13 Novembre 2003
IRAQ
Come gli irakeni vedono le forze militari straniere
di Michele Brancale
Intervista a Sayed Aiad Jamal al Din, leader sciita
All’indomani del tragico attentato di Nassiriya, molti si pongono domande sul senso della presenza delle truppe straniere in Iraq. Il Giappone, insieme alla Sud Corea ritardano l’invio di truppe; in Italia vi sono addirittura coloro che parlano di un ritiro (o una ritirata).
Sayed Aiad Jamal al-Din, 42 anni, leader del clero sciita, studi di filosofia e teologia nella città santa di Qom, è una voce interessante e provocatoria del nuovo Iraq: egli musulmano sciita chiede agli americani di restare e all’Europa di “sostenere questa nuova clamorosa esperienza di democrazia in un Paese arabo islamico”.
Autore di opere poetiche, ma attento alla prosa della politica, Jamal alDin è stato a lungo a Najaf, la città dove è stato ucciso l’ayatollah Mohammad Baqir Al Hakim. Dal ‘79 al ’95 ha vissuto in Iran, poi ha raggiunto Dubai, prima di rientrare, abbastanza recentemente, in Iraq. «Mondo e Missione» lo ha intervistato e ha concesso ad AsiaNews l’anticipazione.
Che impressione le ha fatto l’Iraq dopo il rientro?
Quel che accade oggi in Iraq non può essere distinto dal suo passato recente. Il regime di Saddam rappresenta un’esperienza unica nel suo genere. Il rais si è sforzato di distruggere tutte le istituzioni civili del Paese e tutti i valori della vita sociale. Non era accaduta una cosa simile. Il primo attacco risale al ’68, contro l’industria e gli operatori economici; poi Saddam ha aggredito i capi religiosi, i poeti, gli scrittori, gli artisti, e ha dato un colpo mortale a tutti i partiti politici, come i comunisti, ma anche attaccando tutti i gruppi musulmani. Infine Saddam ha dato il colpo di grazia all’agricoltura, costringendo la gente ad emigrare dalle campagne alle città e offrendo posti nell’amministrazione statale. Tutti sono diventati dipendenti dello Stato e così il regime ha potuto fare quello che voleva: in Iraq non c’era più resistenza al regime. L’élite intellettuale è stata costretta a fuggire all’estero. Sono 4 milioni le persone andate via, un fenomeno mai accaduto in precedenza nella storia dell’Iraq, mai stato un Paese di emigrazione. Il regime ha smesso di utilizzare le ricchezze per lo sviluppo del Paese, ma ha attinto ad esse per nutrire se stesso. Se si dovesse fare un confronto, il regime più simile a quello di Hussein è quello di Stalin. Il popolo iracheno aspettava una soluzione, da qualunque parte. Quando la guerra è cominciata nessun iracheno si è opposto alle forze armate americane.
Proprio nessuno?
Non c’è stata resistenza né da parte dei cittadini né da parte dell’esercito. La presenza americana è ben voluta. Non c’è alcun capo religioso o politico che chiede che gli americani se ne vadano.
Da cosa nasce il malcontento della popolazione?
Dalla mancanza di servizi essenziali come acqua ed elettricità. Gli iracheni rimproverano le forze alleate per la loro lentezza, mentre si aspettavano un cambiamento immediato, quasi miracoloso, della situazione. Sul piano politico, invece, si stanno facendo notevoli passi avanti: il Parlamento e il nuovo governo rappresentano tutti i gruppi iracheni e i ministri sono molto competenti. Il vero problema viene dai Paesi vicini, tutte dittature che temono la nascita di una democrazia in Iraq. Un successo del genere farebbe crescere in quei regimi la loro paura di finire. Se l’esperienza della democrazia riesce in Iraq, ciò avrà un impatto notevolissimo su tutto il mondo arabo e islamico. L’Iraq è il leader effettivo del mondo arabo-islamico. L’Europa lo deve capire e deve sostenere questa nuova clamorosa esperienza di democrazia in un Paese arabo islamico.
La sua è una posizione per molti versi sorprendente. Al Hakim, infatti, chiedeva agli americani di andarsene via.
No. Al Hakim chiedeva agli americani una modifica del loro modo di operare in Iraq.
Tutti i regimi prossimi all’Iraq sono dittatoriali? Anche l’Iran?
L’identificazione tra Stato e religione produce una dittatura. Non voglio fare commenti sull’Iran per evitare qualsiasi scontro: noi vogliamo rapporti positivi con tutti i Paesi, ma in Iraq rifiuteremo categoricamente un governo di tipo religioso. Non mi stancherò mai di fare appello alla creazione di un governo laico, indipendente. Perché tutto il male e tutto ciò che di negativo c’è nel mondo arabo e islamico è dovuto a regimi che governano in nome della religione.
Secondo lei l’esercito Usa deve restare o andare via?
Gli americani stanno facendo di tutto per entrare nelle grazie degli iracheni, tra i quali trovano leader politici e religiosi forti che sanno comportarsi in modo indipendente. È sbagliato pensare agli iracheni come a un popolo sconfitto e sottomesso all’occupazione straniera. C’è una grande discussione in Iraq per vedere quale tipo di governo scegliere. Le forze alleate ci hanno offerto l’opportunità di dialogare tra di noi in maniera aperta e non c’è nessuna pressione in atto sui leader iracheni. Quando rivendico un governo altamente liberale non è per compiacere gli americani. Dopo attenti studi, abbiamo capito che il regime democratico è il migliore anche per le religioni e per la religione islamica in particolare.
Chi ha ucciso Al Hakim?
Quelli che non vogliono equilibrio e moderazione.
Chi continua a uccidere i soldati statunitensi?
Non sono azioni fatte dal popolo iracheno: sono finanziate e preparate da fuori. Se fosse il popolo iracheno e a non volere le forze alleate, non resisterebbero neppure un giorno in Iraq. Non siamo obbligati ad ospitare gli Usa. Abbiamo scelto di accogliere loro e gli alleati e vogliamo che rimangano. Se si dovesse organizzare una vera resistenza sul campo essa partirebbe da Najaf. Per ora non abbiamo deciso alcuna resistenza e non ci sarà neppure in futuro.
La guerra è stata concordata?
È ovvio che è stata concordata con l’opposizione irachena. Gli americani finora non hanno fatto un solo passo se non in accordo con la nuova leadership irachena. L’accordo era con tutti, sciiti compresi. I quali non si trovano solo nel Sud: l’80 per cento della popolazione di Baghdad è sciita.
Ma allora, da dove vengono gli attacchi ai soldati Usa?
Queste operazioni sono finanziate dai Paesi confinanti, per intorbidare le acque e provocare una reazione in quanti odiano la democrazia e la libertà e temono un Iraq libero e democratico. Basta guardare la carta geografica: voi vedete intorno all’Iraq dei Paesi democratici? Sono tutte dittature e hanno interesse a finanziare la destabilizzazione per scongiurare la democrazia in Iraq.