(l’Espresso) Il capitalismo l’ha inventato S. Francesco

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Chiesa e libero mercato. Il capitalismo l’ha inventato san Francesco



Nuovi studi gettano luce sulle origini della moderna economia liberista. E le fanno risalire ai teologi francescani del Medioevo. Ma ai vertici della Chiesa le diffidenze restano forti


di Sandro Magister

 ROMA – Che Francesco d’Assisi sia il santo giusto per anticapitalisti e no global lo sostengono persino Toni Negri e Michael Hardt nel loro libro “Impero”, la bibbia della contestazione mondiale.

Ma la realtà storica dice l’opposto. La moderna teoria del libero mercato nacque proprio dai primi discepoli di san Francesco, dai teologi francescani che più esaltavano il voto di povertà.

L’ultima scoperta degli storici del Medioevo è che persino il gioco d’azzardo, nelle analisi dei teologi francescani, fu volto in bene. E aprì la strada alle moderne concezioni economiche del rischio.

Lo studioso che ha compiuto questa scoperta e l’ha esposta in un libro documentatissimo è Giovanni Ceccarelli, professore alle università di Venezia e Padova, a sua volta discepolo di un altro storico dell’economia medievale, Giacomo Todeschini, dell’università di Trieste.

Nel 2002, l’editrice il Mulino ha pubblicato di Todeschini un libro dal titolo “I mercanti e il tempio”. Nel quale egli mostra le fortissime radici teologiche ed ecclesiologiche delle moderne teorie e pratiche capitaliste. Fin dal Medioevo, molto prima che arrivasse Calvino.

E nell’estate di quest’anno ecco ancora il Mulino pubblicare di Ceccarelli “Il gioco e il peccato”. Dove a segnare il passaggio dalla condanna totale del gioco d’azzardo a una sua ridefinizione come contratto a rischio sono proprio i teologi francescani dal Duecento in poi.

Le sorprese sono forti. È la riflessione francescana sulla povertà volontaria a riconoscere nel possesso materiale dei beni un desiderio naturale e universale dell’uomo.

È dal loro volontarismo e dal primato dato all’individuo, sulle orme di sant’Agostino, che i francescani ricavano una teoria economica tutta centrata sul soggetto contraente e sui contratti intersoggettivi.

Sono soprattutto i francescani a precorrere la Salamanca del Cinquecento: dove teologi sia francescani che domenicani che gesuiti creano una vera e propria “scuola” del capitalismo in ascesa.

Sulla scuola economica dei teologi di Salamanca ha scritto un saggio di grande interesse Alejandro A. Chafuen, economista argentino che vive negli Stati Uniti, dove presiede la Atlas Research Foundation.

Mentre sulle teorie economiche dei teologi francescani del tardo Medioevo è uscito quest’anno un libro di Oreste Bazzichi, lui stesso studioso di teologia e della dottrina sociale cristiana.

Curiosamente, però, questo liberismo economico ‘ante litteram’ dei teologi medievali e del Cinquecento è oggi pochissimo valorizzato in campo ecclesiastico.

In larghi strati della Chiesa cattolica, vertici compresi, il capitalismo continua ad avere cattiva fama. È giudicato di per sé cattivo, selvaggio, oltre che “di spirito protestante”. Nell’enciclica “Centesimus Annus” del 1991 Giovanni Paolo II ne riconosce i meriti. Ma in una sua intervista a Jas Gawronski del 1993 il papa non esita a spiegarli così: “Se il capitalismo odierno è migliorato, è in buona parte merito delle buone cose realizzate dal comunismo: la lotta contro la disoccupazione, la preoccupazione per i poveri. Il capitalismo invece è individualista”.

Ma ecco qui di seguito una presentazione del libro di Bazzichi fatta da uno studioso cattolico che è uno dei più appassionati sostenitori dell’incontro tra liberismo e cattolicesimo. È apparsa il 7 agosto 2003 su “Avvenire”, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana:


Il capitalismo? Comincia col saio

di Dario Antiseri


Il pregiudizio illuministico che vedeva nel Medioevo l’età dei secoli bui, un’epoca di ignoranza e di superstizione, è stato ormai demolito da tutta una serie di indagini di prim’ordine sul pensiero scientifico, sulla filosofia, sul pensiero logico e quello matematico, sulle tecniche produttive, sugli scambi e l’economia monetaria, fioriti, appunto, nell’età di mezzo. Così come è stata revisionata a fondo la tesi di cui siamo debitori a Max Weber il quale aveva individuato nella Riforma calvinista la genesi dello spirito del capitalismo.

Certo, scrive Oreste Bazzichi nel suo recente libro “Alle radici del capitalismo. Medioevo e scienza economica”, “l’etica protestante è stata forse un valido motivo di slancio nel capitalismo in quelle nazioni dove maggiormente si era diffusa la Riforma, ma non ha niente a che vedere con la sua origine”. E ciò per la ragione, se non altro, che l’età moderna e la stessa epoca contemporanea, hanno beneficiato e continuano a beneficiare – relativamente alla pratica degli affari e alla teoria del pensiero economico – di una quantità di invenzioni risalenti esattamente agli ultimi quattro secoli del Medioevo: “dal contratto di affitto alla lettera di scambio, dall’assegno bancario alle tratte e alle cambiali, dalle principali forme e tecniche del credito, all’attività bancaria”.

Ora, però, nelle indagini sulle origini della scienza economica, all’interno del pensiero medievale, un’accreditata storiografia, sotto il fascino e la luce dell’imponente edificio teorico di san Tommaso d’Aquino e del tomismo successivo, “ha lasciato nell’ombra il ricco patrimonio di idee della scuola francescana medievale e tardomedievale, alla quale spetta una posizione centrale per i suoi contributi – davvero decisivi e autonomi – alla formulazione di concetti quali: utilità sociale della mercatura, remunerazione del prestito, produttività del denaro, valore economico, giusto prezzo, cambio, sconto”.

E va notato che i teologi francescani fecero questo in una situazione in cui la Chiesa imprimeva un marchio di condanna a tutto quel che odorava di moneta, di interesse, di usura. Ne è una riprova Dante nella cui opera troviamo il più netto rifiuto della società di mercato. La realtà è che i francescani, tuffati dentro le città, a contatto con le attività più impellenti della vita, in tempi in cui vedono imporsi la borghesia mercantile, portano a compimento il progetto di inserire la pullulante e operosa vita cittadina all’interno dell’etica cristiana.

Centrale, in siffatta tradizione, è l’opera di Pietro Di Giovanni Olivi (1248-1298), il quale – tra altre questioni – nel suo “Tractatus de emptione et venditione, de contractibus usurariis et restitutionibus”, si pose l’interrogativo se sia lecito distinguere fra il prestito di una somma di denaro qualsiasi e il prestito di una somma di denaro efficientemente inserito o da inserirsi nel processo produttivo. La sua risposta fu che, mentre l’incremento del denaro preteso in forza del mutuo era configurabile come usura, la ricompensa che un mercante o chiunque altro avesse avuto progetti di investimento economico relativamente fruttifero, pretendeva per distrarre il proprio denaro e darlo in prestito, sarebbe invece da considerare come un risarcimento del danno subito.

Commenta Bazzichi: “Tale danno, nelle sue due componenti di lucro cessante e di danno emergente, si esprimeva con la parola interesse, derivata con lo stesso significato dal diritto romano”.

Sull’uso umano per la formazione del valore economico di un bene, insiste anche un altro grande francescano, Giovanni Duns Scoto, il quale, dovendo fronteggiare la persistente condanna canonica dell’usura, difese l’idea che è giusto che il mercante riceva un’adeguata remunerazione, a patto, però, che egli arrechi un servizio utile alla comunità. Cosa questa che ha luogo, allorché i mercanti trasferiscono da un posto all’altro cose utili, se le conservano, se le migliorano, se aiutano la gente comune a giudicare rettamente il valore e il prezzo delle cose.

Successore di Duns Scoto sulla cattedra di Parigi e ministro generale dell’Ordine fu Alessandro Bonini, detto Alessandro di Alessandria per distinguerlo da Alessandro di Hales, il quale nel trattato “De usuris”, composto nel 1302, si occupò soprattutto di credito e di operazioni finanziarie.

Il campo in cui Alessandro di Alessandria si dimostra più innovativo è sicuramente l’esplorazione e la valutazione dell’arte campsoria, vale a dire dell’attività del cambio di moneta. Non è usura – egli sostenne – il guadagno del cambiavalute. Costui non è per nulla tenuto a prestare la sua opera gratuitamente e ciò, se non altro, per la semplice ragione che l’arte campsoria “è necessaria per l’utilità di coloro che viaggiano nelle diverse regioni per lo scambio delle cose, senza il quale non c’è vita sociale”.

Furono Artesano di Asti e Gerardo di Odone, due altri teologi francescani, che a pochi anni di distanza dal lavoro di Alessandro di Alessandria trascrissero, talvolta ‘ad litteram’, la dottrina cambiaria di Alessandro e la teoria della produttività del capitale monetario dell’Olivi – idee che subito dopo vennero registrate da quanti, e furono molti, da san Bernardino da Siena a sant’Antonino da Firenze, da Leonardo Fibonacci a Nicola Oresme – si occuperanno di etica economica, di moneta e di cambi.

Josef Schumpeter, nella sua monumentale “Storia dell’analisi economica”, pone sant’Antonino da Firenze tra i fondatori dell’economia scientifica, senza citare nemmeno una volta san Bernardino da Siena. Senonché, come ha dimostrato Raymond de Roover (nel volume “St. Bernardino of Siena and St. Antonino of Florence: the two great thinkers of Middle Ages”, Boston, 1967), la maggior parte delle idee esposte da sant’Antonino nella sua “Summa Theologica” sono riprese dagli scritti di san Bernardino, il quale, a sua volta, aveva attinto a piene mani alle dottrine del francescano Pietro di Giovanni Olivi. È così, dunque, che dobbiamo a dotti e geniali francescani l’origine di quella possente tradizione che, grazie alla successiva elaborazione dottrinale dei tardo-scolastici, si innestò nel filone dell’illuminismo scozzese e confluirà, ai nostri giorni, nella Scuola austriaca di economia.

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I libri:

Giovanni Ceccarelli, “Il gioco e il peccato”, il Mulino, Bologna, 2003, pagine 488, euro 30,00.

Giacomo Todeschini, “I mercanti e il tempio”, il Mulino, Bologna, 2002, pagine 532, euro 33,00.

Oreste Bazzichi, “Alle radici del capitalismo. Medioevo e scienza economica”, Effatà Editrice, Cantalupa (Torino), 2003, pagine 176, euro 15,00.

Alejandro A. Chafuen, “Faith and Liberty. The Economic Thought of the Late Scholastics”, Lexington Books, 2003, 166 pages, 65,00 USD.


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Dario Antiseri è specialista in filosofia della scienza e filosofia del linguaggio. Dirige il Centro di metodologia delle scienze sociali della Luiss, Libera università internazionale degli studi sociali “Guido Carli”, Roma. Ha promosso la conoscenza in Italia di Karl Popper, Friedrich von Hayek e della Scuola austriaca di economia. Ha pubblicato numerosi saggi su cristianesimo e libero mercato, per gli editori Armando e Rubbettino. Scrive sul quotidiano della conferenza episcopale italiana, “Avvenire”. Negli Stati Uniti un suo punto di riferimento è l’Acton Institute di p. Robert Sirico