(l’Espresso) Cina: riavvicinamento tra Chiesa ufficiale e clandestina

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Nuovi vescovi per la Cina di domani
Sono approvati dal governo e hanno il tacito consenso di Roma. Riconciliano le due Chiese, l’ufficiale e la clandestina. Ma sul futuro del cristianesimo nel Celeste Impero in Vaticano c’è molta cautela

di Sandro Magister  ROMA, 16 agosto 2005 – Tra i giovani confluiti a Colonia per la Giornata Mondiale della Gioventù – la prima del pontificato di Benedetto XVI – ve ne sono anche della Cina: un centinaio appartenenti alla Chiesa cattolica “sotterranea”, non riconosciuta dal regime di Pechino e perseguitata, e altri appartenenti alla Chiesa “patriottica”, quella ufficialmente registrata e sottoposta a ferreo controllo.

Anche a precedenti GMG avevano preso parte dei cinesi. A Manila, nel 1995, la Chiesa ufficiale aveva inviato un suo gruppo di sacerdoti e fedeli. Ma vista sventolare la bandiera di Taiwan sul piazzale, il segretario dell’Associazione Patriottica, che li guidava, aveva loro ordinato di disertare la messa celebrata da Giovanni Paolo II.

A Colonia però non si prevedono incidenti del genere. Da qualche mese, piccoli segnali fanno intuire che tra il governo di Pechino e la Chiesa di Roma c’è tregua: una tregua comunque armata, con numerosi vescovi e sacerdoti che continuano a restare in prigione, per i quali la Santa Sede eleva di tanto in tanto la sua protesta pubblica, l’ultima con un comunicato dello scorso 2 aprile.

Soprattutto vi sono segni di crescente avvicinamento tra le due comunità cattoliche della Cina: la clandestina, con 8 milioni di fedeli, e la patriottica, con 4 milioni, quest’ultima creata dalle autorità cinesi nel 1957 con l’intenzione di dar vita a una Chiesa nazionale separata da Roma, con vescovi non approvati dal papa.

Lo scorso 3 agosto, 22 sacerdoti della Chiesa cinese patriottica sono stati salutati personalmente da Benedetto XVI al termine dell’udienza pubblica che il papa tiene ogni mercoledì a Roma. Il gruppo era reduce da un corso di due settimane nell’abbazia benedettina di St. Ottilien, in Baviera, la regione natale di Joseph Ratzinger, e da un più breve soggiorno in un’altra abbazia benedettina, quella di Camaldoli. L’udienza col papa non faceva parte del loro programma iniziale ed ha sicuramente avuto il benestare dell’Associazione Patriottica. I 22 sacerdoti erano tutti dirigenti di seminario, di 12 diverse diocesi cinesi. È prevedibile che alcuni di essi, nei prossimi anni, saranno nominati vescovi: con le procedure della Chiesa ufficiale ma anche, di fatto, con il consenso della Santa Sede.


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Attualmente i vescovi cattolici in Cina sono 120. Di essi 46 appartengono alla Chiesa sotterranea e 74 alla Chiesa patriottica. I primi sono in comunione piena con Roma. Ma anche una parte larga e crescente dei secondi si professano uniti al papa e hanno ricevuto da Roma un riconoscimento di fatto.

L’ultimo grosso tentativo del regime di Pechino di rafforzare una Chiesa nazionale separata da Roma risale a più di cinque anni fa. Per il 6 gennaio 2000 le autorità cinesi avevano programmato l’ordinazione simultanea di 12 nuovi vescovi. Ma poi 7 dei prescelti rifiutarono d’essere consacrati senza l’approvazione della Santa Sede. Ai 5 restanti fu comunicato un falso assenso papale e furono ordinati, in una chiesa semivuota.

Non solo. Nei mesi successivi, mentre a Roma si celebrava l’Anno Santo, tra i cattolici cinesi sia clandestini che ufficiali fervevano i preparativi comuni per la canonizzazione di 120 martiri della Cina, decisa da Giovanni Paolo II per il 1 ottobre.

Il riavvicinamento in atto tra le due comunità cattoliche della Cina allarmò molto le autorità di Pechino. Per bloccarlo, lanciarono una campagna contro la canonizzazione dei martiri cinesi, denunciando come una “provocazione intollerabile” la coincidenza della data prescelta da Roma per il rito, il 1 ottobre, con la festa nazionale cinese. Giovanni Paolo II scrisse una lettera personale al presidente Jiang Zemin, per spiegare che la canonizzazione intendeva onorare il popolo cinese. Non ebbe risposta.

Ma nemmeno quella campagna ebbe effetto. La riconciliazione tra clandestini e patriottici è proseguita. E a partire dall’autunno del 2004 le ordinazioni di nuovi vescovi appartenenti alla Chiesa ufficiale sono tutte avvenute con il consenso di Roma.

Tale consenso non è mai stato espresso in forma ufficiale. Il Vaticano tace, ma parlano i fatti.

Ad esempio, il nuovo vescovo patriottico di Zhanjiang, nel Guangdong, Paolo Su Yongda, consacrato il 9 novembre 2004, ha fatto capire di essere in comunione col papa scegliendo come suo motto la frase latina “Duc in altum”, prendi il largo, cara a Giovanni Paolo II per indicare lo slancio missionario della Chiesa del terzo millennio (cfr. la lettera apostolica “Novo Millennio Ineunte” del 6 gennaio 2001).

Oltre a questo, altri due vescovi patriottici ordinati nel 2004 hanno fatto sapere d’essere stati approvati da Roma. Ma le nomine più importanti sono avvenute quest’anno.


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La prima il 28 giugno. Nella cattedrale di Shanghai è stato ordinato vescovo ausiliare Giuseppe Xing Wenzhi, 42 anni, prevedibile successore dell’attuale titolare della diocesi, il quasi novantenne Aloysius Jin Luxian (i due nella foto).

L’approvazione di Roma non è stata resa pubblica, durante il rito dell’ordinazione. “Ma lo sapevano tutti”, ha confermato il vescovo di Shanghai, Jin Luxian, in una successiva intervista al mensile “30 Giorni”. E ha aggiunto che anche lui, Jin, è stato con questo atto riconosciuto dal papa come vescovo legittimo: “Perché Roma ha chiesto espressamente che fossi io il vescovo consacrante”. Il tutto sarebbe avvenuto non per iscritto ma a voce: “Perché in queste cose è il modo più discreto”.

Ma l’ordinazione del nuovo ausiliare di Shanghai è emblematica anche del riavvicinamento tra Chiesa patriottica e Chiesa sotterranea. A Shanghai c’è anche un vescovo clandestino, Giuseppe Fan Zhongliang, che è molto malato. Fan e Jin, entrambi gesuiti, erano negli anni Cinquanta stretti collaboratori dell’allora vescovo della città, Ignazio Gong Pinmei, anch’egli gesuita. Quando il regime maoista e poi la Rivoluzione Culturale annientarono la diocesi, furono tutti incarcerati. Liberati anni dopo, presero strade diverse. Fan scelse la clandestinità, Jin optò per la Chiesa ufficiale e fu creato vescovo reggente della diocesi. Il cui titolare, l’irriducibile Gong Pinmei, restava in libertà vigilata e alla fine fu costretto all’esilio, negli Stati Uniti, dove poi morì. Giovanni Paolo II lo fece cardinale “in pectore” nel 1979 e gli conferì la porpora nel 1988.

Ebbene, oggi i percorsi dei vescovi Jin e Fan si ricongiungono. Entrambi avranno come unico successore il nuovo ordinato, Xing Wenzhi. Ai cattolici sotterranei di Shanghai la Santa Sede lo ha già fatto sapere.


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La seconda ordinazione importante di quest’anno è avvenuta il 26 luglio a Xian, culla del cristianesimo in Cina a partire dal VII secolo. Qui è vescovo della città Antonio Li Duan, 78 anni, una delle figure più rispettate ed amate dai cattolici cinesi, sia ufficiali che clandestini. Li Duan è vicepresidente del Collegio dei vescovi cinesi (la conferenza episcopale controllata dal regime) ma gode da anni dell’approvazione di Roma, al punto che potrebbe essere stato lui il cardinale “in pectore” annunciato da Giovanni Paolo II nel suo ultimo concistoro.

Ma Li Duan è molto malato. E per succedergli ha scelto e consacrato vescovo, il 26 luglio, un uomo di sua fiducia, Antonio Dang Mingyan, 38 anni. La procedura è stata la stessa con cui è stato nominato l’ausiliare di Shanghai. Prima, in segreto, la scelta del candidato da parte del vescovo titolare della diocesi, d’intesa con Roma. Poi – come è regola per la Chiesa patriottica – la sua elezione a maggioranza da parte di rappresentanti dei sacerdoti, delle suore e dei laici della diocesi. Poi l’approvazione da parte del Collegio dei vescovi cinesi e del governo. Infine la consacrazione.

Tra Roma e Pechino, dunque, per le ultime nomine non vi è stata nessuna trattativa diretta. Le autorità cinesi continuano ad attenersi al principio di una Chiesa nazionale “indipendente, autonoma e autofinanziata”, che i suoi vescovi se li elegge da sé. Da sempre il regime comunista cinese – l’ultima volta nei giorni della morte di Giovanni Paolo II – pone alla Santa Sede due condizioni pregiudiziali per aprire qualsiasi trattativa: che non si intrometta negli affari interni della Cina, anche religiosi, e che rompa le relazioni diplomatiche con Taiwan.

Per questo, sulla nomina dei vescovi, Roma agisce col massimo della riservatezza, e per via esclusivamente unilaterale.

Quanto a Taiwan, La Santa Sede ha già fatto capire d’essere pronta a riportare la nunziatura da Taipei a Pechino, dov’era prima dell’avvento di Mao. Ha preparato alla svolta sia il governo che i cattolici di Taiwan, con i quali manterrà comunque dei rapporti di fatto. Ma “sarà opportuno compiere questo passo non prima ma dopo che Pechino avrà assicurato una genuina libertà religiosa”, ha avvertito il vescovo di Hong Kong, Giuseppe Zen.


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La questione Cina è certamente uno dei capitoli più scottanti del pontificato di Benedetto XVI. E le autorità della Santa sede intendono affrontarlo con estrema prudenza.

A riprova di tale prudenza c’è il silenzio degli organi ufficiali vaticani. “La Civiltà Cattolica” – la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il controllo della segreteria di stato – ha dedicato quest’anno alla Cina solo un articolo relativo al futuro del partito comunista, sul numero del 4 giugno 2005.

Al contrario, si è distinta per loquacità la Comunità di Sant’Egidio, che in primavera ha pubblicizzato alcune sue mosse su importanti quotidiani di tutto il mondo: in Italia “la Repubblica” (13 aprile), negli Stati Uniti “The New York Times” (17 maggio), in Francia “Le Figaro” (28 maggio). In realtà, ha commentato padre Bernardo Cervellera, direttore di “Asia news” e sinologo: “Le nostre fonti, il vescovo di Hong Kong, lo stesso portavoce del ministero degli esteri cinese hanno corretto le visioni ottimistiche trasmesse da questi articoli, che a me sembrano delle vere e proprie ‘bufale’”.

Cervellera ha vissuto per anni in Cina, è stato direttore dell’agenzia della congregazione vaticana per l’evangelizzazione dei popoli, “Fides”, e fa parte del Pontificio Istituto Missioni Estere, che attualmente ha 35 suoi missionari a Hong Kong.

Uno di questi è padre Gianni Criveller, il quale collabora all’Holy Spirit Study Centre di Hong Kong, uno dei migliori osservatorii al mondo sul cristianesimo in Cina.

Ecco qui di seguito un suo commento – apparso sul mensile del PIME, “Mondo e Missione”, giugno-luglio 2005 – a proposito di un libro che ha fatto molto discutere, “Jesus in Beijing”, di David Aikman:


Pechino nuova Antiochia? Un pronostico molto azzardato

di Gianni Criveller


C’è un libro, anzi, un caso editoriale, che rischia di provocare ripercussioni politiche. Pubblicato nel 2003 negli Stati Uniti da Regnery Publishing, “Jesus in Beijing” ha fatto scalpore, è spesso citato da chi scrive su cose cinesi, e ha forse contribuito ad impensierire le autorità comuniste, soprattutto quelle preposte al controllo dell’istruzione, circa il ruolo del cristianesimo nella Cina di oggi. L’autore, David Aikman, è stato corrispondente da Pechino per una rivista importante come “Time”. Il sottotitolo sintetizza l’ardita tesi del libro: “Come il cristianesimo sta trasformando la Cina e cambiando gli equilibri del potere mondiale”.

Aikman descrive il cristianesimo come un fenomeno in veloce diffusione […]. Quando nel 1949 il partito comunista prese il potere in Cina i cristiani erano solo quattro milioni: tre milioni i cattolici, un milione i protestanti. Ora, secondo Aikman, nonostante i forsennati tentativi di sradicare la religione durante il regime di Mao, i cristiani sarebbe oltre 80 milioni: una crescita esponenziale, di cui la stragrande maggioranza, 70 milioni, protestanti.

Nelle previsioni di Aikman, nei prossimi trent’anni ben un terzo della popolazione cinese potrebbe diventare cristiana, facendo della Cina la più grande nazione cristiana dell’umanità. Non solo, sempre secondo Aikman, sarà possibile che i leader della Cina diventino essi stessi cristiani.

La rivoluzione sarà tale che la Cina, dopo essere stata cambiata dal cristianesimo, cambierà a sua volta il cristianesimo.

A questo punto – nel suo schema – Cina e Stati Uniti da avversari diverranno amici, dando vita a una potente alleanza cristiana, in grado di opporsi alle minacce del mondo islamico radicale. Addirittura la conversione al cristianesimo del mondo islamico, impossibile ai cristiani occidentali, verrà operata dai cristiani cinesi! Aikman non manca di supportare le sue sorprendenti visioni con l’impiego di paralleli storici, come il ruolo del cristianesimo nella caduta dell’impero romano e della sua sostituzione. Le comunità cinesi sono paragonate a quelle dei primi cristiani. Miracoli, prodigi e segni soprannaturali sono frequenti. Il modo di diffusione del Vangelo è simile a quello dei tempi apostolici. Esistono punti di alta concentrazione evangelica, da cui parte l’espansione missionaria. Uno di questi luoghi è la città di Wenzhou, nella provincia dello Zhejiang, definita l’”Antiochia della Cina”, dal nome della città di partenza delle missioni dell’apostolo Paolo.

Le teorie di Aikman sono basate su interviste a leader delle Chiese cristiane, inclusi coloro che guidano le “chiese domestiche” dei protestanti. L’autore si riferisce anche al pensiero di un gruppo di studiosi cinesi, definiti “cristiani culturali” poiché provengono dal mondo accademico e mostrano interesse e persino simpatia per il cristianesimo. Aikman fa riferimento inoltre al numeroso gruppo di “missionari nascosti”, provenienti da confessioni evangeliche nordamericane e nordeuropee, e da paesi asiatici. Ma quale attendibilità hanno le affermazioni degli interlocutori di Aikman, alcuni dei quali asseriscono di parlare direttamente con Dio e di sperimentare prodigi quotidianamente?

Quanto alla credibilità delle argomentazioni, basta prendere il caso del capitolo dedicato alla Chiesa cattolica. Si basa in parte sull’intervista a un controverso sacerdote di Pechino, conosciuto molto bene da tutti coloro che hanno familiarità con le cose della Chiesa cattolica in Cina. Ebbene questo sacerdote non rappresenta in nessun modo una voce autorevole – e nemmeno credibile – del cattolicesimo cinese. Il capitolo dedicato alla Chiesa cattolica delude profondamente chiunque conosca qualcosa del cattolicesimo cinese.

Appare francamente incredibile, se non ridicolo, l’episodio in cui Jiang Zemin – che dal 1989 al 2004 fu l’uomo forte della Cina – rivelò a pochi intimi che intendeva fare del cristianesimo la religione ufficiale della Cina! I politici devono essere giudicati per le loro azioni e non per ipotetiche frasi segrete conosciute da pochi intimi. Nei fatti Jiang Zemin ha continuato ad applicare una politica di totale controllo e manipolazione del partito comunista su tutte le religioni. Ha perso un’occasione storica, la buona stabilità degli anni Novanta, per avviare le riforme politiche, civili e religiose richieste dalla gente, in particolare nelle ampie manifestazioni popolari soppresse nel sangue del giugno del 1989. Jiang Zemin è direttamente responsabile della crudele persecuzione del movimento Falungong, che ha causato migliaia di morti, carcerazioni, torture e sofferenze.

Il libro forza troppo in una direzione prestabilita (annunciare il futuro cristiano della Cina), con poca preoccupazione di obiettività e scientificità. L’ispirazione del libro sembra essere eccessivamente debitrice all’entusiasmo missionario del cristianesimo evangelical. […]

Le cifre proposte da Aikman dovrebbero essere prese con maggiore cautela. Gli evangelical più entusiasti amano dire che ci sono 100 milioni di cristiani in Cina: in realtà nessun osservatore attento e obbiettivo si direbbe d’accordo su questa cifra. Volendo essere ottimisti, i cristiani in Cina potrebbero attestarsi sui 30 milioni, una cifra rispettabile, ma sempre straordinariamente piccola in una Cina che conta più di 1.300 milioni di abitanti. Inoltre temo che la cosiddetta “febbre cristiana”, che ha percorso la Cina soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, sia un fenomeno in regressione. Infine va detto che il numero dei cattolici in Cina, a partire dagli ultimi cinque o sei anni, non sta più registrando significativi aumenti.

Il cristianesimo incontrerà più difficoltà che vantaggi nel prossimo futuro. La sfida della modernizzazione, che si traduce in quello che chiamiamo secolarizzazione, costituisce una difficoltà formidabile. I cattolici di Cina ne saranno seriamente colpiti.

Se ne vedono già alcuni elementi: calo delle vocazioni, drammatico nelle grandi città; abbandono del ministero da parte di molti preti; poca partecipazione di giovani alla vita ecclesiale. Con poche eccezioni, le chiese di Cina sono quasi disertate dai giovani, almeno nei centri urbani. I giovani cattolici che lasciano le campagne per trovare lavoro in città, molto spesso abbandonano la pratica religiosa. C’è il reale timore che si verificherà una difficoltà nella trasmissione della fede da una generazione che l’ha ricevuta e trasmessa sotto la persecuzione, alla generazione della modernizzazione, ubriacata dalla corsa al denaro.

Circa la questione dei “cristiani culturali”, ovvero degli studiosi simpatetici verso il cristianesimo, le speranze di Aikman sono eccessive. Tale fenomeno certamen-te esiste ed è interessante. L’elemento più positivo è che per la prima volta, dai tempi del gesuita Matteo Ricci (XVI secolo), il cristianesimo è visto con favore da alcuni intellettuali provenienti dai centri più importanti del mondo accademico. Ma esso rimane, dal punto di vista numerico, ristretto ad una piccola cerchia di intellettuali. L’influenza che essi esercitano nella società è assai limitata; è vero che i loro libri si trovano nelle librerie, ma sono stampati in poche migliaia di copie. […]

Verso la fine del 2004 le autorità di Pechino avrebbero allertato varie università circa il pericolo di infiltrazioni di “missionari nascosti” tra gli studenti e gli insegnanti stranieri. Sarebbero state date disposizioni per un maggior controllo dell’insegnamento e delle attività degli stessi insegnanti. Forse è una conseguenza dell’allarme che il libro di Aikman e altri articoli con la stessa impostazione ideologica suscitano nelle autorità della Repubblica Popolare Cinese. Coloro che invece, con serietà, costanza e fede nella Provvidenza, seguono e sostengono la causa del cristianesimo in Cina, non hanno bisogno di tali esaltate visioni.