(l’Espresso) Vaticano contro America, la guerra delle parole

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l’Espressonline 9-6-2003


Da una parte “La Civiltà Cattolica”, dall’altra “First Things”. Da una parte gesuiti e segreteria di Stato, dall’altra cattolici neoconservative e Casa Bianca


di Sandro Magister  

ROMA – Tra i molti commenti in campo cattolico usciti dopo la guerra in Iraq, ve ne sono due tra loro opposti, che si distinguono per autorevolezza e combattività. Il primo è l’editoriale di “La Civiltà cattolica” del 17 maggio 2003. Il secondo è l’articolo d’apertura del numero di maggio del mensile “First Things”, firmato dal suo direttore, padre Richard John Neuhaus. Gli articoli di “La Civiltà Cattolica”, espressione di un collegio di gesuiti di Roma, sono per statuto rivisti e autorizzati dalla segreteria di Stato vaticana. Riflettono quindi compiutamente l’opinione dei vertici della Chiesa.

“First Things” è invece espressione di cattolici degli Stati Uniti di tendenza neoconservative, molto vicini all’amministrazione Bush. Oltre a Neuhaus, tra i suoi commentatori brilla George Weigel, autore della monumentale biografia autorizzata di Giovanni Paolo II uscita in più lingue col titolo “Testimone della speranza”.

L’editoriale del 17 maggio di “La Civiltà Cattolica” è una requisitoria implacabile non solo contro la guerra in Iraq, ma contro l’insieme dell’attuale politica americana. Un dato importante va però rilevato: i capi d’accusa sono tutti e solo di natura politica, non teologica; la guerra combattuta dagli Stati Uniti non è mai bollata come contraria alla fede e alla morale cristiana.

Il saggio di padre Neuhaus punta invece in direzione opposta: analizza i pronunciamenti contro la guerra fatti dai vertici delle Chiese cristiane, in particolare della Chiesa cattolica. La sua analisi è a tutto campo: politico, culturale, teologico. E approda a giudizi molto severi non sul papa, ma su quanto detto e fatto dai responsabili della diplomazia vaticana.

Ecco i punti salienti dei due commenti.


“LA CIVILTÀ CATTOLICA”


L’editoriale ha per titolo “Risanare le ferite della guerra irachena”. E così esordisce nel suo sommario:

«La guerra irachena ha sconvolto l’ordine mondiale, esautorando l’Onu, ferendo il diritto internazionale, creando un fossato tra l’Europa e gli Stati Uniti e suscitando nel mondo islamico propositi di rivincita contro l’Occidente invasore».

Il disastro prodotto dagli Stati Uniti, e così riassunto, non ha attenuanti. Se è vero che l’Iraq «è stato liberato dalla feroce dittatura di Saddam Hussein», questa stessa «liberazione» (parola tra virgolette nel testo) ha prodotto solo danni maggiori. Mentre il «fatto assai positivo che la guerra si sia risolta in meno di un mese» è piuttosto un’aggravante: la disfatta del «debole» regime iracheno «ha mostrato che non c’erano motivi sufficienti per muovere guerra all’Iraq, perché questo paese non costituiva un vero pericolo per gli Stati Uniti e per i loro alleati».

A carico degli americani si addossa, come ulteriore infamia, anche il trattamento da essi riservato ai talebani detenuti a Guantánamo. Sulla minaccia islamista all’Occidente e sulla sua logica, invece, l’analisi è fatta con assoluto distacco:

«Si deve rilevare che la guerra irachena, voluta e vinta dall’Occidente, considerato dai musulmani ‘materialista e corrotto, ateo e miscredente’, è per tutto il mondo islamico una ferita e un’umiliazione che, presto o tardi, con atti terroristici o con la conquista di posizioni di potere politico ed economico nei paesi occidentali con l’arma del petrolio, potrebbe essere vendicata».

E più avanti:

«Quello che il mondo islamico difficilmente accetterà è che gli Stati Uniti si insedino stabilmente in una forma o nell’altra nel Medio Oriente. […] Sarebbe per il mondo islamico una nuova forma di colonialismo, che esso non potrebbe permettere, perché dei credenti in Allah il Corano (s. 3, 110) dice: ‘Voi siete la migliore nazione suscitata fra gli uomini. Voi infatti promuovete la giustizia, impedite l’iniquità e credete in Allah’. Non è dunque possibile che occidentali, secondo loro miscredenti e corrotti, assoggettino ai loro iniqui interessi i credenti islamici. Allah non lo vuole, e questa sua volontà dev’essere fatta rispettare con il jihad, fino al ‘martirio’ per l’onore di Allah e la distruzione degli infedeli».

Secondo “La Civiltà Cattolica”, i musulmani hanno visto nella guerra angloamericana «soprattutto un tentativo di impadronirsi delle loro ricchezze». Ma questo è anche il parere degli autori dell’editoriale e delle autorità vaticane che l’hanno vidimato. Scrivono infatti in un passaggio dedicato al futuro dell’Iraq:

«La ricostruzione economica, sociale e amministrativa del paese appare molto aleatoria perché i paesi occidentali che dovrebbero realizzarla sembrano anzitutto interessati allo sfruttamento del petrolio iracheno e assai poco alla ricostruzione del paese, anche per il fatto che si prevede molto costosa».

La tesi che il petrolio sia la vera causa della guerra era già stata sostenuta da “La Civiltà Cattolica” in un editoriale del 18 gennaio 2003. Ma la conclusione di quest’altro editoriale è ancor più globalmente accusatoria. Gli Stati Uniti incarnano il «dominio di stampo imperialistico della superpotenza egemone»; per essi vale la «legge della giungla»; e grazie ad essi «lo spirito di guerra, di lotta e di violenza sembra aver preso il sopravvento in questo inizio del secolo XXI».


”FIRST THINGS”


Il saggio di padre Richard John Neuhaus ha per titolo “The Sounds of Religion in a Time of War” e mette sotto esame i modi con cui i capi religiosi, cattolici e non, hanno formulato i loro giudizi morali sulla guerra in Iraq.

Neuhaus ritiene ineccepibili le parole di Giovanni Paolo II. Non invece quelle di altri dirigenti vaticani. In particolare appaiono presi di mira il cardinale segretario di stato Angelo Sodano, il ministro degli esteri Jean-Louis Tauran e il presidente di ‘Iustitia et Pax’ Renato Martino.

Neuhaus trova «impressionante» il loro totale silenzio su secoli di riflessione morale sulla guerra: non un solo rimando a sant’Agostino, a san Tommaso d’Aquino, a Francisco de Vitoria, a Francisco Suarez.

Inoltre, trova contraddittorio il loro saltare sul carro delle Nazioni Unite, elette a luogo esclusivo di autorità morale negli affari internazionali. Fa notare che in mezzo secolo solo due guerre sono state previamente autorizzate dal consiglio di sicurezza, quella del 1945 in Corea e quella del 1991 nel Golfo; che nel contrastare l’impero sovietico l’Onu non è stata di alcun aiuto a Giovanni Paolo II; e che soprattutto, per anni, la Santa Sede ha avuto proprio nell’Onu il suo massimo avversario su questioni moralmente cruciali come l’aborto e il controllo delle nascite.

Altro punto debole dei dirigenti vaticani è stato, secondo Neuhaus, il loro argomentare contro la guerra sulla base di puri enunciati di paura: le centinaia di migliaia di vittime civili, l’esplosione del mondo musulmano, l’Iraq come nuovo Vietnam.

Neuhaus ricorda che, a guerra iniziata, il presidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti, Wilton Gregory, ha emesso una dichiarazione molto equilibrata, nella quale la Chiesa assicurava il suo sostegno spirituale sia ai fedeli d’accordo in coscienza con la guerra, sia a quelli in disaccordo. Ma dal Vaticano s’erano udite parole molto diverse. Una volta definita la guerra in Iraq un «crimine contro l’umanità» (come Tauran e Martino avevano fatto) al cattolico americano non restava che scegliere tra la lealtà al suo paese e la fedeltà alla Chiesa.

Ma il guaio maggiore è stato l’attribuire anche al papa giudizi sulla guerra (immorale, contraria alla dottrina della Chiesa, crimine contro l’umanità…) che egli in realtà non ha mai pronunciato. Scrive Neuhaus:

«Vi sono tempi nei quali i cattolici, e tutti i cristiani, devono scegliere tra la complicità in una grande ingiustizia e la fedeltà alla verità morale. Questa scelta ha prodotto nei secoli innumerevoli martiri. Per un dirigente vaticano, anche l’implicare che dei soldati e altri affrontino una simile scelta è un irresponsabile abuso d’ufficio ecclesiastico. A meno che, naturalmente, egli davvero pensi che il suo punto di vista sulla guerra sia vincolante per le coscienze. Fosse questa la posizione della Chiesa, uno si aspetterebbe che il papa lo dica, ma il papa non ha detto niente di simile, neppure remotamente. C’è da temere che certi uomini di Chiesa siano più innamorati di giocare un ruolo nella politica mondiale che dedicati a essere pastori di anime».

E conclude: «Mentre la gente cercava di prendere le proprie decisioni, i rintocchi della religione sulla pubblica piazza, salvo poche eccezioni, non le sono state d’aiuto. Il più delle volte i capi religiosi hanno seminato confusione».

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Il sito di

> “La Civiltà Cattolica”

E il testo integrale del suo editoriale del 17 maggio 2003, riprodotto per gentile concessione:

> Risanare le ferite della guerra irachena

L’articolo di padre Richard John Neuhaus su “First Things” del maggio 2003:

> The Sounds of Religion in a Time of War

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I due articoli contrapposti di “La Civiltà Cattolica” e “First Things” confermano dunque che tra il Vaticano e gli Stati Uniti è in atto uno “scontro di culture”?

Questa chiave di lettura è stata proposta da John L. Allen jr., corrispondente dal Vaticano per il settimanale “National Catholic Reporter”, nella newsletter che egli settimanalmente diffonde on line: “The Word from Rome” del 23 maggio 2003.

C’è da una parte il «non capisco la posizione vaticana» detto da Condoleezza Rice e da altri dirigenti di Washington. E dall’altra parte c’è nella Santa Sede un’analoga incomprensione delle posizioni americane, che è di lunga durata.

Allen cita la condanna dell’”americanismo” pronunciata da Leone XIII nel 1899. Ma ancora oggi importanti dirigenti vaticani, specie europei, restano tenacemente ostili a quello che considerano lo spirito americano: l’individualismo sfrenato, il consumismo, l’etica calvinista, la ricerca del successo terreno come conferma della benedizione di Dio, il sentirsi eletti a paladini del bene contro l’impero del male. La guerra in Iraq avrebbe rafforzato nella curia di Roma questa ostilità contro lo spirito americano. E gli editoriali di “La Civiltà Cattolica” ne sarebbero il segno.

Ma Allen fa notare anche un’altra cosa, che invece riguarda da vicino “First Things”. Gli intellettuali cattolici che scrivono su questa rivista, in testa Neuhaus, Weigel e Michael Novak, concepirono negli ultimi anni della guerra fredda una provvidenziale e duratura alleanza tra la Chiesa Cattolica e l’America, fondata su valori condivisi come la difesa della vita e della famiglia e su obiettivi geopolitici comuni come i diritti umani, la libertà economica e la democrazia.

Le basi di questa alleanza furono gettate durante la presidenza di Ronald Reagan. Ma poi vennero gli otto anni di Bill Clinton a interromperla. Con la presidenza di George W. Bush l’alleanza sarebbe dovuta riprendere, e in effetti fu così, nell’avvio del suo mandato. E così sarà ancora, nella speranza di questi intellettuali, una volta superato l’incidente della guerra in Iraq.

Ma se le incomprensioni scoppiate con la guerra in Iraq fossero esse l’elemento costante nei rapporti tra il Vaticano e l’America, prepotentemente tornato alla luce?

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Il link alla newsletter di John L. Allen jr. del 23 maggio 2003:

> U.S. vs. Vatican: a Clash of Cultures