A proposito del “tradizionale” battesimo dei bambini
di Pietro De Marco
A questo orientamento egli teme che non facciano seguito decisioni ufficiali che lo confermino.
Ma Campanini e i pastoralisti cui fa riferimento ritengono davvero che l’amministrazione del battesimo, in un contesto catechetico debole, sia o diventi un fatto “tradizionale, rituale, quasi magico”? Ossia che l’efficacia del sacramento del battesimo sia vincolata al grado di maggiore o minore consapevolezza nella fede di genitori e padrini?
Non credo lo pensino, e non solo perché anche i laici di generazione non giovane hanno sentito parlare di “ex opere operato”. La formula significa che il sacramento produce i suoi effetti per il fatto stesso di essere amministrato, secondo la potenza e la promessa di Cristo. Decenni fa si amava chiosare che l’”ex opere operato” è un “ex opere operantis Christi”: quindi a maggior ragione efficace di per sé, poiché l’atto redentivo ed eternamente attuale di Cristo, da cui il battesimo prende origine, ci sovrasta e trascende proprio perché è per noi e ci trasforma.
Se non si ama il linguaggio di scuola, ci è di modello la cura che la cristianità antica ebbe per la catechesi, in direzione opposta a ogni svalutazione del sacramento. Il compimento battesimale dell’iniziazione cristiana non costituiva certo, nei primi secoli, un evento secondario rispetto a una conoscenza che sarebbe stata essa stessa salvifica. Quest’ultima, semmai, era la convinzione degli gnostici. Era vero il contrario: “comunicare la fede” includeva istruire il catecumeno sulla potenza trasformante del rito sacramentale. Il rito è parola santa – del Santo – non solo comunicata ma in atto. Da qui anche l’unità di “lex orandi” e “lex credendi”, di rito e dottrina.
Il vero ostacolo all’efficacia del sacramento è – secondo dottrina – la negazione esplicita e consapevole dei doni di grazia da parte del battezzando. Ma come possiamo attribuire una tale negazione non dico all’infante ma all’adulto che chiede per sé o per altri il battesimo? O come possiamo confondere con una negazione la presunta poca fede?
Non è un buon segno che si proponga come esempio di pratica da consolidare nella Chiesa italiana una soluzione pastorale così delicata e controvertibile come quella dell’esteso rifiuto dei sacramenti ai richiedenti ritenuti non “idonei”: ovvero alla maggior parte dei credenti marginali o esterni alla pratica stabile, che sono però una parte cospicua di coloro che si dichiarano, comunque, cattolici.
Niente giustifica la mancanza di catechesi nei loro confronti, ovviamente. Ma sarebbe un paradosso che per far fronte alle insufficienze della “fides quae creditur” – cioé delle verità di fede credute – nella maggioranza dei battezzati, la Chiesa rinunciasse a testimoniare la propria fede originaria nella potenza del battesimo.
Certo, per dirla con deliberata ironia, avremmo risolto un problema pastorale. Rinunciando a battezzare non avremmo più da curare alcuna catechesi battesimale se non per pochi eletti, con un conseguente restringimento elitario delle nostre comunità, che ne sono già abbastanza tentate.
Ma l’equivoco non sorprende: il rigorismo – più moralistico che teologico – di tanti intellettuali di Chiesa conduce frequentemente a ridurre la fede alla sola “fides qua creditur”, cioè alla modalità personale dell’assenso. Dovremmo invece preoccuparci della crescente irrilevanza – nella catechesi come nelle omelie – del “credendum”: delle verità di fede in cui credere.
La perdita di oggettività del “credendum” è parallela a quella dell’oggettività dei sacramenti. Al loro posto avanza la magmatica sentimentalizzazione della fede delle nostre comunità. Il “per amore, solo per amore” di tanta predicazione e carta stampata ne è lo stucchevole Leitmotiv.
L’esito di questa deriva è sotto i nostri occhi in altre regioni d’Europa. Antiche e grandi “Chiese di popolo” sono quasi scomparse, dopo essersi smarrite tra la prevaricazione intellettualistica dei pochi e la fede informe dei più.
L’esempio addotto da Campanini mostra dunque, contro le sue migliori intenzioni, con quanta cautela la Chiesa docente debba accogliere ciò che da preti e da laici sia eventualmente ritenuto una pratica valida. Su tali questioni un’assise responsabile verso la fede – come la prossima di Verona – ha il compito di portare alla luce e vagliare, non certo di decidere a maggioranza.
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Pietro De Marco, esperto in geopolitica religiosa, è professore all’Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.