(www.chiesa) Il vescovo di Firenze ”defensor civitatis”

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Sul vescovo come difensore della città, nelle moderne invasioni dei barbari

di Pietro De Marco

1. La attuale congiuntura della Chiesa fiorentina, retta dall’arcivescovo Giuseppe Betori, credo abbia una sua esemplarità che può avere ripercussioni internazionali. Ciò che avviene a Firenze è il recupero di un ruolo antico: quello del vescovo come "defensor civitatis", difensore della città, e "consul Dei", console di Dio, appellativo, quest’ultimo, che fu dato a papa Gregorio Magno.

Naturalmente qualcosa di questo ruolo episcopale emerge a tratti nelle guerre o nelle rivoluzioni. Anche il cardinale Clemens August von Galen venne definito, per la sua testimonianza nella Germania hitleriana, "defensor civitatis" e "consul Dei", come gli antichi Padri della Chiesa "tra le orde dei barbari". Oppure emerge in situazioni di grave conflitto sociale, come accadde col vescovo Oscar Romero in America Latina. Ma il caso di Firenze è interessante anche perché avviene fuori dall’eccezionalità di un’azione eroica, o da uno stile "engagé", tanto celebrato nelle culture liberazioniste quanto raramente originale, e spesso con effetti dottrinali e pastorali negativi.

Al centro del caso di Firenze vi sono questioni antropologiche, bioetiche e biopolitiche che hanno poco da spartire con i consueti terreni di disputa politica ed economica. Sulle questioni della vita, la Chiesa è nella sua piena originalità e solitudine; è soggetto insostituibile. In questo senso il caso fiorentino ha portata esemplare. Che potrebbe sollecitare o confermare dei fermenti nella stessa direzione, in altri episcopati.  

2. I media laici hanno adottato la metafora calcistica dell’intervento "a gamba tesa" per indicare la forma e la sostanza del comunicato dell’arcidiocesi di Firenze del 9 marzo scorso, critico sulla concessione, da parte della municipalità, della cittadinanza onoraria a Giuseppe Englaro, padre di Eluana, la giovane donna in stato vegetativo fatta morire di fame e di sete poche settimane prima, per sentenza della magistratura.

Questo atto critico pubblico è coerente con uno stile di governo della Chiesa fiorentina che si sta delineando di settimana in settimana. Nel comunicato arcivescovile si affermava: "La pretesa di un gruppo di consiglieri di fare una scelta a nome di tutta una città è un atto di disprezzo verso la minoranza dei rappresentanti del popolo e verso una presunta minoranza di cittadini, inferendo una profonda lacerazione nella convivenza". E ancora: si è inteso "mostrare con un ultimo atto di arroganza [da parte di un consiglio comunale a fine mandato – ndr] la disponibilità di un potere esercitato come arbitrio, a spregio di chi ha altre opinioni e ritiene la vita un bene indisponibile perché sacro”. 

Alcuni hanno equiparato il comunicato della curia arcivescovile addirittura a un proclama intimidatorio, a un "diktat" al quale il consiglio comunale della città avrebbe dovuto inchinarsi. Espressioni come "proclama" e "diktat" non sono nuove. Sono state rivolte da commentatori autorevoli anche contro il presidente della conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, intervenuto anche lui sul caso di Eluana negli stessi giorni. Il meccanismo e il vocabolario di contrapposizione alla Chiesa cattolica sono in Italia ormai standardizzati e automatici.

Viene quindi da domandarsi perché anche chi, più moderatamente, ha usato la metafora sportiva della "gamba tesa", abbia comunque evocato un comportamento che impone all’arbitro di fischiare fallo. La risposta investe la storia civile e religiosa italiana dell’ultimo mezzo secolo.

Vi sono diverse cause alle radici della percezione e censura di un comportamento falloso, o "uncorrect", in ogni intervento pubblico della gerarchia cattolica. Da decenni il popolo cattolico italiano si è assuefatto al silenzio del suo clero e dei suoi vescovi, in sede pubblica. Anzi, si è assuefatto a qualcosa di più: a che i vescovi parlino in pubblico, eventualmente, solo per sottoscrivere valori e retoriche civili prevalenti, quasi a certificare il proprio consenso, la propria conformità ad essi. Infatti, non sono mancate voci di denuncia da parte di vescovi dei "mali" del paese, ma principalmente rivolte a temi civili sui quali la Chiesa si allineava, spesso con qualche ritardo, alle forze politiche e morali "critiche".

Sui temi però di diretta deduzione dall’antropologia cristiana, prevale il silenzio. I vescovi hanno a lungo delegato il "discernimento critico" su questi temi, e la sua proposizione pubblica, al magistero ordinario degli ultimi pontefici e alle pronunce della CEI.  Così, senza rendersene conto, i vescovi lasciano alla società civile –  e specialmente alle culture politiche di opposizione e denuncia – il compito di conferire la legittimazione "politica" all’autorità episcopale.

Anche se non sono mancate eccezioni, questa "correttezza politica" è stata a lungo osservata, col visibile gradimento di amministratori e forze politiche. Da una pratica del genere sono derivate delle tacite regole del gioco. L’opinione pubblica le ha variamente assimilate, e questo o quell’arbitro ritiene di poter dare fiato al fischietto non appena un vescovo sembri "scorretto".

Ma vi è di più. Un’opinione pubblica qualificata, anche cattolica, ha confuso questa "correctness" ecclesiastica nella sfera pubblica con un ideale equilibrio tra autorità politiche e spirituali. Realizzando così nei fatti e nel costume una impropria "privatizzazione" della peculiare e irrinunciabile natura pubblica della Chiesa.

La moderna dottrina della "laïcité" condiziona la neutralità dello Stato al carattere privatistico della Chiesa e alla sua non ingerenza, alla sua innocuità politica, delle quali lo Stato sarebbe giudice. Ma la Chiesa cattolica non è così per essenza, né è riducibile a questo. Non lo è stata quando ha innervato di sé l’Europa e l’Occidente, non lo è diventata dopo Lutero o dopo Locke, né con la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle religioni politiche e delle rivoluzioni totali del Novecento.

Questa presenza magisteriale e civilizzante della Chiesa cattolica, la necessità che essa compaia come tale nella sfera pubblica, non sono mai spariti del tutto, anzi, sono da diversi anni di nuovo presenti e visibili sulla scena mondiale. I sociologi individuano questo fenomeno come uno dei più sintomatici dell’età "postsecolare". Il pontificato di Giovanni Paolo II e, in Italia, l’innovativo governo della conferenza episcopale esercitato dal cardinale Camillo Ruini hanno messo questa rinnovata presenza pubblica della Chiesa sotto i nostri occhi. Ma sia l’assuefazione di parti della società civile, sia la neutralizzazione della visibilità e autorità della Chiesa tentata dalle culture secolariste convergono tuttora nel sentire la presenza magisteriale e civilizzante della gerarchia cattolica come eccezione, come trasgressione, persino come imposizione. 

3. Passiamo a Firenze e al suo vescovo. Fin dai primi secoli del cristianesimo il vescovo è sia centro della vita liturgica, che è già in sé pubblica, sia – in coerenza col suo ministero che è "sovraintendere" – una peculiare autorità civile. Ha scritto uno storico della tarda antichità, Bernard Flusin: "È impressionante la lista degli ambiti in cui il vescovo è chiamato a intervenire". Anche se non è un signore territoriale, il vescovo è un "defensor civitatis" con un ruolo di bilanciamento rispetto ai funzionari imperiali. Attraverso i vescovi la chiesa porta a evidenza istituzionale nuova, rispetto agli ordinamenti precristiani, le funzioni di assistenza e di governo: i vescovi organizzano il culto, ammaestrano, sovvengono ai poveri, influenzano lo spazio urbano. Il vescovo, nel quadro della sua città, è detentore di poteri definiti giuridicamente, che lo pongono a capo della comunità cittadina di fronte al potere civile. Confermano altri storici, tra cui Luce Pietri: "I suoi titoli lo dichiarano garante della giustizia e protettore dei deboli, spesso in contrasto con la giurisdizione" civile. È ministro dell’assistenza. 

Questi tratti di lungo periodo sono stati poi aggiornati e armonizzati agli ordinamenti dello stato moderno e delle democrazie pluralistiche, ma non estinti. Restano costitutivi. E ciò è così vero e così evidente alla coscienza pubblica e al calcolo dei governanti, che quando i compiti del vescovo verso la "polis" si esprimono in attività sociali di "supplenza" sono graditi, ricercati, elogiati. Quando invece la sollecitudine del vescovo – che in se stessa non è per il welfare ma risponde all’assoluto comando evangelico ed è in ultimo ordinata alla salvezza delle anime anche quando sovviene ai corpi – si rivolge ad altre e decisive tutele del benessere spirituale e morale dei cittadini, e lo fa secondo autorità, a voce alta, essa è fischiata come "fallosa". 

Eppure non sono che momenti distinti dello stesso mandato e dello stesso ufficio. Il comunicato dell’arcidiocesi è, nella sostanza, la prima lettera del vescovo Giuseppe Betori alla città e sulla città. È un atto di sollecitudine del pastore, che si fa "garante della giustizia e protettore dei deboli" sul terreno antropologico, anche in contrasto con i poteri pubblici. Egli analizza la realtà e mette in guardia dai pericoli. Il richiamo al "rispetto dei ruoli e delle reciproche autonomie", che compare nella lettera inviata all’arcivescovo dal presidente del consiglio comunale di Firenze, mostra scarsa conoscenza di questo compito episcopale.

4. Il dibattito pubblico che ne è venuto, inedito per Firenze come inedita, da mezzo secolo, è in questa città l’assunzione di responsabilità pubblica da parte di un vescovo in contrasto con i poteri civili, rappresenta un paradigma per un nuovo stile ecclesiale, almeno in Europa. La svolta non ha mancato di sollevare alcune obiezioni.

Si è osservato che lo stile "ortodosso" di Betori non è in sintonia con Firenze, poiché "Firenze è atipica, non è città dell’ortodossia". Questa convinzione appartiene a una sorta di mito romantico e risorgimentale di una Firenze "eretica", che ha avuto qualche fortuna anche nel Novecento. Ma proprio la vicenda recente del cattolicesimo fiorentino, che molti conoscono anche al di fuori dell’Italia, non ha nulla a che fare con quel mito. Giorgio La Pira, il sindaco di cui è in corso la causa di beatificazione, era un "piagnone" (parola con cui erano designati nel Quattrocento i seguaci del monaco rigorista Girolamo Savonarola) di forte ortodossia, obbedientissimo alla Chiesa e al papa. Dopo la stagione lapiriana quel robusto filone cattolico si è dissolto nel silenzio pubblico, tra marginalità, nascondimento nicodemita e conformismo progressista. Ma di nuovo, con Betori vescovo, non è più stagione di silenzi o sussurri, per la Chiesa.

Il presidente del consiglio comunale della città ha sostenuto che le decisioni a maggioranza di un organo elettivo, "espressione concreta della volontà della città", non possono mai essere considerate "negative". Ma così ha confuso legalità con legittimità politica. La lotta tra gruppi e correnti della maggioranza progressista che amministra Firenze ha prodotto una delibera di portata ideologica, militante, fatta per suggestionare con riti civili (il conferimento della cittadinanza onoraria al padre di Eluana Englaro) l’opinione pubblica e conquistarla a una irriflessa opzione verso l’eutanasia, quindi su frontiere etiche di estrema gravità. Inoltre una ridotta maggioranza di consiglieri ha fatto uso di poteri e strumenti legali per schierarsi contro il governo nazionale e contro la Chiesa, proprio mentre a Roma il parlamento stava elaborando una legge sul "testamento biologico". Un atto politico che è difficile non giudicare – come ha fatto il vescovo – "pretestuoso, offensivo, distruttivo" per il governo della città, non meno che per l’etica pubblica. Domani, quali altre decisioni potranno essere prese facendo leva simbolicamente sul "cittadino Englaro", e con l’apporto di quanto resta del dissenso cattolico?  

Il vescovo di Firenze, sollecito perché si realizzi "iustitia" nel senso profondo della politica cristiana, ha reso consapevoli i cittadini di questa anomalia etico-politica. Ha agito nonostante la pressione contraria di un’opinione pubblica anche ecclesiale: quella che si oppone alla Chiesa "delle condanne" in nome della "medicina della misericordia". 

Quest’ultima pressione è obiettivamente alleata con le polemiche laiche contro la "Chiesa del no", ridicolmente additata come Chiesa della paura e della conservazione. Anche la cosiddetta "opinione pubblica ecclesiale" mostra una assoluta sordità (spesso tradotta in pratica pastorale) alla battaglia bioetica della Chiesa e degli ultimi pontefici. Sempre propensa a parlare di apertura alla speranza, questa opposizione intra-ecclesiale ignora che la speranza dell’uomo è affidata a coerenza antropologica, a responsabilità universalistica, non a un minimalismo di paradigmi rivolto a sovvenire pietosamente ai casi particolari. Ignora che altra è, ecclesiologicamente, la responsabilità di un parroco, condizionata dall’immediato dei "mondi vitali" dei suoi fedeli, altra quella del papa e dei vescovi. L’immediato dei mondi vitali non può divenire canone di fede.

5. C’è poi anche un’altra obiezione: perché il recente risveglio delle gerarchie cattoliche si esercita solo o prevalentemente nel campo della bioetica e della biopolitica? Rispondo che non è importante argomentare qui, come pur sarebbe possibile, che non è così. Credo in effetti che questa prevalenza debba esistere.

L’ambito bioetico e biopolitico è di tale crucialità che sarebbe piuttosto l’assenza di questi temi nella predicazione cristiana ordinaria ad apparire colpevole. Vi sono ambienti, anche cattolici, dove i temi bioetici sembrano scottare le labbra e si preferisce deprecare che altrove se ne parli: deprecare cioè che ne parli la gerarchia, seguita da cerchie "fondamentalistiche". È invece colpevole il silenzio su questi temi, perché nessun cattolico è esonerato dall’intendere che la sfida delle biotecnologie non discende da soli bisogni terapeutici e non approda alla sola riduzione di una patologia o di una sofferenza. Essa è sfida antropologica nel significato pieno della parola, ossia all’esistenza e al senso dell’uomo come creatura.

Quella che chiamiamo da qualche tempo antropologia teologica è stata per secoli una sezione del trattato "de Deo creante et elevante". Né può essere diversamente. Senza fondamento nel Dio creatore, scienze e filosofie dell’uomo e del "bios" divengono saperi e pratiche di un videogame giocato sull’uomo reale. 

Le implicazioni della sfida, il frequente cinismo nichilistico alla Peter Singer, il fantasticare sul post-umano sono oggi così ricorrenti ed espliciti che solo una "differenza cristiana" incantata dall’innocenza del mondo può non prenderne atto. Questa frontiera è, invece, di assoluta priorità per la responsabilità cristiana. Se l’uomo non è pensato come creatura non vi può essere sensato ragionamento sui suoi atti. La teoria che calcola il "migliore interesse" dell’essere umano, prima o dopo la nascita, portatore di handicap o malato grave, è esemplare, più ancora che per la sua inumanità, per la sua vacuità teoretica. Quale sarebbe il miglior interesse per un essere non integro, non sano? Non essere più. Che meravigliosa integrità e felicità restituiremmo al feto, all’infante, al malato, all’anziano, sopprimendolo! La irragionata convinzione secondo cui il migliore interesse di un essere ne chiederebbe e giustificherebbe la soppressione è, da sola, la straordinaria spia di una deriva suicidaria. Benedetto XVI l’ha messo in luce.

6. A tutto questo il vescovo cattolico, per primo, ha il compito di dire autorevolmente "no", "mi oppongo" (come nel "Racconto dell’Anticristo" di Solov’ev), non sorpreso dal trovarsi magari solo nella sollecitudine ultima per l’uomo: perché sola e universale nella comunità degli uomini è la Chiesa, com’è suo mandato e sua certezza, dall’origine. Un "no" detto senza pathos apocalittico. Con argomenti e con analisi, discernendo le tecniche e le metodiche. Con la sapienza di chi ha costruito e garantito la ragione dell’Occidente.

Perciò, nella risposta cattolica all’emergenza bioetica non vi è alcuna "sacralizzazione del biologico", come qualche critico sostiene. Ogni vita di cui l’intelletto e l’amore cattolico si occupano è sempre l’intero umano, che è molto più del vivente che appare al biologo o al clinico in quanto tali. Né vi è alcunché da sacralizzare, perché quell’intero è già "sacro". 

Sono evidenze difficilmente controvertibili. Eppure resta, preoccupante, la diffusa incapacità, per non dire la resistenza cattolica a capire e a motivare il primato radicale, oggi, dell’annuncio antropologico. Sembra reciso il filo con la grande tradizione apologetica. La confusa cedevolezza di tanta cultura cattolica alle campagne mediatiche contro la "Chiesa del no" non attesta alcun proficuo "dialogo col mondo", piuttosto una situazione di dipendenza intellettuale e politica. Ma dei vescovi combattenti potranno portarci fuori dall’Egitto.

21-4-2009 fonte www.chiesa