(Avvenire) Nuova campagna d’odio in Iraq

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CRISTIANI NEL MIRINO
il fatto La drammatica testimonianza del sacerdote che domenica sera celebrava la messa in una delle chiese attaccate. La paura dei fedeli, la tentazione di andarsene E la speranza che la convivenza con i musulmani non s’incrini

«Vogliono dividere il popolo»


«C’è chi sta seminando zizzania tra le due comunità e attraverso il terrore vuole spingerci ad abbandonare il nostro Paese»
«Al nuovo Iraq chiediamo parità di diritti con i musulmani»


Di Camille Eid


Avevamo appena finito di distribuire l’eucarestia e mancavano cinque minuti alla benedizione finale. Se i fedeli fossero già usciti dalla chiesa avremmo sicuramente avuto molte più vittime». Abuna Roufayil (padre Raffaele) è ancora in preda all’emozione. Era lui, come vicario episcopale, a celebrare la messa del pomeriggio, visto che il vescovo Matti Shaba Matoka si trovava ad Amman. «Ho ancora negli occhi l’esplosione e i detriti che cadevano sui fedeli, mentre il fumo e le lingue di fuoco avvolgevano la chiesa. Risuonano ancora nelle mie orecchie le grida, il pianto e le invocazioni. È stato un momento terribile».
Qual è stata la sua prima reazione?
Ho chiesto di aprire le porte della chiesa per evacuare l’assemblea e le decine di feriti. Lì dentro eravamo circa un migliaio, e si rischiava l’asfissia generale. La folla si è precipitata fuori spaventata: urla di disperazione, pianti, genitori che cercavano i figli, mariti che cercano le mogli.
I luoghi di culto cristiani beneficiavano prima degli attentati di qualche misura di protezione?
Abbiamo incaricato alcune guardie di vegliare sulle chiese solo durante la notte. Ma è un provvedimento che abbiamo adottato noi e non è frutto di un’iniziativa da parte del governo o delle forze della coalizione.
La simultaneità degli attacchi contro le chiese indica una puntuale pianificazione. Qual è l’obiettivo finale dei terroristi?
Non sono un analista politico, ma è chiaro che i terroristi miravano a creare confusione all’interno della comunità cristiana e a seminare zizzania tra cristiani e musulmani. Forse hanno anche pensato che attraverso il terrore spingono i nostri fedeli ad abbandonare la loro patria irachena per cercare rifugio all’estero. Mi auguro che questo non possa mai accadere.
L’emorragia dei fedeli iracheni risale ai primi anni dell’embargo. Siete perlomeno riusciti a bloccarla negli ultimi tempi?
Purtroppo, non ancora. Ai tempi dell’embargo sotto il vecchio regime l’emigrazione riguardava singo le persone, soprattutto i giovani che volevano sfuggire alle dure condizioni di vita e al servizio militare. Oggi, invece, l’emigrazione tocca famiglie intere. Molte lasciano l’Iraq a causa della situazione di insicurezza e si dirigono verso Damasco o Amman per procurarsi un visto per il Canada, l’Australia, la Svezia o gli Stati Uniti. È evidente che i più non faranno mai ritorno nel loro Paese.
Immagina come potranno reagire i suoi parrocchiani?
È ancora presto. Certamente la Chiesa non incoraggia l’emigrazione, ma bisogna anche riconoscere che gli attentati hanno rappresentato un momento di fortissimo choc per molti fedeli.
Il quartiere di Karrada è costituito da una maggioranza di cristiani. C’erano indizi di tensioni con i vostri vicini musulmani?
I rapporti sono sempre stati molto buoni. Tutti i capi religiosi islamici, sia sciiti sia sunniti, hanno condannato con forza gli attentati e moltissimi musulmani sono venuti a esprimere le loro condoglianza per le vittime cadute.
Qualcuno ha anche puntato il dito contro agenti stranieri…
Non è da escludere. Anzi. Qui c’è una deliberata volontà di provocare divisioni confessionali tra il popolo per mantenere il Paese in uno stato di disordine e indebolire noi cristiani.
O per spingervi a chiedere la protezione internazionale…
Forse è meglio che non ci sia questo tipo di protezione. I soldati americani sono corsi qui a visionare i luoghi dell’attentato, ma noi abbiamo sollecitato la presenza dei soli poliziotti iracheni.
Cosa chiedono i cristiani al nuovo Iraq a livello legislativo?
Gli stessi diritti che vengono riconosciuti ai musulmani. La conferenza episcopale irachena sta lavorando da tempo affinché la nuova Costituzione possa garantire pari opportunità a tutte le comunità religiose del Paese.


Avvenire 3-8-2004