 ‒ un cocktail lisergico di frutti scaduti come John Lennon, Allen Ginsberg e il boia Che Guevara ‒, a Reggio Emilia si bissa con Sex & Revolution! Immaginario, utopia, liberazione (1960-1977) in programma fino al 17 giugno a Palazzo Magnani nell’ambito della XIII edizione del Festival Fotografia Europea. Fantasia al potere, dicevano, ma glien’è rimasta poca.
Rivoluzione: quanta leggerezza in tuo nome. È stato il Sessantotto che ci ha insegnato a risciacquarci la bocca con questo termine inflazionato, nato per rifare il mondo e finito alla tivù commerciale a celebrare il mito borghese del nuovo urban crossover che è tutta un’app.
Tutto è rivoluzione, nulla è rivoluzione. E la rivoluzione si è fatta pop e seriale, come la Marylin di Andy Warhol. Ma «la rivoluzione», diceva Luciano Bianciardi, «deve cominciare in interiore homine».
Rivoluzione va infatti scritto maiuscolo perché è una cosa seria, anzi terribile. Un termine grave e greve, pesante come un macigno, un sasso che schiaccia. È il film horror trasmesso a reti unificate da che mondo è mondo, a partire da quando nell’Eden i nostri progenitori mandarono a gambe all’aria tutto per dare retta a uno che poi finì a strisciare sul ventre, ingollando polvere e schifezze.
La Rivoluzione è una cosa seria che si dice delle cose serie.
È un progetto titanico contro Dio per asservire tutto al nemico dell’umana natura.
Ha prodotto ribellioni e sciagure, guerre e distruzioni, morti prime del corpo e morti seconde dell’anima.