(l’Espresso) Gli islamici non hanno rispetto per il nulla

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Miracolo a Nazaret. Storia di un manager italiano di successo
In piena guerra arabo-israeliana, nella città dell’annunciazione di Gesù, vi sono medici, suore e infermieri ebrei, musulmani e cristiani che lavorano di comune accordo. E tutto è cominciato quando…

di Sandro Magister

ROMA – L’intervista che segue ha un protagonista e un talent scout. Il protagonista è un importante manager italiano, Giuseppe Fraizzoli, che un paio d’anni fa, di colpo, lasciò l’Ibm e gli Stati Uniti e si trasferì a Nazaret a dirigere un ospedale. Nel pieno d’una guerra apparentemente invincibile. Tra medici, infermieri e malati a loro volta l’un contro l’altro ostili… E invece lì s’è compiuto e si compie ogni giorno un miracolo. Quello della normalità. Come normale è la fede cristiana che Fraizzoli testimonia. Si convive. Si lavora assieme. Ci si aiuta. Ci si dedica.

Il talent scout è un giornalista e scrittore, Stefano Lorenzetto, che da anni va scovando quelli che lui chiama i “tipi italiani”. Fraizzoli è il 218.mo dei personaggi da lui trovati e ritratti in altrettante interviste, che compongono ormai una straordinaria sequenza di vite, una più sorprendente dell’altra. L’intervista qui riprodotta con l’autorizzazione dell’autore è apparsa, in versione integrale, sul quotidiano “Il Giornale” di domenica 30 novembre 2003, proprio mentre a Ginevra si firmava una similitudine di pace tra israeliani e palestinesi, per iniziativa spontanea di alcuni cittadini delle due parti. Nell’ospedale di Nazaret qui descritto, la pace sognata è già all’opera. Anche questa è società civile. Ancor più concreta. Ancor più incoraggiante.


Nella città dove fu concepito Gesù i malati ebrei aiutano quelli arabi

di Stefano Lorenzetto


NAZARET – È il miracolo della normalità. Medici ebrei che si fanno assistere da infermieri arabi, e medici arabi che si fanno assistere da infermieri ebrei. […] A tenere in piedi un’istituzione così è Giuseppe Fraizzoli, di Verona, 37 anni, laurea in economia, master in business administration negli Stati Uniti. Uno che cominciò nel 1991 all’ospedale San Raffaele di Milano, occupandosi di controllo gestionale e marketing sanitario. Uno che nel ’97 fu chiamato a far parte della task force incaricata di ristrutturare la Olivetti. E poi nel ’98 l’assunzione in Ibm, negli Stati Uniti.

Stava dunque nell’executive briefing center di Rochester, Minnesota, a occuparsi di internet e di finanza, il dottor Fraizzoli, quando ricevette una telefonata da un ex collega del San Raffaele: “Cercano un direttore disposto ad andare in prima linea, dove si spara, mi capisci? È per l’Holy Family Hospital dei Fatebenefratelli di Nazaret. Ti interessa?”. […]

Era l’estate del 2001. Al quartiere generale Ibm di Rochester informò i suoi superiori. Comprò un biglietto di sola andata. L’11 settembre stava per imbarcarsi. Vide in tv le Torri Gemelle di New York che bruciavano. Aspettò qualche giorno, il tempo che riaprissero gli aeroporti. Gli fu ancora più chiaro che doveva andare.

Era mai stato prima a Nazaret?

“No, mai. Nonostante sia cattolico, la Terra Santa non mi attirava. Ora non so se riuscirei a staccarmene”. […]

Che cosa ricorda del suo primo giorno in questo ospedale?

“Mi accompagnava fra’ Giampietro, l’economo della provincia lombardo-veneta dei Fatebenefratelli dal quale l’ospedale dipende. Mi presentò le persone e la struttura. E scoprii che non avevo un ufficio”. […]

E dove si sistemò?

“Nella sala d’attesa accanto alle cucine. Per qualche mese ho lavorato lì, senza computer, né telefono, né fax, né segretaria. Circonfuso dall’aroma di hummus, la tipica salsa a base di ceci e sesamo”. […]

Quali attività svolgete?

“Tutte. Pronto soccorso, chirurgia, ostetricia, ginecologia, neonatologia, medicina interna, ortopedia, urologia, geriatria, cardiologia, oncologia. Abbiamo 109 letti e accogliamo più di 50mila pazienti l’anno. Ci manca solo la psichiatria”.

Non ci sono pazzi in Galilea?

“Ci sono, ci sono”.

E che fanno i pazzi da queste parti?

“Si fanno saltare in aria”.

Chi paga per i ricoveri?

“Dipendiamo dalle casse mutue, che sono quattro. […] Sono le prime clienti del mio ospedale e vogliono sborsare pochi quattrini. Hanno un peso contrattuale fortissimo. Dal governo israeliano non arriva alcun sussidio. […]”.

E se un paziente non ha i soldi per pagare?

“Accade spesso. Lo curiamo gratis, si capisce”.

Non è facile far tornare i conti, in queste condizioni.

“Infatti quando tornano è solo perché ci pensa la provvidenza. Spendiamo intorno ai 25 miliardi di vecchie lire l’anno e i ricavi arrivano a 20-22. Se non ci fossero i benefattori che ogni tanto mi contattano attraverso la buca della carità…”.

Sarebbe?

“La buca delle lettere, la posta elettronica: g.fraizzoli@hospitalnazareth.org”. […]

Quanti medici ha?

“Cinquanta. Quasi tutti laureati in Italia”.

Di che religione?

“Di tutte le religioni. Come gli infermieri. E come i pazienti, che per il 71 per cento sono musulmani e per il 17 per cento cristiani di diversi riti e confessioni: cattolici latini, melchiti, greco-ortodossi, siriani, armeni, caldei, maroniti, copti, protestanti. Poi un 10 per cento di ebrei. La rimanenza sono circassi, cioè musulmani di etnia non araba, e drusi, che professano una religione esoterica affine a quella islamica. Con la differenza che circassi e drusi prestano servizio di leva nell’esercito israeliano”.

Da perdere la bussola.

“Ma no, basta regolare il traffico delle festività. Ho deciso così: Natale ed Epifania festa per tutti, anche perché la seconda ricorrenza coincide col Natale ortodosso. Poi ognuno sceglie il giorno di riposo in base al suo calendario religioso: i musulmani il venerdì, gli ebrei il sabato, i cristiani la domenica. L’unico costretto a lavorare sette giorni su sette è il qui presente, dal momento che la domenica equivale per gli ebrei al nostro lunedì e quindi segna la ripresa della settimana lavorativa. Ma ci si abitua in fretta”.

La fa facile.

“Siamo la prova vivente che la convivenza è possibile. Nessuno geneticamente tende ad amare o a odiare. L’uomo teme solo ciò che non conosce. Se lavoriamo nello stesso turno, se stiamo vicini, se ci parliamo, alla fine ci capiamo. Non subito, magari. Le dieci suore di Maria Bambina mi hanno raccontato che una quindicina d’anni fa una di loro doveva essere presente in corsia 24 ore su 24 per impedire che gli infermieri arabi picchiassero quelli ebrei e viceversa. Finché un giorno arrivano al pronto soccorso alcuni palestinesi feriti negli scontri con la polizia israeliana e trovano di turno un medico ebreo. I parenti delle vittime, inferociti, vogliono pestarlo. E accade che in sua difesa intervengono le infermiere arabe”.

Miracolo.

“E poi c’è Ester, ebrea immigrata dall’Argentina, che viene ricoverata d’urgenza e non sa a chi lasciare i due figli piccoli. Allora Fatme, il marito di un’infermiera musulmana, si prende cura di loro. E c’è la ricca ebrea americana che fa una donazione alla Società israeliana per la lotta al cancro e ci consente di aprire un centro di prevenzione del tumore alla mammella per le donne palestinesi. E c’è l’anziano paziente ebreo che dopo anni di afasia ritrova la parola in punto di morte per ringraziare la suora cattolica che lo ha accudito. E c’è la malata ebrea che allontana le infermiere dalla camera perché vuole assistere personalmente la compagna di stanza musulmana giunta agli ultimi giorni di vita. Per voi sono miracoli. Per noi sono la quotidianità”. […]

Chi governa a Nazaret?

“In consiglio comunale siedono otto musulmani e otto cristiani. Il sindaco è cristiano. Gli hanno bruciato l’auto ed è stato salvato dal linciaggio: s’era recato a far visita a una ragazza musulmana che aveva votato per lui”.

Dov’è la grande moschea che doveva sorgere davanti alla basilica dell’Annunciazione?

“Non nascerà. Si farà un parcheggio, com’era previsto in origine”.

Così il panorama che si gode dalla finestra del suo ufficio è salvo.

“Non è questo il punto”.

E qual è allora?

“Che senso aveva erigere un tempio islamico proprio nel luogo dove l’angelo annunciò a Maria il concepimento di Gesù? Nessuno. Ce ne sono già venti, di moschee, a Nazaret. Quel progetto ha diviso la stessa comunità araba, è stato usato come arma politica. Non c’erano mai stati attriti prima d’allora. La moschea aveva l’unico scopo di oscurare la basilica, per dimostrare che qui sono loro, i musulmani, i padroni”.

Pellegrini se ne vedono ancora a Nazaret?

“No. Da due anni non arriva più nessuno. Se capita una comitiva di fedeli, è una notizia da mettere sul giornale. Ogni tanto vado a Gerusalemme e sosto nel Santo Sepolcro quanto mi pare. Prima bisognava fare una coda di quattro ore e non ti lasciavano più di dieci secondi per sfiorare la pietra su cui fu deposto il corpo di Cristo. Il venerdì santo alla Via Crucis ho incontrato soltanto i domestici filippini che lavorano per le famiglie ebree o nelle ambasciate. Mi sembra una paura esagerata. In fin dei conti nel Medioevo i pellegrini facevano testamento, si raccomandavano l’anima a Dio e partivano. A piedi o a cavallo. Ma partivano. Non credo che corressero meno rischi di adesso”.

È alto anche a Nazaret il livello di vigilanza?

“L’ospedale fa parte dell’Aran, la rete israeliana per le grandi emergenze. Quando scatta il codice Aran significa che devi essere pronto ad accogliere un grande numero di pazienti in brevissimo tempo. All’inizio dell’intifada abbiamo avuto quattro morti e 170 feriti in tre giorni per gli scontri fra arabi e polizia. Finita la rivolta di Jenin, palestinesi e israeliani sono venuti a consegnarci una targa per ricordare l’umanità con cui li abbiamo curati”.

Che cosa pensa della convivenza fra cattolici e musulmani?

“Commettiamo l’errore di guardare agli islamici con la nostra mentalità. Per questo non riusciamo a capirli. Per esempio, paragoniamo le loro moschee alle nostre chiese. Non è così. La moschea, più che luogo di culto, è un centro di ritrovo sociale, è più politica che religione. Per entrare in dialogo con loro dobbiamo dire con chiarezza chi siamo, senza paura, senza nasconderci. Gli islamici non hanno rispetto per il nulla. E noi col nostro buonismo questo sembriamo, ai loro occhi: il nulla. Il fatto che gli occidentali non credano in niente è il vero scandalo per loro. Il mio ospedale è zeppo di crocifissi ma nessuno, né musulmano né ebreo, s’è mai sognato di chiederci di staccarli dalle pareti. Dobbiamo testimoniare chi siamo, non nasconderci. Chi ha un’identità è rispettato”.

Lei ha adottato precauzioni particolari per la sicurezza?

“No. Però il pericolo permanente ti modifica nell’inconscio. Quando torno in Italia e vedo un assembramento di persone negli aeroporti o nelle stazioni ferroviarie, d’istinto giro al largo: senza volerlo, ho imparato a considerare un capannello di gente un possibile obiettivo terroristico”.

Chi sta pagando il prezzo più alto?

“Tutti. La gente normale. Israeliani e palestinesi. Sono tutti stanchi di questa follia. In ospedale la responsabile dell’accettazione è ebrea. Il marito è stato richiamato come riservista per due settimane. Al ritorno dai Territori occupati la figlioletta di 4 anni gli ha chiesto: “Papà, chi hai ucciso?”. Non erano preparati a una domanda come questa. Le pare una cosa da poco?”.

I kamikaze si possono fermare?

“No, senza la collaborazione delle autorità palestinesi no”.

Chi deve smettere per primo?

“Ci vuole un atto di coraggio da parte di entrambi. Il coraggio di non essere schiavi dell’estremismo. La stragrande maggioranza della gente chiede solo una vita normale, ma è ostaggio d’una minoranza di fanatici”.

Riusciranno mai a mettersi d’accordo?

“Appena arrivato, dicevo: peggio di così non può andare. Adesso non lo dico più. Secondo me fra israeliani e palestinesi è in corso una trattativa all’orientale, sotterranea. Ma il mondo interferisce di continuo. C’è troppa attenzione sul Medio Oriente. Io capto via satellite i telegiornali che si vedono in Italia e sono francamente sconcertato dal diluvio quotidiano di notizie. Se il mondo smettesse per due anni di occuparsi della faccenda, sono sicuro che troverebbero un accordo in quattro e quattr’otto. Ma sotto la lente d’ingrandimento dei mass media ogni concessione rischia d’apparire eccessiva. E così si disfa di notte la tela tessuta di giorno”. […]

Un giorno tornerà a lavorare in Italia?

“Da economista attento ho investito sulla città delle tre persone che hanno contato di più nella storia dell’umanità: Gesù, Maria e Giuseppe. Mi sembra un investimento a lungo termine, lei che dice?”.

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L’ospedale diretto da Giuseppe Fraizzoli, nel sito web dei Fatebenefratelli:

> Holy Family Hospital of Nazareth