Accade in India: cristiani e musulmani felicemente alleati
di Sandro Magister
ROMA, 7 novembre 2007 – Per la prima volta, ieri, un re dell’Arabia Saudita si è recato in visita dal papa. Al termine del colloquio con Benedetto XVI, re Abdallah bin Abdulaziz al-Saud ha incontrato il segretario di stato, cardinale Tarcisio Bertone, e il ministro degli esteri della Santa Sede, l’arcivescovo Dominique Mamberti.
In Arabia Saudita e negli emirati del Golfo vivono oggi numerosi cristiani, in numero crescente, arrivati soprattutto dalle Filippine e dall’India. Ai disagi della loro condizione di lavoratori immigrati si sommano altre pesanti limitazioni di libertà, di tipo religioso. Sono i moderni "dhimmi", i sudditi non musulmani di un paese dominato dall’islam, privati dei fondamentali diritti.
L’Arabia non è un caso isolato. È frequente che le minoranze cristiane nel mondo siano conculcate nella loro libertà. Nei paesi musulmani ciò è praticamente la norma.
Ma vi sono anche dei casi d’altro tipo. Vi sono dei paesi in cui i cristiani e i musulmani si trovano entrambi sottoposti a limitazioni della libertà. E da ciò sono indotti non a scontrarsi ma a collaborare.
Uno di questi paesi è, ad esempio, la Birmania. Lì i cristiani, secondo le statistiche ufficiali, sono il 6 per cento della popolazione e i musulmani il 4 per cento. In realtà gli uni e gli altri sono il doppio, appartenenti per lo più a etnie minoritarie. La repressione del regime si abbatte su di essi più duramente che sui buddisti, che costituiscono la larga maggioranza della popolazione. Cristiani e musulmani si ritrovano quindi uniti nel sostenere, in questi mesi, la rivolta pacifica dei monaci buddisti contro i militari comunisti al potere.
L’esempio più eclatante di collaborazione tra cristiani e musulmani è però dato dall’India.
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La società indiana è tuttora dominata da una gerarchia di caste, che penalizza coloro che sono ai gradini bassi della scala, i dalit o "intoccabili". La costituzione la vieta, ma nei fatti la discriminazione permane.
Le caste fanno parte della tradizione induista, la religione dominante dell’India. Chi non appartiene a questa religione non ricade, quindi, sotto il sistema castale.
Questo però vale solo in linea di principio. Il peso della tradizione è tale che anche dentro le comunità cristiane e musulmane dell’India la divisione in caste rimane in varia misura operante. Il cristianesimo è presente in India dall’età apostolica – l’apostolo Tommaso è lì venerato come il primo evangelizzatore – ma bisogna arrivare alla fine del XX secolo per trovare i primi vescovi dalit. Le Chiese indiane di ceppo più antico, quelle di rito siriaco della costa sudoccidentale, sono quasi esclusivamente composte da bramini e appartenenti alle altre caste superiori.
Per ridurre la discriminazione di casta, fin dagli anni Cinquanta si è stabilito per legge di riservare ai dalit una parte dei posti di lavoro e delle ammissioni alle università. Tra gli impieghi federali la quota riservata è del 15 per cento.
Se però dei dalit si convertono al cristianesimo o all’islam – e quindi in linea di principio fuoriescono dal sistema castale – essi perdono anche la protezione dei posti di lavoro ad essi riservati per legge. Si ritrovano più discriminati di prima.
La conseguenza è che un buon numero dei dalit che abbracciano il cristianesimo o l’islam tengono celata la loro nuova appartenenza religiosa. Alle messe cattoliche o alle celebrazioni protestanti è facile vedere più donne e bambini che uomini. Questi continuano a mostrarsi in pubblico come induisti, per non perdere il posto di lavoro.
Dei 24 milioni di cristiani dell’India, cattolici e non, si calcola che i dalit siano circa 10 milioni. Ma a questi andrebbero aggiunti i convertiti nascosti, stimati anch’essi nell’ordine di milioni.
Rispetto al miliardo e 100 milioni dell’intera popolazione dell’India i cristiani sono poca cosa. Ma la loro forza di pressione si moltiplica se congiunta a quella dei musulmani, molto più numerosi, attorno ai 150 milioni.
Ed è quello che sta accadendo. Cristiani e musulmani premono assieme da anni perché il governo assicuri uguali protezioni di legge a tutti i dalit, a qualsiasi religione appartengano.
Tra il 1996 e il 2004, quando il principale partito di governo era il Bharatiya Janata Party, difensore dell’induismo come religione nazionale, le pressioni di cristiani e musulmani non ottennero alcun risultato.
Ma da quando al governo è tornato il più laico Partito del Congresso, le chance di successo sono aumentate. Al punto che il BJP s’è sentito in obbligo di prendere delle contromisure. Il 5 novembre ha indetto una grande marcia induista su New Delhi contro la parità dei diritti a cristiani e musulmani.
La collaborazione tra cristiani e musulmani non si limita alle pressioni politiche. In alcune località abitate da dalit, i leader delle due religioni organizzano assieme dei pasti festivi nei quali tutti si servono dal medesimo piatto gigante di riso e verdura. Lo scopo è di far cadere le barriere tra gli "intoccabili" e le caste superiori.
Cristiani e musulmani si sono aiutati, in questi ultimi anni, anche per difendersi da altri atti, più gravi, di persecuzione. Nel 2002, quando nello stato del Gujarat gruppi induisti estremisti scatenarono dei pogrom contro i musulmani, i cristiani soccorsero e ospitarono i musulmani in fuga.
E anche per i cristiani è così. In India subiscono aggressioni, violenze, uccisioni per mano non di musulmani – come purtroppo avviene in altri paesi del mondo – ma di induisti fanatici.
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In occasione della festa induista del Diwali, che quest’anno cade il 9 novembre, il pontificio consiglio per il dialogo interreligioso ha indirizzato agli induisti un messaggio, firmato dal suo presidente, il cardinale Jean-Louis Tauran.
In esso si legge:
"La credenza religiosa e la libertà vanno sempre di pari passo. Non ci può essere costrizione nella religione: nessuno può essere forzato a credere, né chiunque voglia credere può esserne impedito. Permettetemi di ripetere ancora l’insegnamento del Concilio Vaticano II, che è molto chiaro su questo punto: ‘Un elemento fondamentale della dottrina cattolica è che gli esseri umani sono tenuti a rispondere a Dio credendo volontariamente; nessuno, quindi, può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà’ (Dichiarazione sulla libertà religiosa, Dignitatis Humanae, n. 10). La Chiesa cattolica, come ha recentemente ricordato il papa Benedetto XVI agli ambasciatori dell’India e di altri paesi accreditati presso la Santa Sede, è stata fedele a questo insegnamento: ‘La pace si fonda sul rispetto per la libertà religiosa, che è un aspetto fondamentale e primordiale della libertà di coscienza degli individui e della libertà dei popoli’".