Pluralismo contro relativismo. Filosofia, religione, democrazia, a cura di Roberto Di Ceglie, Edizioni Ares, Milano 2004, pp. 296, euro 18 (collana «Ragione & fede», 23). ISBN 88-8155-306-6.
Gli interventi di questo libro sono firmati da: G Cottier; F. Di Blasi; R. Di Ceglie; R. Gallinaro; P. Giustiniani; A. Livi; M. Marsonet; P. P. Ottonello; D. Sacchi; H. Seidl; C. Vigna; P. Viotto
La crisi delle certezze in cui la società contemporanea sembra essere precipitata si manifesta tanto nella sfiducia nelle capacità della ragione filosofica e scientifica, quanto nell’oblio dei valori etici e dei significati linguistici (1). Ad aumentare il disorientamento della società globale è la prassi di un vero e proprio abuso delle parole più semplici e comunemente utilizzate, quali pluralismo e relativismo, il cui valore filosofico originario appare oggi completamente travisato. Al di là di una cerchia sempre più ristretta di filosofi che provano ancora a richiamare l’attenzione della cultura contemporanea sull’insostenibilità del relativismo, sono pressoché assenti dai grandi strumenti mediatici della contemporaneità coloro che osano combattere la negazione della verità. Anche perché questa tesi – l’affermazione dell’esistenza della verità, in modo anti-relativistico – viene normalmente associata all’irrealismo, allo spirito anti-democratico, all’incapacità di comprendere le differenze. In una parola, sarebbe quell’ultima barriera di intolleranza e anti-pluralismo che la modernità non ha saputo abbattere. Relativismo equivale a pluralismo autentico.
Ne è un chiaro esempio l’opinione diffusa circa l’arretratezza della Chiesa cattolica sui temi della morale. Essa è la conseguenza di un paralogismo, che suona più o meno così: 1) solo il relativismo è autentico pluralismo; 2) la Chiesa è per definizione una e afferma l’unicità della verità; 3) dunque la Chiesa non può essere autenticamente pluralista (2). Si ricava un facile corollario: siccome l’autentico pluralismo è nemico dell’intolleranza pratica e amico del rispetto dell’identità della persona, dei diritti umani, delle libertà sociali e morali, ecco che la Chiesa diventa il capro espiatorio di ogni posizione anti-moderna, illiberale, addirittura nemica della persona. Ma il cattolico è davvero nemico del pluralismo? Chi è nemico del pluralismo?
La risposta richiede un chiarimento sul significato di «pluralismo» e di «relativismo». È quanto emerge da una recente pubblicazione curata da Roberto di Ceglie, Pluralismo contro relativismo (3). Il fil rouge che il saggio propone è la riflessione sul problema della verità, con particolare attenzione al piano filosofico, politico e religioso.
Sospendendo da questa sede la dimensione religiosa della verità, data la complessità del tema, la questione della verità può essere illustrata ricorrendo alle premesse stesse della filosofia. La tesi del relativismo/pluralismo deve fare i conti con una posizione difficilmente controvertibile: «Tutti gli uomini per natura tendono al sapere». È la nota affermazione con cui Aristotele inizia la sua Metafisica (4). Il dato fenomenologico di questa evidenza ha una doppia lettura metempirica: 1) i molti desiderano l’uno; 2) «l’uomo non inizierebbe a cercare ciò che ignorasse del tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile» (5). Quindi, la pluralità tende all’unità, un’unità che si trova già, in qualche modo, nei molti che la cercano.
Se il pluralismo è inteso come l’antitesi del «riduzionismo» (reductio ad unum), esso è l’istanza filosofica per eccellenza. Solo una sorta di monismo assoluto, sia esso razionalistico, come quello di Hegel o del positivismo scientista, oppure sentimentalistico e irrazionalistico, come quello del vitalismo o dell’esistenzialismo, finisce per essere anti-filosofico, oltre che anti-umanistico.
Lontano dal rapporto molti/uno, il pluralismo viene inteso come una molteplicità schizofrenica di affermazioni prive di uno stretto legame analogico, tanto da prefigurare la molteplicità degli enunciati veritativi su cui ciascuno è chiamato a dare assenso o rifiuto. Il criterio per giudicare di una cultura, di un comportamento o di un’opinione è plurale, non nel senso che dipenda da una serie di valori logici ordinati, ma nel senso che risponde a molti criteri valutativi. Se non si scorge unità in un insieme di enunciati, non si dà neppure un ordine, cioè un criterio per operare la selezione logica. Si finisce per credere che la verità stessa non sia identificabile né con l’ordine delle cose né con quello ideale, il che equivale a pensarla inesistente. I singoli enunciati perciò non possono più essere veri o falsi, a seconda che partecipino o no della verità, ma veri secondo un soggetto conoscente, falsi secondo un altro, veri in una situazione, falsi in un’altra; veri e falsi insieme.
Ci si salva sostenendo che la verità dipende dal singolo soggetto, se non dalla «persona»: ciò che è vero per me, quello è vero, ma lo è solo per me. Rimane il problema che quel soggetto, che il «secondo me» identifica, cambia continuamente, in dipendenza delle infinite variabili dei differenti contesti sociali, del tempo, degli umori o degli stati d’animo. Ne risulta che il criterio del «secondo me» va specificato all’infinito, fino al dissolvimento del soggetto cui è demandato il compito del sapere.
In una forma più edulcorata, tale destrutturazione del soggetto si chiama pluralismo (relativistico): tante verità quanti i soggetti e gli oggetti con cui si relaziona. Non rimane che la pilatesca retorica del «che cos’è la verità?», la cui risposta è «tutto e niente» (i molti sono ugualmente veri, anche perché oggi si dice che tutto è complesso). Se tutto è vero, non c’è distinzione, differenziazione, criterio. Dunque, non c’è neppure il falso. E perciò neppure il non-falso, che è il vero.
La filosofia dell’indistinto è l’idea del caos, la logica del nichilismo. Del resto, il passo che dal pluralismo (relativistico) porta al nichilismo è breve (6). Se tutto è confuso, non vi è un criterio per conferire maggiore o minore valore alle cose. È lecito tutto: «Tutto è permesso». Dal punto di vista filosofico, non è sbagliato ritenere che la remota origine della mentalità nichilistica e atea sia il «volo dubitare de omnibus» di cartesiana memoria (7). Quello che solitamente viene studiato come il nuovo approccio moderno, «disincantato» alla certezza del conoscere, è quel seme cartesiano del dubbio che ha finito per generare le due contrapposte piante del materialismo e dello spiritualismo, dell’illuminismo e dell’idealismo. Ora, la prima evidenza fenomenologico-gnoseologica è che l’uomo è fatto per conoscere (8) e non per dubitare. Del resto, l’uomo sa che dubita perché conosce, e non viceversa. Non si nega che l’atteggiamento critico sia uno strumento imprescindibile per il sapere: tutti riconoscono che la metodologia della ricerca scientifica non può identificare il senso comune con il sapere elaborato e critico.
Tuttavia, se il sapere dipendesse solo dal dubitare di tutto, si saprebbe soltanto che l’uomo dubita di tutto, a eccezione del dubitare stesso. Ed è quello che il soggettivismo gnoseologico moderno (il razionalismo di Descartes o l’empirismo anglosassone) ha voluto far credere, tanto da tollerare che il suo ottocentesco «nipote», l’idealismo, affermasse che solo il pensiero esiste, ovvero, che una cosa esiste se è pensata (9).
Livi inquadra molto bene lo sfondo nichilistico del relativismo: esso, in senso proprio, è il rifiuto sistematico della verità come possibilità del pensiero (10). Tale rifiuto può essere espresso in molteplici modi, uno dei quali è lo storicismo di idealistica matrice. Paradossalmente, il pensiero hegeliano pretende di essere l’antitesi del relativismo, tramite l’identificazione del reale con il razionale. Ma tra gli effetti di questa impostazione va considerato una sorta di monismo immanentistico che non fa che abbeverare le ragioni del relativismo nichilistico. Per Hegel, infatti, la realtà è idea, spirito, il quale è tempo, storia. Dunque, tutto è divenire, tutto è storia. Da qui l’essenza della verità: il vero è il tutto, cioè la Storia. L’idea che non esista verità al di fuori della storia, tra le tante conseguenze, dà luogo a due implicazioni: 1) in primo luogo si traduce nella pretesa umana, troppo umana di negare l’Assoluto, inteso in senso letterale, ab-solutum, il senza relazione, il fuori dalla storia; 2) d’altra parte, se ha valore quanto sostiene il pungente Lewis, vale a dire che «il “punto di vista storico” significa che quando un uomo dotto incontra una qualsiasi affermazione in un libro vecchio, la domanda che non si farà mai è se tale affermazione sia vera» (11), lo storicismo favorisce l’oblio della verità, la riduzione della filosofia a filologia, del vero al certo, per citare Vico. In realtà è tanto reale il relativo, quanto ciò a cui il relativo si riferisce, cioè l’assoluto. «Come pensare il relativo?» si chiede Cottier. «Il termine stesso indica che non può essere pensato da solo. Si tratta di un aggettivo di cui si fa un sostantivo» (12). Siamo dunque autorizzati a pensare che se si dà il relativo, deve darsi anche l’assoluto? Sì. Ma questo passaggio non ci è immediatamente evidente. Si domanda infatti Cottier nella stessa pagina: «Ma di questo [l’assoluto] cosa sappiamo, prima di interrogarci sul relativo?».
Relativismo e «assolutismo» sono le due facce di uno stesso errore metodologico: la sfiducia nella forza discorsiva della ragione, ovvero la sfiducia nella scienza. Per questo non hanno senso da soli, così come il fenomeno non ha senso senza il fondamento (13); si dà il primo senza l’altro, ma in modi diversi. Il criterio di questa diversità è il fine del desiderio di conoscere la verità stessa. Se fossimo in mente Dei, non avremmo bisogno di pensare l’assoluto per mezzo del relativo. Ma, poiché filosofiamo, ciò che immediatamente ci consta è il frammento (14), tommasianamente l’ente (15), e non il tutto, l’essere.
La precarietà teorica del relativismo non è sufficiente per illuminarne le contraddizioni al livello della prassi morale e politica. A tal punto è radicata la mentalità post-moderna: dalla critica razionale a una posizione di principio, quand’anche fosse condivisa, non segue il rifiuto della sua messa in pratica! Una delle forme più diffuse di relativismo è quella «(onto)-etica» come dice Vigna (16), o semplicemente pragmatica. Si tratta del relativismo etico con il quale molti identificano la democrazia. I valori morali dipendono unicamente dal soggetto agente. Negli indirizzi delle scienze umane e filosofiche più recenti questa concezione ingenera diverse posizioni etiche, dall’etica della situazione alla teoria della scelta razionale. Ma la teoria etica che pare esprimere al meglio il dramma del relativismo etico è una sorta di neo-vitalismo basato sulle idee di istinto, vita e pulsione di fine secolo (17). Si badi però che l’emergenza dell’istinto (o della pulsione) irrazionale come luogo genuino dell’azione umana non è un’invenzione di Nietzsche o di Freud, e nemmeno di un certo determinismo riconducibile a Darwin. Il vero antesignano di questa posizione è quel surrogato della razionalità pratica che una linea di pensatori moderni (Hutcheson, Hume e Smith) ha chiamato «sentimento morale» (18). Oggi, il suo nome è emozione o stato emotivo. Se gli stati emotivi sono riconosciuti quali veri e unici motivi dell’azione umana, saranno anche i giudici della moralità (dei valori etici), a meno che non si voglia tornare a dar credito al «mito dello spettro nella macchina», come sosteneva Ryle, cioè a una teoria dualistica dell’uomo (due sostanze giustapposte, la mente e il corpo).
Del resto, vale in molte correnti di filosofia morale l’impossibilità di passare dal piano dell’essere a quello del dover essere (la is-ought question di Hume): se il valore non è questione ontologica, nel senso che le cose non sono imbevute di valore (altro è il de facto, altro de jure), non si può giudicare del «meglio» o del «peggio» come si giudica del «vero» e del «falso»: «Da un indicativo non si farà mai uscire un imperativo» (19). La facoltà che permette di cogliere il valore non può essere dunque la stessa che fa conoscere il vero e il falso. Ecco allora la facoltà adatta a «gustare» il valore: il sentimento morale. Va notato, in sede critica, che l’etica sentimentale confonde «la soggettività spirituale con la soggettività sensibile; volendo oltrepassare l’impersonalità della pura ragione, […] essa si ferma a un’affettività equivoca in cui la soddisfazione propria trova il suo tornaconto» (20).
Quanti poi chiamano quel sentimento forza vitale (21), nel tentativo di fondare in essa l’obbligazione morale (la «normalità»), oltre a non superare la confusione dell’affettività, riducono la morale a una prassi biologica, dove il meglio è dato dalla forza fisica o dalla numerosità del branco.
Se così stanno le cose, a essere rigorosi non passa poi grande differenza tra la logica del branco e quella della maggioranza, la quale identifica il sistema politico chiamato democrazia. Questa infatti non si esprime nella ricerca del vero (il bene comune dello Stato), ma nella ricerca del consenso politico finalizzato alla risoluzione di problematiche storiche, cioè contingenti e sociali. La democrazia è compromesso, continua mediazione tra gli ideali e la realtà. Ma gli ideali sono tanto storici e perciò contingenti, quanto «soggettivi» o faziosi: relativistici appunto. Del resto, ove fossero dei valori eterni e universali, una reale democrazia non esisterebbe! Ancora, la democrazia è il sistema politico fondato sulla libertà, la quale è ritenuta autentica quando è «in esercizio», cioè quando è vissuta come divieto di intromissione dello Stato o di un altro nella sfera privata dell’individuo (22), o come partecipazione al bene comune, attraverso la conquista del consenso politico (23). In altre parole, è necessario pensare che le «ragioni» della ragione debbano tollerare sempre quelle della libertà, quand’anche questa sbagliasse, pena il rischio di una dittatura. Rimane il problema della totale degenerazione della libertà, che impone la necessità di riferirsi a un comune concetto di democrazia, rafforzato attraverso procedure o regole condivise da tutti i cittadini per evitare che il libero sviluppo della democrazia porti a negare la democrazia stessa.
Tutto ciò giustifica l’opinione che la democrazia non sia una serie di contenuti di merito, ma un metodo per trattare problemi politici: in parole povere, si può parlare di tutto, dicendo tutto e il contrario di tutto, basta che si parli. Da ciò, la questione della fondazione o della precedenza assiologia della democrazia liberale non si pone neppure: la democrazia, come fa vedere molto bene Di Blasi, viene definita minimalisticamente «quel sistema politico fondato sulla libertà dei suoi membri che va preferito a qualunque altro sistema» (24). Se ci chiediamo perché sia da preferire, la risposta è immediata: per la garanzia del pluralismo, perché a ciascuno possa essere garantita la libertà. Come distinguere questa risposta da una impostazione relativistica? Popper invita a non confondere relativismo e pluralismo: il primo è una degenerazione del secondo (25). Il pluralismo è costruttivo della propria verità, attraverso il dialogo con l’altro; il relativismo è la moda culturale contingente, la prassi socialmente irresponsabile della convenienza individuale, che usa il concetto di tolleranza in modo ideologico.
La difesa di questa distinzione non può prescindere dal riferimento a una concezione di democrazia non neutrale, cioè non soltanto procedurale. Finché la democrazia è intesa come un sistema politico che si regge sulla garanzia formale di ogni idea di libertà per tutti (la priorità del giusto sul bene, come direbbe Rawls [26]), è impossibile difendere una adeguata distinzione tra relativismo e pluralismo.
Una democrazia autentica, che discerna tra l’irrazionalismo relativista e la ragionevolezza del pluralismo, non può essere senza valori, a cominciare dalla concezione della persona umana e dello Stato di diritto. Contro una ideologica concezione della democrazia come regno della libertà radicale, che finisce per trasformarsi in aperto o velato totalitarismo, va ricuperato il principio etico-politico del bene comune e la sua complementarità fondativa rispetto all’idea di giustizia. È quanto ha fatto J. Maritain, anche attraverso la sua battaglia per fondare un’autentica democrazia pluralista sui valori della persona, senza così rinunciare alla verità (27). La lezione maritainiana è particolarmente significativa per l’uomo contemporaneo: il pluralismo, dice il filosofo francese, è un valore metodologico imprescindibile tanto in politica, quanto nella ricerca del vero. Il sistema politico che sorge in forza del sapiente esercizio del pluralismo è la democrazia, che garantisce la coesistenza di libertà e verità. A essa si oppongono tanto lo «Stato dogmatico», che è autoritario e «sovrapersonale», quanto lo «Stato libertario», che è scettico, disimpegnato, spersonalizzante. I nemici della democrazia sono dunque nemici della persona: nemici – direbbe Maritain – dell’unità intrascendibile tra libero arbitrio (scelta radicale) e libertà morale (coscienza responsabile).
Nella misura in cui decade il valore della riflessione filosofica, cresce l’arbitrarietà dei significati delle parole e si tagliano giudizi sempre più opinabili. Sulle rovine delle ideologie e degli autoritarismi, nascono nuovi idoli: uno su tutti, l’opinione (la doxa). Del resto, se pensare significa solo domandare, giudicare vuol dire approssimarsi instancabilmente al problema, senza avere la superbia intellettuale di risolverlo. La mancanza di una risposta implica la presenza di molte verità, vale a dire l’assenza di una sola verità. Non più: vero è ciò che è; ma: vero è ciò che si crede, si opina essere tale, ciò che sembra. Ne consegue una lenta deriva del ragionamento, non più costruito sulle cose, ma su come le cose appaiono. Ora, un conto è sostenere che il pensiero insista sulla dialettica tra domanda e risposta; un conto è sostenere la necessità di una domanda di senso. Tutt’altra faccenda è dire che il senso o la risposta non vi sia. Un conto è dire che la verità sia mascherata, nascosta. Altro è dire che la verità sia la maschera stessa. Chi sostiene la seconda tesi, difficilmente crede che dietro la verità-maschera ci sia qualcosa, ma è portato a salvare la sua riflessione sostenendo la molteplicità delle facce. Il suo vero nome non è pluralista, ma relativista!
Per quanto sia difficile orientare il senso comune a distinguere tra pluralismo e relativismo, la passione per la verità che è propria dell’uomo insegna che la differenza è profonda e irriducibile. Tanto da rovesciare la tesi di coloro che, ideologicamente o ingenuamente, ritengono che solo il relativista non possa essere «prevenuto» nei confronti di una posizione diversa dalla sua, manifestandosi così pluralista. In realtà, il vero «nemico» del pluralismo filosofico, etico, politico e persino religioso è lo scettico (o il nichilista), che si nasconde sotto l’affascinante nome di relativista (o libertino), colui per il quale la verità significa rinuncia alla libertà e l’affermazione della libertà si traduce nel valore assoluto del «secondo me», in una sorta di solipsismo radicale, da cui segue il rifiuto del confronto con gli altri.
Matteo Laghi
1 Cfr Fides et ratio, § 81, a proposito della «crisi del senso» che caratterizza la «nostra condizione attuale» e produce una vera e propria frammentarietà del sapere (corsivo nostro); e § 91, a proposito degli effetti ascritti da alcune correnti di pensiero alla cosiddetta post-modernità, secondo la quale «l’uomo dovrebbe ormai imparare a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso, all’insegna del provvisorio e del fuggevole». Cfr anche Veritatis splendor, § 32, che riconduce la «crisi intorno alla verità» all’esaltazione della libertà assoluta, intesa come «la sorgente dei valori».
2 Cfr Centesimus annus, § 46: «Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo e il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti sono convinti di conoscere la verità e aderiscono con fermezza a essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici» (corsivo nostro).
3 Pluralismo contro relativismo. Filosofia, religione, democrazia, a cura di Roberto Di Ceglie, Edizioni Ares, Milano 2004, pp. 296, euro 18 (collana «Ragione & fede», 23). Il volume raccoglie alcune delle relazioni presentate al convegno Sul relativismo e sulle forme dello scetticismo contemporaneo, tenuto nel 2003 a Roma e organizzato dalla Facoltà di Filosofia dell’Università Lateranense e dall’Associazione di filosofia «Sensus communis». Gli autori sono Georges Cottier, Fulvio Di Blasi, Roberto Di Ceglie, Roberto Gallinaro, Pasquale Giustiniani, Antonio Livi, Michele Marsonet, Pier Paolo Ottonello, Dario Sacchi, Horst Seidl, Carmelo Vigna e Piero Viotto.
4 Metafisica, A 1, 980a20; cfr anche Fides et ratio, § 28: «Si può definire, dunque, l’uomo come colui che cerca la verità».
5 Fides et ratio, § 29.
6 Cfr Fides et ratio, § 90: «Le tesi fin qui esaminate [eclettismo, storicismo, scientismo e pragmatismo, cfr §§ 86-89] conducono, a loro volta, a una più generale concezione, che sembra oggi costituire l’orizzonte comune a molte filosofie che hanno preso congedo dal senso dell’essere. Intendo riferirmi alla lettura nichilista, che è insieme il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva».
7 Cfr A. Livi, Le forme attuali del relativismo, in Pluralismo contro relativismo, cit., p. 36.
8 È anche il senso del potente richiamo del Poeta: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza». Cfr Dante, Inferno, XXVI, 118-120.
9 Interessante a questo proposito il saggio di D. Sacchi, Oggettività e finitezza del conoscere umano. Premesse teoriche per un pluralismo non relativistico, in Pluralismo contro relativismo, cit., pp. 63-84.
10 A. Livi, Le forme attuali del relativismo, cit., p. 36.
11 C. S. Lewis, Le lettere di Berlicche, Milano 1998, p. 112.
12 G. Cottier, Senso del relativo e relativismo, in Pluralismo contro relativismo, cit., p. 53.
13 Cfr Fides et ratio, § 83.
14 C. Vigna, Il frammento e l’Intero, Vita e Pensiero, Milano 2000.
15 Tommaso, Q. de Verit., q. I, a. 1: «Illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum […] est ens».
16 L’espressione è di C. Vigna, Relativismo ontologico e relativismo etico, in Pluralismo contro relativismo pp. 129 e 131, in polemica tanto con la filosofia forte di Hegel, quanto con le «filosofie deboli» di R. Rorty, G. Vattimo e di J. Derrida.
17 Secondo H. Seidl, Quando l’etica finisce nel relativismo. A proposito di un’opera di Francesco Alberoni, in Pluralismo contro relativismo, cit., pp. 213-223, anche il pensiero di Alberoni soggiace a questa impostazione. Il suo vitalismo discende direttamente da parziali osservazioni empiriche mirate a convalidare una stereotipata teoria darwiniana.
18 Cfr D. Hume, Trattato sulla natura umana [1739-40], Laterza, Roma-Bari 1987, che colloca espressamente la sede della valutazione morale nel sentimento, in accordo con F. Hutcheson, di cui fu discepolo anche A. Smith, che nella sua Teoria dei sentimenti morali [1759], Rizzoli, Milano 1995, si fa antesignano di una «morale della simpatia».
19 È l’efficace commento alla questione humeana di J. De Finance, Etica generale, Tipografia Meridionale, Cassano Murge (BA) 1994, p. 23.
20 J. De Finance, Etica generale, cit., p. 130.
21 Cfr H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione [1932], Laterza, Roma-Bari 1995.
22 Cfr J. Stuart Mill, Saggio sulla libertà [1858], Il Saggiatore, Milano 1997.
23 Cfr H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia [1929], in Id., La democrazia, Il Mulino, Bologna 1984, specialmente le pp. 39-49 sulla libertà.
24 F. Di Blasi, Democrazia, crisi dell’autorità e legge naturale, in Pluralismo contro relativismo, cit., p. 192.
25 R. Gallinaro, Pluralismo politico e relativismo etico: una rilettura filosofico-politica, in Pluralismo contro relativismo, cit., p. 168.
26 Cfr F. Di Blasi, Democrazia, crisi dell’autorità e legge naturale, pp. 195-203; di J. Rawls si veda il classico Una teoria della giustizia [1971], Feltrinelli, Milano
27 P. Viotto, Il pluralismo come metodologia politica di Jacques Maritain, in Pluralismo contro relativismo, cit., pp. 139-161.