La morte di 100 sacerdoti assassinati dai partigiani non fu inutile perché contribuì alla sconfitta del Pci alle elezioni del 1948: parla la storica Elena Aga-Rossi
Quei preti, martiri del 18 aprile
«Non è vero che Togliatti non parla mai in prima persona nei rapporti spediti a Mosca: i documenti sovietici dimostrano che gli alti dirigenti comunisti italiani non solo tolleravano le violenze sommarie, ma erano favorevoli a quei metodi»
Di Roberto Beretta
Se la storia della resistenza dev’essere riscritta, un posto se lo meritano anche i tanti preti e cattolici uccisi dai partigiani comunisti. Elena Aga-Rossi è avvezza (suo malgrado) alla polemica, almeno da quando – insieme al marito Victor Zaslavsky, storico come lei – ha cominciato a dragare gli archivi dell’ex Urss ripescandone un mare di documenti utili per rivedere la storia italiana: dai rapporti del Pci con la «casa madre» sovietica alla resistenza, appunto. Indagini che sono confluite nel volume su Togliatti e Stalin (Il Mulino), il quale – come si è visto in una recente polemica con Mario Pirani che su Repubblica ha definito «ridicole» le tesi dei due storici – ancora non ha smesso di sollevare scintille a sinistra, visto come ne esce inzaccherata l’agiografia del «Migliore».
Dunque, professoressa, si può parlare di «epurazione selvaggia» (espressione che lei usa per definire la guerra partigiana usata come lotta di classe) per i 100 preti italiani uccisi dai comunisti?
«Certo. In realtà la repressione comunista s’indirizzò contro categorie diverse. I preti hanno influenza nella comunità, sono persone rappresentative e per questo venivano colpite. I possidenti invece sono una categoria di classe, da eliminare non per il loro influsso culturale ma per togliere un ostacolo alla rivoluzione sociale. I democristiani e gli altri esponenti antifascisti sono stati colpiti come anticomunisti, in quanto costituivano un’alternativa alla creazione di consenso intorno al Pci. Mi sembra insomma che l’inchiesta di Avvenire confermi la nostra teoria, che poi non è solo la nostra: cioè che quelle stragi non avvenivano per caso».
Vuol dire che c’era un progetto dietro quegli omicidi?
«Non esageriamo. Non sostengo che ci fosse una strategia capillare e generalizzata, piuttosto l’aspettativa concreta dei dirigenti locali del Pci che fosse imminente l’ora X per la rivoluzione. Perché è vero che le alte sfere del partito chiedevano ufficialmente la moderazione e dichiarava no il rispetto dei metodi democratici, ma nello stesso tempo guardavano con condiscendenza a chi uccideva, secondo la nota logica dei “compagni che sbagliano”. Così, dopo l’orrenda strage compiuta da un commando comunista nel luglio 1945 nelle carceri di Schio (54 morti, in gran parte detenuti comuni), i responsabili trovano naturale andare in delegazione da Togliatti, il quale certo non li riceve; ma intanto l’atto indica un’accettazione generalizzata della violenza nel partito. Il quale poi non ha mai denunciato, mai, un assassino; anzi li ha protetti e li ha fatti fuggire all’estero. Questi dati si conoscono da tempo. I documenti usciti dagli archivi sovietici hanno aggiunto un altro elemento importante: che non solo i dirigenti centrali del Pci chiudevano un occhio sulla giustizia sommaria, ma erano anche favorevoli a quei metodi».
Dunque «il Migliore» sapeva degli assassinii dei preti. E avallava.
«Non è vero – come sostiene Pirani – che nella documentazione sovietica non siano mai citati di persona Togliatti o altri dirigenti del Pci. Togliatti una volta fece rapporto all’ambasciatore sovietico così: “Gli angloamericani continuano a estendere il loro controllo nelle province del Nord, ciò nondimeno i partigiani continuano le epurazioni. Ad esempio a Ferrara hanno portato via dalle prigioni alcune decine di fascisti e ne hanno fucilati 17”. Quelle morti dunque non sono state il normale strascico di violenze che segue le guerre. Colpisce pure che siano sempre e solo i partigiani comunisti a organizzare le esecuzioni, non quelli di altra provenienza politica. Ma è soprattutto il clima d’intimidazione che si crea in quegli anni ad essere totalmente sottovalutato dalla storiografia: non si denunciavano i soprusi perché in certe regioni esisteva un controllo politico. Una prova che dietro c’era una rete; che quelle morti non erano frutto dell’iniziativa dei singoli».
Possiamo dire però che il sangue di questi preti martiri ha contribuito alla vittoria democristi ana del 18 aprile 1948?
«Penso proprio di sì. Lo stesso Togliatti invitò più volte a smettere con le forme di partigianeria violenta che potevano essere controproducenti. Nel 1948 le figure dei preti uccisi erano state dimenticate a livello nazionale, ma non localmente. Vedendo quei morti, la gente si è rafforzata nelle sue idee sulla violenza del comunismo. Ed ha votato contro».
Il caso dei preti assassinati può fornire qualche elemento in più per la comprensione della resistenza?
«In un certo senso. Per esempio il fatto che una quarantina di sacerdoti venga uccisa da partigiani prima della liberazione mostra un quadro ben diverso della resistenza come unitaria “lotta di popolo”. Alcuni preti erano stati compromessi con la Repubblica sociale, o furono infatuati dal fascismo, quindi erano obiettivi politici diretti della guerra civile; si è sottovalutato il consenso al fascismo e alla Rsi sino alla fine, ma d’altra parte anche il peso dei cattolici nella resistenza: io stessa davo per scontato che a Reggio Emilia fossero entrati per primi i comunisti, il 25 aprile, e invece ho imparato da Avvenire che fu un partigiano cattolico, poi vittima delle stragi».
Lei crede che queste ferite non rimarginate siano ancora vive, soprattutto in provincia?
«Non c’è dubbio: la Repubblica è nata su una serie di falsificazioni allora inevitabili e necessarie – come quella che la maggior parte degli italiani fosse antifascista – ma che oggi non lo sono più. Il fatto che tale immagine sia continuata e sia diventata retorica non ha contribuito alla nascita di una storia comune, o almeno accettata se non condivisa».
Per fare autocritica: nemmeno i cattolici (a parte qualche eccezione) pare che abbiano onorato molto quei martiri…
«La Chiesa italiana del dopoguerra è stata fortemente anticomunista, quindi non si capisce perché dovesse aver paura nel condannare le stragi. Se non l’ha fatto a sufficienza, forse c’era dietro il timore che qualcuno rievocasse una certa adesione del clero al fascismo. Oppure la necessità di mettere da parte le divisioni ideologiche per ricostruire un Paese dilaniato. Ma questo sarebbe certamente un tema da investigare. Così come capire il motivo di certi silenzi, del permanere dell’omertà su quei delitti. Ancora oggi».
(8. continua)
Avvenire 25-2-2004