Fratel Ettore. Il prediletto di Maria

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\"\"Francesco Rocca, Fratel Ettore. Il prediletto di Maria, Edizioni Fede & Cultura, 2010, pp. 128, EAN 9788864090436, Euro 12,00.

Sconto su: http://www.theseuslibri.it/

Prefazione

Quando il biografo è anche testimone, il racconto acquista un valore e uno spessore del tutto particolari, perché il biografo finisce per raccontare anche se stesso, magari tra le pieghe della memoria. Un esempio fra tutti, la biografia di san Francesco scritta da Tommaso da Celano o, se vogliamo andare ancora più indietro, la stesura dei Vangeli, con san Giovanni che annota perfino l’ora del suo primo incontro con Gesù.

Francesco Rocca non ha scritto una biografia sistematica di Fratel Ettore: ha preferito confidare ai lettori la sua esperienza di amicizia e di collaborazione con l’apostolo dei poveri, degli ultimi, figura ben nota non solo a Milano. Rocca era sindaco di Seveso ai tempi della diossina, e proprio in quella città, quasi in riparazione, Fratel Ettore volle erigere Casa Betania, il centro di accoglienza e di preghiera che per anni assorbì privilegiatamente le sue cure. E fu proprio Rocca a firmare, con comprensibile apprensione, le cambiali per l’acquisto della prima casa, cambiali che provvidenzialmente vennero onorate ancor prima della scadenza. Del resto, Fratel Ettore ha sempre avuto dimestichezza con la Provvidenza, a conferma che le opere di Dio non vengono mai meno per mancanza di fondi ma, semmai, per mancanza di fede e di preghiera.

La scelta di raccontare Fratel Ettore attraverso aneddoti, episodi vissuti, è vincente: ne viene un mosaico in cui la figura del santo (lo chiamiamo così fin da ora, senza presunzione di anticipare il giudizio della Chiesa) emerge palpitante e realistica. Moltissimi di noi hanno incontrato, in piazza o nel Duomo di Milano, quello strano camilliano dai capelli arruffati, con quel suo camioncino con la Madonna di Fatima issata sul tetto, che recitava il Rosario attraverso l’altoparlante, seguito da un codazzo di barboni, alcuni anche in carrozzella. Una figura pittoresca? Non tanto e non solo. Brillava, nello sguardo ardente di Fratel Ettore, la fede del cristiano tradotta in opere di servizio ai poveri più poveri, agli emarginati dalla società opulenta. Con l’intraprendenza dell’amore di Dio, egli iniziò la sua opera nei sotterranei della Stazione Centrale di Milano, trasformati da lui in dormitorio e in mensa, ma anche nella cappella per l’adorazione dell’Eucaristia.

Sollecitava la generosità verso il prossimo, Fratel Ettore. Ma attraverso il megafono proclamava: «Non siamo qui per cercare l’elemosina. Siamo qui per far vedere che cosa è la povertà. Questi qui sono uomini e donne raccattati dalla povertà. Quello che date, è per loro che non hanno potuto averlo».

In queste pagine, la spiritualità di Fratel Ettore affiora con chiarezza: una spiritualità intrisa di Eucaristia e di preghiera (quanti Rosari recitati e fatti recitare!), di umiltà profondissima, di fede incrollabile, di carità esplicita e fattiva. Con grande fedeltà allo spirito di san Camillo de Lellis, di cui portava l’abito con la rossa croce sul petto, e profondo amore alla Chiesa, attraverso l’obbedienza ai vescovi. Anche i vescovi, sia il card. Carlo Maria Martini, sia il card. Dionigi Tettamanzi, riconobbero con incoraggiante affetto il carisma di Fratel Ettore.

È commovente, nel libro, l’episodio della visita del frate al vescovo di Como, mons. Alessandro Maggiolini, allo scopo di pregarlo di far in modo che Giovanni Paolo II, in vista a Como, potesse benedire almeno dall’elicottero, nel tragitto verso la Malpensa, la Casa Betania di Seveso, primo di numerosi centri analoghi, in Italia e in America Latina.

Dove c’è santità si aggira anche il diavolo, come ben hanno saputo e sperimentato il santo Curato d’Ars e san Pio da Pietrelcina. Anche Fratel Ettore ebbe a che fare con persone «bizzarre» e con l’odore di zolfo, e se talvolta la sua predicazione assumeva toni apocalittici non era per eccentricità bensì per l’esperienza dell’azione diabolica nel mondo, che si manifesta anche attraverso la diffusione dell’aborto, dell’Aids, della disgregazione delle famiglie, delle guerre in ogni angolo del mondo.

L’apparente disinvoltura di Fratel Ettore nel trattare le cose materiali non era in contrasto con il senso della legalità. Per esempio, egli non volle accogliere i clandestini, o persone sprovviste di documenti, non per timore della legge, ma per garantire una pacifica assistenza e convivenza ai bisognosi.

L’azione caritativa di Fratel Ettore fu riconosciuta anche dalle istituzioni: egli venne insignito dell’Ambrogino d’oro, massimo riconoscimento del Comune di Milano ai cittadini benemeriti, e ricevette il Premio Isimbardi, della Provincia di Milano. In quest’ultima occasione, Rocca racconta il singolare incontro di Fratel Ettore con l’anziana attrice Paola Borboni, ammirata e commossa, così come la scrittrice Annamaria Ortese, la quale fu colpita dalla fama di santità del camilliano.

Ebbe anche incomprensioni, Fratel Ettore, e più volte versò lacrime amare. Ma è sigillo di santità la Croce che egli ebbe a portare non solo sul petto.

Rocca ha voluto integrare il mosaico con alcune interessantissime appendici. In particolare, sono essenziali la testimonianza di sorella Teresa, prima collaboratrice di Fratel Ettore, del quale ha raccolto l’eredità istituzionale, e quella di Carla Rocca, sorella di Francesco, che ha assistito Fratel Ettore anche negli aspetti amministrativi. I ricordi di Carla, messi in fila da Mariarosa Vignoli Toffoletto, fanno toccare con mano l’azione della Provvidenza e confortano con l’evidenza che i santi sono tuttora in mezzo a noi.

 

 

Cesare Cavalleri

Direttore di "Studi cattolici"

Nota dell’Autore

Parlare o scrivere di un santo non è facile, si rischia di ripetere agiografie già note o, peggio, di cadere in banalità. Tante sono le sfaccettature della sua vita, o meglio della sua anima, anche quando si è avuta l’avventura di conoscerlo e vivere insieme qualche episodio del suo esistere tra noi. Il riflesso della coscienza, nota solo a Dio, si può intravedere solamente dall’esterno, per quell’eco che si comprende di una persona dalle sue azioni. In quelle di Fratel Ettore commuoveva la pietas che in esse vi metteva. Per noi, e per me, è stato il prediletto di Maria.

Sì, la Madonna gli ha voluto bene. Perché egli ha amato suo Figlio, Gesù, senza misura, concretamente, negli uomini e nelle donne malamente conciati dalla vita, anche malandati e ridotti a rottami umani, derelitti con sporcizia nel corpo e nell’anima. In essi ha visto l’angoscia di Gesù nell’orto del Getsèmani, tramutata in gocce di sangue sulla pelle.

Non è una sua biografia questa, tanti sono i siti Internet e alcuni libri che parlano di Fratel Ettore. Piuttosto, quelli raccolti in questa sede sono i frammenti della storia di un santo che ha vissuto in un secolo furibondo, episodi magari trascorsi insieme, qualche frase ascoltata a suo tempo senza darle peso e rimasta impigliata nella memoria. Dai pochi segmenti di vita, ai quali abbiamo avuto la grazia di partecipare, emerge una personalità forte, indomita, amante di Maria e di suo Figlio nello spirito di san Camillo, come soleva spesso dire.

In un mondo che sempre più si allontana dal cielo e sembra inoltrarsi in corruschi orizzonti verso il naufragio, sentiamo la necessità di queste personalità, di questi santi.

 

 

Seveso, 4 settembre 2009

 

Come sono fatti i santi?

Postfazione di Mario Palmaro

 

Come sono fatti, esattamente, i santi? Certe volte ce lo chiedono i bambini, che giustamente sono abituati – quando sono abituati bene – ad andare ad accendere un cero a San Giuseppe, a San Francesco, a Don Bosco, a Santa Rita. E si trovano davanti una meravigliosa – quando sono fortunati – statua di legno o di marmo, che rappresenta l’immagine di un campione della fede. Già: come sono fatti, esattamente, i santi? Forse questo libro è una piccola risposta a questa grande domanda.

Francesco Rocca ha avuto un’opportunità unica: quella di vivere per anni gomito a gomito accanto a un uomo che molti considerano un santo, e che certo è fortemente indiziato  di diventarlo anche lungo i percorsi giustamente rigorosi della Chiesa. Potremmo dire che le pagine di questo libro ci hanno offerto una descrizione molto ravvicinata della santità. Rocca ci ha raccontato un Fratel Ettore "visto da vicino", scegliendo uno stile narrativo molto semplice, a tratti nervoso, sempre realista. È una scelta indovinata, perché tratteggia la personalità del protagonista con notevole vigore. Delinea un quadro nel quale prevalgono i colori forti, i contrasti della luce e dell’ombra. Di fronte a questo personaggio, Rocca rivela una grande passione, e forse anche un po’ di nostalgia per un amico ingombrante che ha lasciato un vuoto che non si riesce a riempire.

Penso che a Fratel Ettore questo modo di raccontarlo sarebbe piaciuto. Perchè è così simile, così adeguato al suo modo di essere, alla sua personalità. E perché, in questa maniera, forse riusciamo ad avvicinarci almeno un po’ al mistero della santità. Che poi è, a ben guardare, il mistero della vita, del suo senso, del suo destino. Adesso che abbiamo letto gli aneddoti, che abbiamo "visto" le istantanee scattate da Rocca; adesso che abbiamo ripercorso in una sintesi riuscita il lungo nastro della vita di Ettore Boschini; ecco, forse adesso possiamo provare a descrivere almeno qualche ingrediente fondamentale di quella ricetta che chiamiamo santità.

Il santo è, innanzitutto, un uomo. Chi sorride divertito pensando alla banalità del secolo, si ricomponga: non c’è niente di più falso che pensare al santo come a un superuomo, o a un mezzo uomo, o a un alieno. Insomma, a una specie vivente fatto di una pasta diversa dalla mia e dalla tua che leggi. Il santo è l’uomo realizzato, pienamente realizzato. Fratel Ettore era uno di noi, nel senso che condivideva la nostra natura. Una creta già vista milioni, miliardi di volte. Il punto è che quella creta, nelle mani di Dio, genera lo spettacolo della santità.

Ed eccoci al secondo punto: il santo è uno che – per dirla con il grande Claudio Chieffo – "si fa fare". Si mette docilmente nelle mani del Padre e fa la sua volontà. Resta fermo immobile, mentre i colpi di scalpello del Grande Artista trasformano una massa informe in un capolavoro. Più rimane fermo ed è docile, più in fretta finisce il suo lavoro il Grande Artista. Fratel Ettore aveva la spiritualità di un bambino, semplice, diretta, provocatoria, talvolta sconvolgente. Era sereno, perché si era fatto strumento. Si era lasciato fare, trasformare da Dio.

Il santo poi è un innamorato. Un innamorato di Gesù Cristo e della Madonna. L’innamorato vede la sua amata dappertutto, e il santo vede Cristo dappertutto. Così a Fratel Ettore, un giorno è capitato di vedere il volto del Nazareno sul viso anonimo di un relitto umano. Poteva tirare diritto, lasciandolo lì in mezzo alla sporcizia e alla miseria del più terribile abbandono? No, non poteva. Ed è da quell’incontro che è iniziata la grande avventura di Fratel Ettore che raccatta i barboni della stazione Centrale, che li ripulisce e li riveste, che li sfama con l’aiuto della Provvidenza, come si legge anche nel libro di Francesco Rocca. È così che nascono le leggende, perché Fratel Ettore ormai a Milano – e non solo – è diventato un personaggio da leggenda. Ettore Boschini era un innamorato di Maria: lo sapevano bene i milanesi, abituati a vederlo scorrazzare per la città con un vecchio furgone sul quale troneggiava l’immagine della Madonna di Fatima. E lo sapevano bene gli abitanti di Seveso, che passando davanti alla chiesetta con le pareti di vetro di Corso Isonzo vedevano all’interno una cappellina dedicata alla Vergine apparsa nel 1917 ai tre pastorelli.

Il santo è uno che moltiplica. Come Fratel Ettore, che moltiplica il pane per i poveri, che arriva quando sembra che non ce ne sia più. E moltiplica il gesto del buon Samaritano per migliaia di volte, così che un’intera città si accorge dei poveri e riscopre il suo cuore più nobile. E moltiplica le conversioni, perché quando la gente vede una fede così concreta, così semplice, così vera che si può toccare e prendere in braccio, allora riscopre la strada verso l’unica fonte della salvezza, che è la Chiesa.

Il santo è uno che vede quello che noi non vogliamo vedere. Si deve sapere che lo sguardo è una cosa importante. Joseph Ratzinger, prima di diventare Papa (e un grandissimo Papa) ha scritto che dal modo in cui noi guardiamo l’altro si decide della nostra umanità. E com’è vero. I cuori si induriscono, le persone si inaridiscono quando ci si abitua a guardare il mondo con lo sguardo dell’indifferenza, dell’odio, della smania di arrivare, di vincere, di prevalere. Fa un po’ male ammetterlo, ma può essere un esercizio salutare, l’inizio di una conversione. Quanti sguardi di disprezzo, non solo verso i clochard, ma anche verso una ragazza in stato vegetativo "che è meglio che muoia piuttosto che stare lì così"; quanti sguardi gelidi verso un figlio concepito che "è meglio per lui non nascere"; quanti sguardi disperati verso un anziano che non capisce più niente, al punto che "è meglio aiutarlo ad andarsene piuttosto che soffrire così". Cento, mille, diecimila sguardi come questi uccidono. E ci uccidono dentro.

Il santo è uno che dice la verità. Fratel Ettore, che diceva la verità, era uno spettacolo pirotecnico, un Giovanni Battista nel deserto, un don Giovanni Bosco che va a corte ad avvertire i Savoia che non c’è futuro per le dinastie che perseguitano la Chiesa. Fratel Ettore era così: uno che si chinava sugli ultimi, ma che non amava l’ideologia solidaristica che mitizza il povero; uno che conosceva bene le miserie anche morali dei meno abbienti, che non sono "buoni" perché poveri, ma sono uomini. E come tali né migliori né peggiori di noi. Poveri noi e loro, nello stesso modo, quando non abbiamo Cristo.

Fratel Ettore era uno che diceva pane al pane e vino al vino, che urlava contro l’aborto legale, che non temeva di definirlo un delitto. Ettore Boschini incarnava alla perfezione il suo ruolo di figlio della Chiesa, che è madre e maestra. Che aiuta i poveri, ma non tace. Che riveste i clochard, ma non dimentica i bambini non nati. Che non pratica la solidarietà, ma la carità. Che ama tutti i suoi figli, anche se peccatori, ma non può benedire i matrimoni dei divorziati, o incoraggiare le convivenze matrimoniali. Quello di Fratel Ettore è stato un cattolicesimo autentico, e dunque un cattolicesimo senza sconti o saldi di fine stagione. Un cattolicesimo senza comfort, ben riassunto da quella grande croce rossa dei camilliani portata con orgoglio sul petto.

E, alla fine di tutto, il santo è inutile. Nel senso che il santo non cambia il corso della storia. Non risolve le emergenze sociali. Non rimuove le ingiustizie dalla società. Non costruisce paradisi del proletariato o della borghesia. Il santo non è misurabile con il metro dell’utilità, del risultato raggiunto, dei costi/benefici, della soddisfazione cliente. Il santo risponde solo a Dio e alla Chiesa. Fratel Ettore è passato come il suo Signore, "facendo il bene", curvandosi sui poveri più sgradevoli e ripugnanti. Apparentemente, nulla è cambiato. Ma, ancora una volta, ciò che fa la differenza è lo sguardo. Lo sguardo di centinaia, migliaia di persone che hanno incontrato Ettore dei poveri, e si sono sentite, magari dopo molti anni, amate. Fa bene pensare che anche adesso Fratel Ettore continua a guardarci con quello stesso sguardo buono. Che Dio ci mandi ancora molte persone "inutili" come lui.

 

 

 


Ricordo su "Il Cittadino"

Scrissi quasi cento righe, di getto, le corressi e le inviai lunedì 23 agosto 2004 a Losa con una breve nota: «Ti allego l’articolo che mi hai richiesto e ti ringrazio d’avermelo proposto. Scivendolo, tanti ricordi mi hanno suscitato commozione. Grazie… un abbraccio».

Sabato 28 agosto, in prima pagina del "Il Cittadino" con il titolo: "È morto Fratel Ettore, ha dedicato la sua vita agli ultimi tra gli ultimi", una grande fotografia di Fratel Ettore e, sotto una breve nota in grassetto della notizia, l’articolo intitolato "Ettore dei poveri: un cuore grande come la sua fede", che tentava di rispecchiare le commozioni e i ricordi suscitati in tutti e in me dalla sua scomparsa. Un articolo che ancora oggi rileggendolo, mi suscita tante emozioni evocate dalla prossimità di Fratel Ettore. Eccolo:

«Chi non l’aveva mai conosciuto, incontrandolo la prima volta rimaneva colpito dalla sua svolazzante tonaca di un nero slavato con la vermiglia croce sul petto, i corti capelli arruffati, la tenerezza espressa dai suoi occhi bruni e dolci, il bianco viso scavato dalle fatiche di anni e illuminato da un sorriso amabile che suscitava immediata simpatia».

La figura di Fratel Ettore mi rimbalzava nella memoria, mentre iniziai a scrivere l’articolo richiestomi. Che cosa potevo dire, se non che avevo conosciuto un santo. Fu la prima impressione quando lo conobbi e tale rimaneva. Chissà se riuscirò a trasmetterla. Continuai con questo pensiero fisso.

«Era Fratel Ettore, con il suo fare mai fermo come fosse mosso dall’impellente necessità di chinarsi sulle persone sofferenti e bisognose, i suoi diseredati. Restavano pure impresse le larghe tasche della veste, in cui metteva di tutto con le sue grandi mani contadine: rosari di plastica bianca, immaginette di Madonne e santi, piccoli Vangeli tascabili, soldi accartocciati sia fossero mille lire o centomila che sembrava entrassero nella tasca destra per uscire dalla sinistra.».

Perché Fratel Ettore non dava importanza al denaro:

"Quando ce ne è bisogno, arriva" diceva. E arrivava da vie sconosciute, di cui solo lui conosceva la fonte: "Il Signore, mai abbandona i suoi poveri", ripeteva con ostinata convinzione ai collaboratori. Ma occorre il canale giusto, perché affluiscano soprattutto in misere tasche, un canale fatto di dedizione totale della propria vita a chi manca di tutto. Così si sono consumati gli anni e la vita di Fratel Ettore, cominciando trenta anni fa da quell’uomo coperto di stracci sporchi di piaghe e di feci, letteralmente raccolto alla Stazione Centrale di Milano con le sue braccia vigorose di allora, trasportato alla San Camillo, lavato, medicato, rivestito di nuovo e assistito fino alla guarigione

Un episodio che mi ripromisi di riprendere con le sue parole da qualche altra parte, come me l’aveva raccontato.

«Da quell’episodio, scandaloso nell’era dei consumi, lui religioso imitatore di san Camillo de Lellis dedito agli infermi da infermiere patentato, espresse appieno la sua vocazione di assistere i più poveri tra i poveri, vedendo in loro i figli di Dio abbandonati da tutti, persone umane lasciate nei rigagnoli sporchi della società. Ottenne dalle Ferrovie dello Stato il permesso di occupare due androni, proprio sotto i binari, di via Sammartini, in modo da ospitare per qualche tempo quei diseredati che passavano notti e anche giorni nei pertugi nascosti della Centrale. Sorse il primo Rifugio, e mai parola fu così appropriata, che divenne presto luogo di ricovero per molte persone emarginate e senza dimora, separate le donne in un androne dagli uomini nell’altro. Un pasto caldo, un letto, cure e medicine, un programma da mantenere giorno dopo giorno con difficoltà di ogni tipo, ma tale da non scoraggiare Fratel Ettore e la sua ostinata vocazione».

Me lo rividi aggirarsi tra tavoli, sedie e l’altare in alto del primo vano. E i letti, molti letti, nel locale a fianco negli androni della Centrale di via Sammartini. Ne ebbi una stretta al cuore. Quanti affamati e nullatenenti vi aveva alloggiato? Ripresi a scrivere turbato.

«Intuì che nell’epoca dei media, oltre alla pubblicità dei consumi, doveva mostrare l’altra faccia, quella che non si vuole vedere, perché la miseria fatiscente e degenerata nei corpi è brutta da vedere. E portò in giro per le strade di Milano e di Roma, nelle piazze dei paesi e sotto le guglie del Duomo della metropoli, i suoi poveri con il bianco pullmino ammaccato e la Madonnina bianca fissata sul tetto: che tutti li vedessero e ne fossero in qualche modo turbati e toccati nel cuore e nelle loro cose superflue. Non sempre succedeva, anzi qualche volta vi era mancanza d’alimenti. Come quella sera, una delle prime, in cui scarseggiava sia il pane che il companatico distribuiti quotidianamente. Fratel Ettore fece scaldare un po’ di latte e iniziò il rosario, quando, subito dopo, giunse davanti al Rifugio un camioncino con sacchi di pane e carne e vi fu da sfamare tutti per quella sera e il giorno dopo. Vi era sempre qualcuno, mosso da compassione o a cui magari rodeva la coscienza per i beni malamente acquisiti, che si ricordava di fare un gesto caritatevole ai poveri di Fratel Ettore. Di questo genere di ricordi è piena la vita e l’attività di Fratel Ettore».

Chissà, pensai allora, se la gente sa di questi miracoli che quotidianamente avvenivano nei sottofondi della metropoli per sfamare e alloggiare i suoi scarti umani? Qualcuno certamente ci pensava.

«Negli anni che seguirono di episodi simili ne accaddero e accadono tuttora in continuazione: borse di plastica ripiene di alimenti, pacchi di vestiti nuovi o quasi nuovi smessi, talvolta materassi lasciati fuori dai cancelli e porte delle diverse Case di Accoglienza. L’eccedenza del necessario per la vita degli ospiti s’inviava in Croazia e in Bosnia con camion stracolmi durante le guerre che martoriavano le popolazioni jugoslave. Avveniva come il miracolo dei pani e pesci distribuiti dagli apostoli ai cinquemila uomini, saziandoli dopo aver seguito e ascoltato Gesù a Betsàida.

[…]

«In ogni "Casa" doveva esserci l’Oratorio con Gesù presente. Così volle da subito la cappella di corso Isonzo a Seveso, a vetri, aperta sulla strada. Un’altra stravaganza si disse, ma non era tale. "Che tutti li vedano i nostri ospiti, mentre pregano", aveva suggerito ai progettisti architetti Oreste Mariani e Roberto Paiella, deceduto qualche anno dopo la costruzione come lo ricorda una lapide interna. Su quella strada d’alto traffico, tra le vetrate della Cappella di Casa Betania s’intravedeva la figura di Fratel Ettore protesa in un discorso di fervore veemente, da ricordare i primi frati predicatori, rivolto con voce roca all’uditorio attento dei suoi poveri, magari qualcuno debole di mente, che l’ascoltavano per ore e ore e poi insieme con lui pregavano interminabili rosari. Non era solo un modo per tenerli quieti, più che fossero stati in una casa di cura di malattie mentali come suggeriva un valente psichiatra considerando l’aspetto umano di quelle preghiere. Perché la valenza era un\’altra, di dimensione diversa, andava e va oltre l’umano. Essi si univano al coro di supplica dolente che dal mondo intero va al Cielo e da lì ne discende consolazione e conforto che tranquillizza le menti e i cuori.».

L’assillo suo fu la continuazione della sua opera dopo di lui, che le realtà concrete, non solo di muri, non si disperdessero nel tempo. Fondò l’Associazione dei Missionari del Cuore Immacolato di Maria con la finalità di agire nello spirito di san Camillo, di cui divenne presidente. Raccolse intorno a sé alcune donne e costituì l’Associazione delle Discepole, emanazione della prima. Volle che il centro di tutta la frenetica attività fosse Casa Betania di Seveso, dotata di due consistenti padiglioni. Non era spesa da poco, occorreva avere qualche miliardo che ovviamente mancava. Nonostante le contrarietà dei collaboratori, non ci fu verso di fermarlo. E anche in quell’occasione avvenne giorno dopo giorno, si può dire mattone sopra mattone, il miracolo di far sorgere le costruzioni, di attrezzarle in un modo povero ma decente e confortevole. Come successe nella Casa di Bogotà qualche anno fa, di cui si può vedere dalle fotografie la nitidezza e pulizia dei locali d’accoglienza e dell’Oratorio

Le fotografie di Bogotà, mostrateci l’anno prima da sorella Teresa al ritorno dalla Colombia, vivide di colori risaltavano sul massiccio fratino dello studio dell’avvocato Grassani, lasciandoci stupefatti, noi riuniti per il Consiglio. Fratel Ettore, anche laggiù, era riuscito con molte peripezie a realizzare ambienti decorosi dove ospitare colombiani bisognosi.

«Il vivo desiderio che umilmente espresse fu di essere sepolto in quella cappella aperta alla gente, che tutti passando di lì rivolgessero un pensiero, più che a lui, ai suoi poveri che sempre ci saranno tra noi come ricordano Gesù e sua Madre. L’eredità di Fratel Ettore è onerosa, lasciata nel cuore e sulle spalle di sorella Teresa, sua discepola, con il conforto dei padri Camilliani.».

Quasi un mese fa ho sentito al telefono Fratel Ettore, steso sul lettino di una cameretta della San Camillo. Poche cose mi disse, con voce fioca, e terminammo con un’Ave Maria faticata da parte di entrambi. Fu l’ultimo saluto che ci siamo mandati, qui sulla terra. Ci mancherai Fratel Ettore