Diario Vaticano E spuntano le prime voci di miracolo
L’altare della gente: santo a furor di popolo
Qualcuno ha detto che bastava vederlo prostrato a pregare per rendersi conto di quale fosse la fede che lo pervadeva
di Vittorio Messori
Nell’articolo con cui, sabato, cercavo di abbozzare una sintesi di questo pontificato, azzardavo tra l’altro due ipotesi che, da quel che vedo, sono state subito accolte dal sistema dei media. Forse, perché esprimevano ciò che è tanto evidente da sfiorare l’ovvietà.
Scrivevo, innanzitutto, che la storia attribuirà probabilmente a Giovanni Paolo II quell’aggettivo di Magnus, «il Grande », che è stato riconosciuto a ben pochi papi nella storia della Chiesa. Dicevo, poi, che non occorre essere profeti ma, semplicemente, realisti nel prevedere che il nuovo papa avrà tra i suoi primi impegni uno cui si dedicherà con sollecitudine e gioia.
Istruire, cioè, la pratica per l’avvio del processo di beatificazione di Karol Wojtyla. Aggiungevo, scrivendo quando era ancora in corso l’agonia: «Già lo vediamo in queste ore: nelle chiese non è tanto “per lui”, è “lui” che si prega. E’ solo l’inizio, vedrete, di una devozione che andrà sempre crescendo e che accompagnerà il futuro di moltitudini, nel mondo intero». In effetti, ecco subito le colonne in fila sotto il sole e al lume della luna e per le quali non bastano la vastità di piazza San Pietro e la lunghezza di via della Conciliazione ma dilagano, sino a bloccarlo, sul lungotevere.
Scrivevo, innanzitutto, che la storia attribuirà probabilmente a Giovanni Paolo II quell’aggettivo di Magnus, «il Grande », che è stato riconosciuto a ben pochi papi nella storia della Chiesa. Dicevo, poi, che non occorre essere profeti ma, semplicemente, realisti nel prevedere che il nuovo papa avrà tra i suoi primi impegni uno cui si dedicherà con sollecitudine e gioia.
Istruire, cioè, la pratica per l’avvio del processo di beatificazione di Karol Wojtyla. Aggiungevo, scrivendo quando era ancora in corso l’agonia: «Già lo vediamo in queste ore: nelle chiese non è tanto “per lui”, è “lui” che si prega. E’ solo l’inizio, vedrete, di una devozione che andrà sempre crescendo e che accompagnerà il futuro di moltitudini, nel mondo intero». In effetti, ecco subito le colonne in fila sotto il sole e al lume della luna e per le quali non bastano la vastità di piazza San Pietro e la lunghezza di via della Conciliazione ma dilagano, sino a bloccarlo, sul lungotevere.
Ecco arrivare dal Sud America le prime voci di miracoli: tutte da verificare, naturalmente, ma che segnalano gli inizi di un culto che era scontato prevedere. Significativo anche che sia stata attribuita alla Polonia l’intenzione di ottenere, se non il corpo, almeno una reliquia importante di questo suo figlio: la venerazione della carne destinata alla risurrezione accompagna sin dagli inizi il culto della santità.
In effetti, a differenza di quanto molti credono, non è affatto la Chiesa che «fa» i santi. Questi, li «fa» il popolo di Dio, li fa il sensus fidei dei credenti, li «fa» la venerazione che circonda un cristiano in vita e poi attira sulla sua tomba i devoti. Nel secolo appena compiuto, padre Pio da Pietrelcina ne è l’esempio più chiaro: è stata la pressione della gente che ha vinto le diffidenze, le difficoltà, i timori della Chiesa gerarchica, sempre in allarme (com’è, del resto, suo dovere) davanti a figure carismatiche, incontrollabili perché in contatto diretto con il Mistero. Alla fine, per sbloccare la situazione, occorse proprio Giovanni Paolo II: ma anch’ egli, in fondo, come devoto prima ancora che come Papa, visto che—ottenendo con una semplice lettera a quel Cappuccino la guarigione di una donna della sua diocesi — ne aveva sperimentato la misteriosa potenza di intercessione. Per stare ai pontefici recenti, qualcosa di simile è avvenuto per Giovanni XXIII di cui le folle—che, per la prima volta nella storia della Chiesa potevano vedere in televisione i Successori di Pietro — intuirono la santità e la imposero a un ambiente ecclesiastico non unanime sulla opportunità di glorificare Angelo Maria Roncalli.
Del resto, nei primi secoli del cristianesimo bastava la semplice, unanime venerazione popolare a determinare gli onori dell’ altare per un battezzato defunto. Soprattutto se era morto per mano dei persecutori, se era dunque un martire. Coll’aumentare delle dimensioni della cristianità, si verificarono abusi, per cui la cosa passò prima ai vescovi e poi ai pontefici, sino ai rigorosi procedimenti, nel Settecento, stabiliti da Papa Lambertini. Procedimenti modificati, nella linea di una maggiore semplificazione, giusto da Papa Wojtyla che anche qui batté un record, come numero di beatificazioni e canonizzazioni. Però, pure nell’avocazione da parte dell’ autorità suprema, rimase invariato il principio: l’intervento della Gerarchia inteso con una constatazione, per verificarla e disciplinarla, della vox populi.
Ma chi è un «Santo»? Interessante quanto osserva una delle più autorevoli fonti cattoliche, il monumentale Dictionnaire de Spiritualité. Vale la pena citarlo perché sfata una convinzione diffusa: «Presentare il Santo come una donna o un uomo assolutamente senza difetti e mancanze, come sogliono fare molti agiografi, è antidogmatico, antistorico e, ancor più, antipedagogico». In effetti, già il Concilio di Trento aveva decretato che «l’assenza totale di peccato, almeno veniale, in una creatura è impossibile, a meno di uno speciale privilegio di Dio, come nella Concezione Immacolata della Vergine Maria » .
I Santi, dunque, persone come noi; ma che, a differenza di noi, in ogni occasione e circostanza si sono sforzati, riuscendovi, di vivere la virtù da cui tutte le altre derivano e dipendono: la carità, cioè l’amore di Dio e degli uomini. E’ proprio questo amore che le folle sembrano avere colto nel primo slavo giunto sul Soglio di Pietro. Non sta certo a noi, è chiaro, anticipare giudizi ai quali la Chiesa perviene attraverso il rigoroso esame degli atti e degli scritti, vagliati da quella « fabbrica dei Santi» che è l’apposita Congregazione della Santa Sede. E’ comunque un fatto che è parso evidente a tutti il legame continuo di quest’uomo con quel Dio che era chiamato a testimoniare.
Qualcuno ha detto che bastava vederlo prostrato a pregare per rendersi conto di quale fosse la fede che lo pervadeva. Una tale fede che, come scrissi nel prologo a «Varcare la soglia della Speranza», si poteva quasi dire che quest’uomo non avesse bisogno di «credere»: per lui, in effetti, i contenuti della fede sembravano essere un’evidenza tangibile. Che il Dio che si è incarnato in Gesù Cristo viva e agisca nella storia, il cristiano Karol Wojtyla in qualche modo pareva sentirlo, toccarlo, sperimentarlo. Come per ogni mistico la fede, in lui, aveva ormai raggiunto l’evidenza. Ciò che per noi, credenti mediocri, può essere motivo di dubbio o di problema, per lui sembrava essere un dato di fatto oggettivamente riscontrabile. Non un «merito», sia chiaro, ma un dono: un carisma, comunque, colto da tutti coloro che lo hanno visto muoversi e parlare, anche solo in pubblico. Ignorando, dunque, come quella sua attività instancabile fosse sorretta da almeno due ore di preghiera quotidiana solitaria, intensissima sin dalla posizione, spesso «alla slava». Sdraiato bocconi, dunque, sul pavimento della sua cappella privata.
Su questo amore di Dio si radicava un amore per i figli di Dio— tutti, senza eccezione — che lo ha spinto, tra l’altro, a moltiplicare i viaggi per il mondo, per portare a quanti più possibile il messaggio di quella Speranza che lo pervadeva. Che l’ardore della carità sorreggesse il suo ministero papale (come già, prima, quello sacerdotale ed episcopale) era evidente e ancor più si preciserà, ne sono certo, man mano che emergeranno le testimonianze. Ciascuno ne ha colto qualche aspetto, secondo la sua sensibilità e il suo temperamento. Per quanto mi riguarda ,mi sembra che l’amore che ha cercato di donare sia emerso in modo ancor più chiaro in quella volontà di portare la croce del suo ministero sino all’ultimo. Se mi è lecita, qui, una confidenza: pur non facile alle emozioni, restio al pianto, le lacrime mi hanno insidiato vedendolo in una di quelle strazianti apparizioni alla finestra. Erano i giorni pasquali e nulla poteva più dire ai figli che lo acclamavano sulla piazza o lo guardavano alla televisione. E allora, non potendo parlare, ha inventato un gesto: un rametto di olivo agitato a lungo, in segno di saluto, in una movenza di commovente infanzia evangelica. Un’ultima benedizione, un ultimo saluto, un ultimo segno di quell’amore che, per l’appunto, fa i santi.
Null’altro poteva più offrire, se non quel suo corpo ridotto all’estrema impotenza. Ci ha donato tutto ciò che gli rimaneva. Deciderà, a suo tempo, la Chiesa. Molti, però, hanno già anticipato quel giudizio: e non mancano loro le ragioni per farlo.
In effetti, a differenza di quanto molti credono, non è affatto la Chiesa che «fa» i santi. Questi, li «fa» il popolo di Dio, li fa il sensus fidei dei credenti, li «fa» la venerazione che circonda un cristiano in vita e poi attira sulla sua tomba i devoti. Nel secolo appena compiuto, padre Pio da Pietrelcina ne è l’esempio più chiaro: è stata la pressione della gente che ha vinto le diffidenze, le difficoltà, i timori della Chiesa gerarchica, sempre in allarme (com’è, del resto, suo dovere) davanti a figure carismatiche, incontrollabili perché in contatto diretto con il Mistero. Alla fine, per sbloccare la situazione, occorse proprio Giovanni Paolo II: ma anch’ egli, in fondo, come devoto prima ancora che come Papa, visto che—ottenendo con una semplice lettera a quel Cappuccino la guarigione di una donna della sua diocesi — ne aveva sperimentato la misteriosa potenza di intercessione. Per stare ai pontefici recenti, qualcosa di simile è avvenuto per Giovanni XXIII di cui le folle—che, per la prima volta nella storia della Chiesa potevano vedere in televisione i Successori di Pietro — intuirono la santità e la imposero a un ambiente ecclesiastico non unanime sulla opportunità di glorificare Angelo Maria Roncalli.
Del resto, nei primi secoli del cristianesimo bastava la semplice, unanime venerazione popolare a determinare gli onori dell’ altare per un battezzato defunto. Soprattutto se era morto per mano dei persecutori, se era dunque un martire. Coll’aumentare delle dimensioni della cristianità, si verificarono abusi, per cui la cosa passò prima ai vescovi e poi ai pontefici, sino ai rigorosi procedimenti, nel Settecento, stabiliti da Papa Lambertini. Procedimenti modificati, nella linea di una maggiore semplificazione, giusto da Papa Wojtyla che anche qui batté un record, come numero di beatificazioni e canonizzazioni. Però, pure nell’avocazione da parte dell’ autorità suprema, rimase invariato il principio: l’intervento della Gerarchia inteso con una constatazione, per verificarla e disciplinarla, della vox populi.
Ma chi è un «Santo»? Interessante quanto osserva una delle più autorevoli fonti cattoliche, il monumentale Dictionnaire de Spiritualité. Vale la pena citarlo perché sfata una convinzione diffusa: «Presentare il Santo come una donna o un uomo assolutamente senza difetti e mancanze, come sogliono fare molti agiografi, è antidogmatico, antistorico e, ancor più, antipedagogico». In effetti, già il Concilio di Trento aveva decretato che «l’assenza totale di peccato, almeno veniale, in una creatura è impossibile, a meno di uno speciale privilegio di Dio, come nella Concezione Immacolata della Vergine Maria » .
I Santi, dunque, persone come noi; ma che, a differenza di noi, in ogni occasione e circostanza si sono sforzati, riuscendovi, di vivere la virtù da cui tutte le altre derivano e dipendono: la carità, cioè l’amore di Dio e degli uomini. E’ proprio questo amore che le folle sembrano avere colto nel primo slavo giunto sul Soglio di Pietro. Non sta certo a noi, è chiaro, anticipare giudizi ai quali la Chiesa perviene attraverso il rigoroso esame degli atti e degli scritti, vagliati da quella « fabbrica dei Santi» che è l’apposita Congregazione della Santa Sede. E’ comunque un fatto che è parso evidente a tutti il legame continuo di quest’uomo con quel Dio che era chiamato a testimoniare.
Qualcuno ha detto che bastava vederlo prostrato a pregare per rendersi conto di quale fosse la fede che lo pervadeva. Una tale fede che, come scrissi nel prologo a «Varcare la soglia della Speranza», si poteva quasi dire che quest’uomo non avesse bisogno di «credere»: per lui, in effetti, i contenuti della fede sembravano essere un’evidenza tangibile. Che il Dio che si è incarnato in Gesù Cristo viva e agisca nella storia, il cristiano Karol Wojtyla in qualche modo pareva sentirlo, toccarlo, sperimentarlo. Come per ogni mistico la fede, in lui, aveva ormai raggiunto l’evidenza. Ciò che per noi, credenti mediocri, può essere motivo di dubbio o di problema, per lui sembrava essere un dato di fatto oggettivamente riscontrabile. Non un «merito», sia chiaro, ma un dono: un carisma, comunque, colto da tutti coloro che lo hanno visto muoversi e parlare, anche solo in pubblico. Ignorando, dunque, come quella sua attività instancabile fosse sorretta da almeno due ore di preghiera quotidiana solitaria, intensissima sin dalla posizione, spesso «alla slava». Sdraiato bocconi, dunque, sul pavimento della sua cappella privata.
Su questo amore di Dio si radicava un amore per i figli di Dio— tutti, senza eccezione — che lo ha spinto, tra l’altro, a moltiplicare i viaggi per il mondo, per portare a quanti più possibile il messaggio di quella Speranza che lo pervadeva. Che l’ardore della carità sorreggesse il suo ministero papale (come già, prima, quello sacerdotale ed episcopale) era evidente e ancor più si preciserà, ne sono certo, man mano che emergeranno le testimonianze. Ciascuno ne ha colto qualche aspetto, secondo la sua sensibilità e il suo temperamento. Per quanto mi riguarda ,mi sembra che l’amore che ha cercato di donare sia emerso in modo ancor più chiaro in quella volontà di portare la croce del suo ministero sino all’ultimo. Se mi è lecita, qui, una confidenza: pur non facile alle emozioni, restio al pianto, le lacrime mi hanno insidiato vedendolo in una di quelle strazianti apparizioni alla finestra. Erano i giorni pasquali e nulla poteva più dire ai figli che lo acclamavano sulla piazza o lo guardavano alla televisione. E allora, non potendo parlare, ha inventato un gesto: un rametto di olivo agitato a lungo, in segno di saluto, in una movenza di commovente infanzia evangelica. Un’ultima benedizione, un ultimo saluto, un ultimo segno di quell’amore che, per l’appunto, fa i santi.
Null’altro poteva più offrire, se non quel suo corpo ridotto all’estrema impotenza. Ci ha donato tutto ciò che gli rimaneva. Deciderà, a suo tempo, la Chiesa. Molti, però, hanno già anticipato quel giudizio: e non mancano loro le ragioni per farlo.
Vittorio Messori