Avvenire, 11 settembre 2002
Esce in Europa e negli States il «J’accuse» di Martin Amis sulle vittime del
bolscevismo «Come mai il giudizio su Stalin in Occidente è più tenero di
quello verso Hitler e nazismo?»
Da New York Elena Molinari Chi fu il vero mostro del XX secolo, Stalin o Hitler? «Oh, non farti tentare
dalle equivalenze morali». Martin Amis ha ricevuto risposte del genere da
tutti gli intellettuali di sinistra cui ha posto la domanda. Primo fra tutti
il suo amico giornalista e guru dei liberal americani Christopher Hitchens.
Ma Amis ha continuato a chiedere. In questo modo si è giocato l’amicizia con
Hitchens, cui non perdona di non essersi distanziato da Stalin, ma ha dato
alla luce un libro che affronta uno dei grandi tabù dei liberal americani ed
europei: quello che impedisce di mettere gli orrori del comunismo, pur
denunciati dalla sinistra, sullo stesso piano di quelli del nazismo. Amis,
che ammette di non essere uno storico o un esperto di filosofia politica ma
un romanziere, comincia il suo «Koba the dread. Laughter and the Twenty
Million» (Koba il terribile. Risate e i venti milioni), uscito da poco negli
Usa e in Gran Bretagna da Hyperion, citando una frase dal libro del massimo
storico della Russia sovietica Robert Conquest sulla collettivizzazione
forzata. «Possiamo mettere questa vicenda in prospettiva – scrive Conquest
in “The harvest of sorrow” – dicendo che a causa delle azioni qui ricordate
circa 20 vite umane furono perse per ogni lettera di questo libro». Il libro
è lungo 411 pagine, sottolinea Amis.
Allora perché tanti, come Hitchens, possono ancora ridere (le “risate” del
titolo del libro) della loro passata infatuazione con il comunismo o
addirittura difenderne i fini, come nessuno oserebbe fare se avesse
trascorsi fra le SS?
Amis tenta di dare delle risposte, alcune più convincenti, altre meno. Una
spiegazione viene dalle conversazioni avute con il padre, lo scrittore
Kingsley Amis, durante il suo lento ed amaro abbandono dell’idelogia
marxista. Amis cita un passaggio dal saggio in cui il padre sentì di dover
giustificare perch& eacute; “aveva svoltato a destra”. «L’ideale di
fratellanza fra gli uomini – scrive Amis il vecchio – della costruzione
della Città Giusta, non può essere dismesso senza lasciare per tutta la vita
un senso di delusione e di perdita». Una spiegazione che al figlio, che
prova simpatia per il percorso intellettuale del padre, non basta. «Che
cos’è questa Città Giusta? – si chiede – che cosa direbbero e farebbero
tutto il giorno i suoi abitanti? Come si riderebbe nella Città Giusta?».
Quello che l’autore implica è che la ricerca dell’utopia comunista implica
la volontà di mettere il fine prima dei mezzi e nasconde il desiderio di un
regime totalitario.
I 20 milioni menzionati dal titolo sono le vittime, secondo i conti degli
storici citati da Amis, dei gulag, delle esecuzioni politiche e della
carestia provocata dalla collettivizzazione forzata fra il 1917 e il 1953,
anno della morte di Stalin. Amis fa il paragone con i 6 milioni
dell’Olocausto, ma poi si ritrae. Non si tratta di contare i morti, spiega,
ma di dare a quei 20 milioni una dignità che non hanno mai avuto. «Sembra –
scrive – che i Venti Milioni non provocheranno mai quel senso di decoro
sepolcrale che il ricordo dell’Olocausto risveglia. Non sarebbe così se non
fosse per qualcosa nella natura stessa del bolscevismo». Questo qualcosa è,
secondo l’autore, l’impossibilità durante le purghe staliniste di definire
esattamente chi fosse il nemico. Nelle testimonianze citate del libro più di
una volta si coglie l’assurdità di un orrore le cui vittime, al contrario
dei campi di concentramento nazisti, non capivano l’origine o il motivo.
Molti prigionieri nei gulag, ricorda Amis, all’inizio erano convinti di
essere vittime di un errore, o di una macchinazione fascista, e che il
partito avrebbe capito e li avrebbe liberati. «Il nazismo – s crive Amis –
non distrusse la società civile. Il bolscevismo la distrusse».
Ma “Koba il terribile” (Koba è il soprannome che Stalin si era scelto) non è
un libello politico. Amis è un romanziere, e quello che sembra interessargli
di più è capire perché nella percezione collettiva non si è ancora radicata
questa “equivalenza morale” fra Hitler e Stalin.
Amis si sente chiamato a questo compito da motivi personali, familiari, e
nel libro introduce digressioni autobiografiche che a volte suonano fuori
luogo in mezzo alla litania di torture, pestaggi e umiliazioni perpetrate
per ordine di Koba e alla descrizione di una carestia così terribile (nei
primi ani ’30) che i corpi venivano accatastati nelle strade.
Alla fine il merito maggiore del libro di Amis sembra quello di sollevare
l’argomento. Il 53enne Amis, lui stesso considerato un intellettuale
liberale, riconosce che gli ideali illuministici cui il program ma
bolscevico diceva di aspirare hanno per decenni creato una patina di
tolleranza in Occidente. Ma è ora di guardare a fatti, conclude, in nome di
quei Venti Milioni.