“Avvenire”, 8.10.2002
REVISIONISMO
La famosa «casa» di Goré, in Senegal, non sarebbe stata punto di
partenza della tratta: una polemica che divide gli storici
Il direttore del Museo va contro corrente: da qui ne partirono
al massimo 50 mila. La replica: ma la vergogna resta
Di Giuseppe Caffulli
Ci sono andati in pellegrinaggio François Mitterrand, Bill
Clinton, Nelson Mandela e persino Giovanni Paolo II. E una famosa foto che
ritrae il pontefice nella Casa degli schiavi, pensoso e con lo sguardo
rivolto all’Oceano, ha fatto il giro del mondo, risvegliando nell’opinione
pubblica (forse più di mille campagne) l’orrore per quel commercio d’uomini
che per oltre un secolo ha macchiato la coscienza dell’Occidente. Proprio da
Goré, la “Porta del non ritorno”, dove ancora sembra risuonare il clangore
delle catene e il sordo rumore dei ceppi, sarebbero partiti milioni di
schiavi per le Americhe, stipati come sardine nella stiva delle navi
negriere: uomini, donne e bambini. Santuario della memoria (Goré è stata
dichiarata nel 1978 dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità) la piccola
isola senegalese è ogni anno meta di migliaia di visitatori da tutto il
mondo e tappa obbligata per la diaspora afro-americana alla ricerca delle
proprie radici .
A dar credito agli studi più recenti, Goré sarebbe però più un
caso mediatico, un’abile operazione di marketing, che non il simbolo reale
della tratta. Intendiamoci, non una vera e propria bufala: gli schiavi vi
sarebbero effettivamente partiti, ma non più di 50 mila complessivamente.
Una cifra enorme, ma ben lontana dai 15 milioni sbandierati da una certa
vulgata.
Il caso, ripreso di recente in Francia dalla rivista La vie, non
è nuovo, ma non smette di alimentare polemiche tra gli storici e i difensori
della negritudine, dentro e fuori l’Africa. In nome del rigore, i primi
sostengono che al “carico d’ebano” si provvedeva ben più massicciamente in
Benin, Costa d’Avorio, Ghana e Angola. Nello stesso Senegal, dal forte di
Saint Louis sarebbero partiti molti più schiavi verso il Nuovo Mondo che non
dall’Isola degli schiavi.
I secondi replicano: «Se an che Goré non è stata la rampa di
lancio della tratta verso le Americhe, se anche le cifre sono state
gonfiate, il valore simbolico del luogo resta comunque intatto. Ciò che
importa è far comprendere ai bianchi l’orrore della schiavitù ed evitare che
rimuovano questa colpa dalla loro coscienza collettiva».
Siamo dunque di fronte all’ennesimo caso di negazionismo e di
revisionismo storico? Abdoulaye Camara, senegalese, conservatore del Museo
storico di Goré, sa di andare contro corrente e di rendersi impopolare
quando sciorina dati e documenti sull’isola: «La Casa degli schiavi è stata
costruita nel 1786 da una famiglia meticcia quando ormai la tratta come
fenomeno storico volgeva alla fine. Numerosi documenti confermano la tesi
secondo cui solo poche centinaia di schiavi sono stati effettivamente
venduti e comprati a Goré e non più 50 mila sarebbero effettivamente stati
imbarcati verso le Americhe». Una p osizione confermata anche dalle ricerche
del padre bianco Joseph Roger de Benoist, uno dei più autorevoli
africanisti, direttore dell’Istituto fondamentale dell’Africa nera (Ifan) di
Dakar.
Ma come è allora nato il mito di Goré? All’inizio degli anni
Settanta un cittadino senegalese, Joseph Ndiaye, innamorato di quel luogo,
reperisce i fondi per restaurare il complesso dell’Isola degli schiavi, uno
dei più interessanti esempi d’architettura coloniale in Africa. Il ruolo di
Ndiaye risulta decisivo anche nel convincere l’Unesco ad includere Goré
nell’elenco del patrimonio mondiale. Poi il turismo di massa e i testimonial
d’eccezione hanno fatto il resto. Ha insomma vinto la pubblicità. Con buona
pace della verità storica