Avvenire 11-5-2003
PACIFISTI, TORNIAMO IN PIAZZA
Dino Boffo
In una Milano eccitata dall’afa e in parte ancora imbandierata dai vessilli multicolore della pace, c’è stato ieri un evento in grado potenzialmente di inquietare. Tra le migliaia di visitatori che come ogni giorno si affacciano alla ribalta metropolitana, è giunto un intellettuale africano di nome Macram Max Gassis. Personaggio arguto, buon conoscitore dei nord del mondo, per nulla intimidito nel dare rappresentanza al continente nero. La sua qualifica professionale dice già qualcosa: vescovo in esilio di El Obeid, che è località del Sudan settentrionale, al centro di una diocesi il cui territorio fu a suo tempo smembrato dalla metropolia di Khartoum. E nella capitale del Paese, lui stesso è nato sessantacinque anni fa.
Non è una precisazione casuale. Nella folle geografia bellica che da 47 anni sta lacerando il Sudan, lui ha in partenza tutti i titoli etnici e culturali per essere, se non tra i vincenti, almeno un interlocutore da questi riconosciuto. Parla l’arabo, conosce bene quella cultura, è tra i vescovi dell’Africa orientale che hanno chiesto ai loro seminaristi di studiare il Corano per saper meglio dialogare con la vasta componente islamica. Ma da questa è tutt’altro che riverito. “Mi dovete scusare – chiarisce subito – se il mio linguaggio sarà duro e franco. Ho affrontato 13 ore di aereo foss’anche per parlare solo un quarto d’ora…”. Sorride ma i fatti che snocciola fanno trasecolare gli animatori dei centri culturali ambrosiani presenti all’incontro. Ad oggi sono oltre due milioni i morti, e cinque milioni i profughi delle ostilità in corso. Numeri tondi, si noterà, tanto i poveri consentono di non sottilizzare. Parla della schiavitù rispuntata su larga scala, di stupri su precoci ragazze dodicenni pianificati per imbastardire l’etnia, di mutilazioni e torture tra le più orrende, uno dei suo i catechisti è stato crocifisso. Lì si muore ancora com’è morto Gesù. Intimidazioni, sabotaggi, stragi di intere tribù. La sorte peggiore è trovarsi a vivere nei pressi di un giacimento petrolifero. Il governo fondamentalista non tollera intrusioni, i clienti occidentali (canadesi, austriaci e svedesi, oltre che cinesi e malaysiani) vanno trattati coi guanti.
La denuncia del vescovo-esule è infuocata. La rilanciamo con pignoleria a pagina 3: contorni di una tragedia che i lettori più attenti già conoscono a grandi linee. “In Sudan – avverte – c’è una strage di innocenti che avviene davanti agli occhi del mondo civile”. Sì, stiamo davanti ai vostri occhi, perché ci ignorate o fate finta di non vedere? Perché ci vendete per pochi barili di petrolio? Fino alla denuncia che – avverte – gli “sta particolarmente a cuore”: nelle settimane scorse, i notiziari hanno riversato nelle vostre case ore e ore di immagini sulla guerra in Iraq. “Chi conosce lo sterminio del Sudan? Avete marciato issando cartelli con su scritto: pace, pace. Ma non sapete che pace non ci può essere, se non c’è giustizia?”.
Certo che lo sappiamo. In teoria. Ma come può accadere che un velo tanto pesante ci nasconda quel che succede in fette intere di mondo? Non eravamo in piena era di globalizzazione? Attualmente assommano a 32 le guerre aperte, e verrebbe voglia di menzionarle una ad una come ha fatto ieri, al convegno, Mario Marazziti. Anzi, sillabarle, visto che diventano il capolinea per tante vite. Resta la domanda: perché per gli iracheni sì e tutti gli altri no? Che senso ha selezionare gli obiettivi dell’indignazione? O non è forse l’ultima, più raffinata, tentazione di razzismo quella in cui stiamo cadendo? Il razzismo informativo e di mobilitazione?
Diamoci una mossa, per favore. Basta imbrogliarci.