I cattolici: verità importanti anche nelle altre fedi ROMA – La maggioranza degli italiani che si dichiarano cattolici non pensa più che la propria religione rappresenti l’unico credo «vero». Sono ormai convinti, per quasi il 68%, che si possano riscontrare «verità importanti» in altre professioni religiose, compresa una parte di coloro che definiscono «unica vera» la religione cattolica. Addirittura il 25% ritiene che quelle verità importanti siano presenti in «tutte le religioni». Invece il 27,61% resta solidamente convinto che il cattolicesimo sia l’unica verità possibile. Con tutta evidenza la società multiculturale e multirazziale ha operato un cambiamento radicale nel tessuto spirituale e culturale di un Paese intrinsecamente cattolico come il nostro. Il dato è contenuto nella ricerca di imminente pubblicazione da Il Mulino e intitolata «Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo culturale e religioso degli italiani» a cura di Franco Garelli, Gustavo Guizzardi e Enzo Pace. Il volume sintetizza i risultati di una ricerca europea (« Religious and moral pluralism ») diretta per la parte italiana da Enzo Pace e condotta da gruppi di ricerca nelle università di Padova, Bologna, Roma-La Sapienza e Roma III, Torino, Trento e Trieste. Scrive Italo De Sandre introducendo il capitolo «Pratica, credenza e istituzionalizzazione delle religioni»: «Vi è una forte “turbolenza” nell’ambiente culturale e religioso cattolico provocata da una trasformazione silenziosa dell’appartenenza personale che avviene senza ribellioni e gesti evidenti né resistenze, in carenza di relazioni intrareligiose significative». Si assiste all’«incremento di un credere personale, globale o parziale, secondo il senso interpretante che ciascuno costruisce a se stesso». Naturalmente tutto questo dà vita a una appartenenza «che diventa molto differenziata sia nelle credenze che nelle pratiche e più difficilmente controllabile dal punto di vista collettivo».
Una ricerca del Mulino. Quasi il 30% dei laureati e il 25% dei diplomati va a messa la domenica
Il fenomeno si differenzia, come dimostra la ricerca pubblicata da Il Mulino , da generazione a generazione. Un esempio. Chi è nato prima del 1935 va in chiesa una volta a settimana nel 29,11% dei casi. Il dato decresce al 18,93% nelle generazioni nate tra il ’75 e l’81: è la stessa fascia di età che non va «mai» in chiesa per il 15,05% (i più anziani sono solo il 12,34%).
Fin qui l’ovvio. Ma poi arriva qualche sorpresa. Per esempio il rispetto dell’obbligo di ascoltare la messa ogni domenica. Si potrebbe facilmente pensare che la pratica assidua appartenga alle fasce meno colte e più «semplici» della società italiana. Invece è vero esattamente il contrario perché il 29,87% dei laureati osserva la regola ogni domenica: il dato cala al 24,67% tra chi ha la media superiore e al 24,71% per chi non ha alcun titolo di studio. Commenta Italo De Sandre: «Il massimo dell’istruzione si incrocia anche con la più alta frequenza relativa. Il che vale anche a dire che comunque non è detto che maggior istruzione voglia dire tout court allontanamento dalla religione e dalla pratica religiosa».
Poi si arriva alla parte (che abbiamo già citato all’inizio) dedicata alla «verità» della propria religione. La maggioranza dei cattolici, anche se con diverse sfumature, ritiene che sia possibile trovare «verità importanti» in alcune (o addirittura in tutte) le religioni. Commenta ancora De Sandre: «Un’ampia parte degli italiani “cattolici” ha talmente aperto i confini del proprio sistema di riferimento da ritenere che i valori si trovino in più parti». Ovviamente più cresce l’istruzione del soggetto e più aumenta la disponibilità a volgere lo sguardo, culturalmente e religiosamente, verso altri orizzonti: solo il 10,39% dei laureati e diplomati è graniticamente attaccato all’«unica verità» mentre ben il 40,26% di loro afferma che «in tutte le religioni» è possibile individuare verità importanti. Invece la percentuale dei «dogmatici» sale addirittura al 68,24% tra quei cattolici che non hanno alcun titolo di studio: e tra loro appena il 2,35% è disposto a scommettere sulle «altre verità». In quanto alle generazioni, lo stesso problema ottiene questo esito: chi è nato prima del 1935 nel 40,82% non ha esitazioni (unica verità) mentre solo il 19,90% di chi è nato tra il ’75 e l’81 è disposto a sottoscrivere la stessa certezza. Quasi il 30% dei giovani invece è sicuro della ricchezza di «verità» presenti nelle diverse confessioni religiose.
Altri dati. Per il 62,77% degli intervistati la religione non deve avere alcuna influenza sulla politica: solo il 4,56% ritiene il contrario («deve avere una grande influenza»). Più della metà degli interpellati (50,40%) crede in un Dio «col quale posso avere un rapporto personale e il 35,92% è convinto che Dio «sia dentro di noi e nella natura». Solo il 4,61% non crede «in nessun genere di Dio». Restando tra chi si dichiara cattolico, per paradosso appena il 58% assicura che Gesù «è Dio e uomo». Ben il 12,4% afferma che non fosse né l’uno né l’altro. Gli «incerti» sulla figura arrivano al 22%. E la Bibbia? Per il 40.25% è stata scritta da «uomini ispirati da Dio, ma…» e solo il 25,31% è sicuro che si tratti della «vera parola di Dio».
Molto interessante l’approccio con l’aldilà. Il 40% di chi ha risposto al questionario crede in «qualcosa, ma non so cosa» dopo la morte. Solo il 16,80% giura che la morte è la fine di tutto mentre una cifra analoga (16,98%) si aspetta canonicamente di «andare in paradiso o all’inferno».
E i simboli religiosi? L’82,15% sostiene che il Crocifisso non debba essere proibito nelle scuole statali contro il 9,94% di «proibizionisti». E il famoso velo islamico? Le ragazze obbligate dalla propria religione a coprirsi la testa dovrebbero avere questo diritto? Il 66% si dichiara «per niente d’accordo» e la cifra arriva al 75% con un no meno netto. Solo il 6,42% è «molto d’accordo».
Cosa sta accadendo dunque nell’Italia cattolica? Ecco la sintesi di Italo De Sandre: «Dio, Cristo, la Bibbia sono diventati anche per alcuni fedeli degli incerti oggetti di fede e la proiezione verso l’aldilà si ridimensiona per molti a un “qualcosa” che poco impegna a una vita corretta e poco attira. Dio non può più impegnare, né nell’affermare una verità in tribunale né nel rifiutare un atto sanitario ritenuto eticamente sbagliato». Due affermazioni che fino al dopoguerra sarebbero state impossibili in un’Italia che da sempre fa i propri conti storici con la presenza del Papato.
A cura di Paolo Conti
Corriere della Sera 10-10-2003