(l’Espresso) Una ‘rivoluzione’ come quella di Gregorio VII

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Dopo Wojtyla. Una “Rivoluzione papale” per il terzo millennio

È la proposta audace lanciata dal “partito” dei cardinali Ratzinger e Ruini. Il conclave deciderà su di essa. E anche su cosa conservare e cosa no del papa scomparso

di Sandro Magister
ROMA, 7 aprile 2005 – Una cosa sanno di Giovanni Paolo II i cardinali che eleggeranno il suo successore: che è irripetibile.

Ma a inquietarli non è la smisurata potenza d’immagine da lui dispiegata in quasi 27 anni di pontificato. Nessun nuovo papa ardirà di competere con lui su questo terreno. Come nani sulle spalle di un gigante, i capi di Chiesa si avvarrano del capolavoro mediatico compiuto da papa Karol Wojtyla come di un tesoro a cui attingere.

Grazie a lui la Chiesa romana ha conquistato il centro della scena del mondo, e la Chiesa del dopo Wojtyla vuole continuare a essere lì, viva ed attiva, spoglia di vetusto potere temporale ma ricca della parola venuta dall’alto, esperta in umanità proprio perché custode e testimone del Vangelo.

E infatti mai come in questi ultimi mesi i cardinali di Roma più colti e dotati di autorità, da Joseph Ratzinger a Camillo Ruini, gli stessi in cui Giovanni Paolo II riponeva la sua più convinta fiducia, si sono prodotti in analisi di geopolitica religiosa, si sono spesi a tracciare gli scenari presenti e futuri della Chiesa e del mondo.

Ratzinger addirittura l’ha fatto venerdì 1 aprile, proprio mentre Giovanni Paolo II era in piena agonia. Con una conferenza a Subiaco, la culla del monachesimo d’Occidente e di san Benedetto padre e patrono d’Europa.

In un’organismo come la Chiesa, la memoria è linguaggio essenziale. Quando papa Wojtyla si presentò al mondo come pastore chiamato da Dio a introdurre la Chiesa nel terzo millennio, la similitudine obbligata era con quanto accadde in Europa dopo l’anno 1000. Philippe Nemo, uno dei più acuti “nouveaux philosophes”, in un libro sulla nascita dell’Occidente moderno appena edito in Italia da Rubbettino, la chiama la “Rivoluzione papale”.

Gregorio VII, monaco e papa, è il protagonista più noto di quella rivoluzione sbocciata nel secolo XI, ma in realtà essa fu impresa collettiva durata per molti decenni: religiosa, culturale e politica insieme.

Cominciò con una pulizia e un raddrizzamento della Chiesa d’impronta rigorista, simile a quelli invocati dallo stesso Ratzinger nelle meditazioni per la Via Crucis dello scorso Venerdì Santo. Proseguì con una sfida ai poteri mondani, in nome del principio di libertà. E vinse grazie a un geniale ricupero e innesto della filosofia scientifica greca e del diritto romano nel corpus della dottrina cristiana.

Da quella Rivoluzione papale prese corpo l’Europa moderna, con una inedita sintesi tra le eredità di Atene, di Roma e di Gerusalemme.

E sempre grazie a quella Rivoluzione l’Europa poté reggere il confronto con le altre civiltà del mondo, l’islamica, l’indiana, la cinese, pur patendo lo scisma con le Chiese ortodosse d’Oriente che non sopportavano la rafforzata primazìa del papato romano.

Papa Wojtyla questo aveva intuito: che anche all’inizio del terzo millennio la Chiesa dovesse fare la sua rivoluzione; che i tempi erano maturi per un nuovo passaggio di civiltà, con alla testa la Chiesa di Roma e con teatro non solo l’Occidente ma il mondo.

Lo intuì e compì dei gesti a suo vedere profetici, lampi d’annuncio d’una nuova Rivoluzione papale: i viaggi fino all’estremo confine del mondo; la sfida ai moderni imperi del male, politici e culturali; le paci interreligiose di Assisi; i “mea culpa” per i peccati del passato della cristianità.

Ebbene, se in conclave vincerà la linea teorizzata da Ratzinger, da Ruini e dagli altri dirigenti di Chiesa solidali con loro, il prossimo pontificato erediterà da Giovanni Paolo II l’intuizione di fondo. Ma la metterà a frutto con modalità decisamente nuove. Molti dei gesti, anche i più universalmente apprezzati, che hanno contraddistinto il pontificato di Wojtyla non saranno più ripetuti.

C’è un discorso tenuto nell’ottobre del 2002 dal cardinale Ruini in Polonia, a Lublino, nell’università dove il professor Karol Wojtyla aveva insegnato, che è stato il preannuncio della cernita che il conclave farà dell’operato di Giovanni Paolo II: tra le cose da tener buone e quelle invece da lasciare cadere.

Tema di quel discorso era un profilo dei primi ventiquattr’anni del pontificato di Wojtyla. In esso, Ruini individuava alcuni elementi centrali e li valorizzava con la massima forza; altri li ridimensionava o li taceva; su un altro ancora, infine, formulava una proposta inedita.

Tra i gesti lasciati in ombra c’erano i meeting interreligiosi di Assisi, i “mea culpa”, l’incessante viaggiare nel mondo, i grandi raduni di massa, l’altissimo numero di nuovi santi e beati.

E in effetti su ciascuno di questi gesti ideati e voluti Giovanni Paolo II in persona, già oggetto di riserve ai gradi alti della Chiesa fin dal loro primo compiersi, le critiche sono andate man mano crescendo negli anni.

Sui meeting di Assisi, in particolare, le critiche sono state di tale intensità da indurre Wojtyla a una sensibile correzione di rotta nel corso del suo stesso pontificato.

Il timore che da quegli incontri paritetici tra i capi delle religioni, quasi fossero una strana Onu delle fedi, uscisse un incitamento alla confusione e uno svuotamento della missione della Chiesa di propagare il Vangelo indusse Giovanni Paolo II, per la penna di Ratzinger, a emettere una sentenza dottrinale che facesse da antidoto al veleno relativista. E fu la “Dominus Jesus”, promulgata il 5 settembre 2000 in pieno Anno Santo. Il successivo incontro di Assisi, nel 2002, fu infatti accuratamente calibrato sotto la vigilanza di Ratzinger, in modo che non apparisse offuscata la fede cattolica in Gesù Cristo come unica e insostituibile via di salvezza per tutti gli uomini.

Più di recente, circa i rischi del dialogo interreligioso, si è unito al coro degli allarmisti anche un autorevole capofila della corrente progressista, il superiore generale della Compagnia di Gesù, Peter Hans Kolvenbach: “Un vero dialogo non si può basare sulla facilità del confusionismo in cui indistintamente si mescolano religioni differenti o sull’insidia del relativismo in cui tutte le verità si equivalgono”.

Quanto ai “mea culpa”, papa Wojtyla si trovò sempre in minoranza, ai gradi alti della Chiesa. Nel 1994 chiamò a consulto i cardinali e sottopose loro il suo progetto di chiedere pubblicamente perdono agli eredi delle vittime di passate malefatte cristiane. Fu sommerso dalle obiezioni. Uno dei porporati, l’arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi, addirittura mise in pubblico le sue critiche in una successiva lettera pastorale ai fedeli.

Anche qui il papa dovette ricorrere all’aiuto di Ratzinger. E questi gli pubblicò nel marzo del 2000 un documento teologico che rispondeva punto per punto a tutte le obiezioni. Ma il curioso era che, nel documento, le obiezioni erano tutte riccamente argomentate, mentre le risposte apparivano deboli e poco convinte. Ratzinger e i suoi teologi misero nero su bianco che lo stesso Gesù, a quanto si legge nel Vangelo di Matteo 23, 29, non tollerava che si giudicassero i protagonisti del passato con la coscienza di oggi: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti che dite: ‘Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti’”.

Ma niente trattenne Giovanni Paolo II dal dare corso a quella sua decisione. Nell’Anno santo del 2000 l’autoflagellazione della Chiesa di fronte al mondo toccò il suo apice, tra gli applausi dei media mondiali mescolati ai rimproveri alla Chiesa di fare comunque troppo poco, e troppo tardi, e male. E sempre senza alcuna reciprocità da parte di governi o religioni macchiatisi in passato delle peggiori persecuzioni anticristiane.

Ciò non significa, però, che il successore di Giovanni Paolo II abolirà i “mea culpa”. Ne pronuncerà ancora, ma di molto diversi rispetto a quelli famosi di papa Wojtyla, sempre che si imponga la lezione che Ratzinger ha impartito con la Via Crucis dello scorso Venerdì Santo.

In quelle sue meditazioni sulla passione di Gesù c’era una Chiesa che chiedeva perdono non per le sue colpe del passato, ma per quelle di oggi. E il perdono non lo chiedeva al mondo, ma a Dio:

“Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa”.

In questo e in altri momenti della Via Crucis s’è udita la richiesta impellente di mettere la Chiesa in stato di penitenza e purificazione, a cominciare dai suoi quadri, dal clero, dai vescovi: con un nuovo papa dedicato a riprendere vigorosamente in pugno il governo ordinario della Chiesa, largamente trascurato da Giovanni Paolo II.

Del papa defunto, il successore continuerà in ogni caso la battaglia su cui più si era speso: contro quel mal d’Occidente da lui visto nel dominio della scienza sull’uomo, dal concepimento alla morte, senza più capacità di distinguere il bene dal male.

A questa battaglia non si prevede nessuna tregua, nel prossimo pontificato. Anzi. Il crescendo di interventi su questi temi, negli ultimi mesi, di Ratzinger e Ruini si è accompagnato ai vertici della Chiesa anche a un crescendo dei consensi sulle loro posizioni.

Per Ruini la “questione antropologica”, il nuovo conflitto epocale sulla visione della vita e dell’uomo, “inciderà sul nostro futuro, compreso il futuro del cristianesimo nell’Occidente e nel mondo, in maniera più profonda e duratura” dello stesso conflitto mondiale col terrorismo islamico. L’ha scritto e argomentato nel suo ultimo libro, uscito il martedì di Pasqua, quattro giorni prima della morte di Giovanni Paolo II: “Nuovi segni dei tempi. Le sorti della fede nell’età dei mutamenti”.

E Ratzinger, nella sua conferenza a Subiaco di venerdì 1 aprile, ha detto cose di una radicalità ancor più spinta. Ha sostenuto che la cultura che si è oggi sviluppata in Europa “costituisce la contraddizione in assoluto più radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali dell’intera umanità”.

C’è infine un altro prevedibile punto di svolta, rispetto al pontificato di Giovanni Paolo II.

Secondo un’opinione ormai largamente condivisa nel collegio cardinalizio, papa Wojtyla ha spinto all’eccesso il principio del primato papale, nel governo della Chiesa. C’è la richiesta e l’attesa che si faccia un utilizzo più esteso dell’altro principio, quello della collegialità episcopale.

In questa direzione si è spinto più avanti di tutti il cardinale Carlo Maria Martini, in un memorabile discorso al sinodo dei vescovi del 1999.

Ma la novità degli ultimi anni è venuta dal fronte neoconservatore. Il cardinale Ruini s’è mosso anche lui in questa stessa direzione, per la prima volta nella sua conferenza a Lublino del 2002. E ha rilanciato nel suo ultimo libro l’idea di una riforma del governo della Chiesa che faccia “sintesi tra la prospettiva incentrata sul collegio dei vescovi, prevalente nel primo millennio, e quella che fa capo al primato papale, che ha contrassegnato il secondo millennio”.

Ora avanza il terzo millennio. E con esso il progetto su cui il conclave è chiamato a decidere: una nuova Rivoluzione papale, per la Chiesa e per il mondo.

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I libri:

Camillo Ruini, “Nuovi segni dei tempi. le sorti della fede nell’età dei mutamenti”, Mondadori, Milano, 2005, pp. 92, euro 10,00.

Philippe Nemo, “Che cos’è l’Occidente”, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 160, euro 10,00.