Il taumaturgo e l’imperatore

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CARLO SGORLON, Il taumaturgo e l’imperatore, Oscar Mondadori, Italia, 2003, pp. 234, € 8,40

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Marco d’Aviano, il beato Marco d’Aviano protagonista di questo romanzo storico, fu frate cappuccino nel secolo XVII, predicatore celeberrimo, consigliere politico e diplomatico, amico di principi, re e imperatori, stimatissimo dal popolo cristiano (cattolico e protestante), percorse per tutta la vita le strade dell’Europa annunziando la parola di Dio e invitando gli uomini del suo tempo alla fede e alla penitenza, mentre il suo messaggio veniva garantito e rafforzato con il dono delle conversioni e delle guarigioni.  L’autore è l’italiano Carlo Sgorlon, nato a Cassacco, Udine, nel 1930. Grande narratore del nostro secolo (ricordiamo tra i tanti La conchiglia di Anataj (Premio Campiello, 1983); L’armata dei fiumi perduti (Premio Strega, 1985) ha scritto quest’opera “secondo la formula manzoniana delle opere miste di storia e di invenzione”, dando così spessore e vita poetica ad ogni fatto tramandato dalla storia della vita del taumaturgo Marco d’Aviano: dalla nascita della vocazione di frate cappuccino nel rapporto con i propri genitori e nell’incontro con il predicatore Padre Mariano, alla descrizione delle sue travolgenti doti oratorie di predicatore, lui che in gioventù era timido e quasi balbuziente, dal racconto di una serie di portenti da lui operati (tra i quali risalta la resurrezione di un bambino già morto da più giorni), alla sua passione autenticamente politica, cioè al servizio del popolo, che lo farà diventare consigliere e caro amico dell’imperatore Leopoldo d’Asburgo. Il risultato è un romanzo storico “personalissimo”, cioè tutto giudicato e rivissuto dal punto di vista del protagonista secondo una profonda immedesimazione dell’autore.
Il romanzo si innesta sullo sfondo del Seicento europeo, epoca di sanguinose guerre (su tutte la guerra dei Trent’anni), di capovolgimenti culturali (le scoperte di Galileo e Keplero) e religiosi (l’affermazione delle dottrine protestanti), in cui campeggiano l’arroganza francese del superbo Re Sole e quella spagnola di Filippo IV d’Asburgo.
In questo clima diviso e conflittuale era in pericolo l’indipendenza politica e soprattutto quella religiosa di tutta l’Europa: i turchi i massimi avversari di tutta l’Europa cristiana, giunti con un esercito di trecento mila uomini alle porte di Vienna, erano allora dominati da un unico progetto, quello di conquistare il continente ed annetterlo per intiero ai loro domini.
In questo contesto trova compimento la grande vocazione di Padre Marco, frate cappuccino difensore della cristianità e dell’Europa, che grazie al suo immenso carisma riuscì a riunificare parte degli eserciti cristiani sotto la guida di Janos Sobieski III, re elettivo di Polonia: riunì gli eserciti e prima della grande battaglia campale di Donau celebrò la Santa Messa per tutti i soldati, preparandoli con parole infuocate ed invocando su di loro il soccorso della Vergine Maria e del Dio degli Eserciti. Durante la battaglia resse una grande croce, aggirandosi tra i combattenti e infondendo loro coraggio, e nella memorabile giornata del 12 settembre 1683 i cristiani, seppur numericamente inferiori, soverchiarono l’esercito turco arrestandone e respingendone l’espansionismo.
Padre Marco d’Aviano fu dunque tante cose, ma certamente il momento più esaltante e vertiginoso della sua vita fu durante la battaglia di Vienna, nella quale si fece strenuo difensore della cristianità e dell’Europa dal pericolo di essere islamizzata, e la situazione attuale conferisce una sorprendente attualità a Padre Marco che, benché come cristiano, fosse un difensore della pace, non poté non farsi difensore della sua fede, delle sue tradizioni, delle sue radici storiche e quindi del suo popolo e della sua terra: anche per queste ragioni è stato riconosciuto Beato!

Francesco Lipari

Quel beato non piacerà all’Islam  
di Vittorio Messori

Il caso Marco d’Aviano

[Dal "Corriere della Sera", 14 Gennaio 2003]


I Patti Lateranensi sono chiari: piazza san Pietro è territorio vaticano, ma la responsabilità di mantenervi l’ordine spetta allo Stato italiano. Per questo le autorità ecclesiastiche stanno spiegando ai funzionari della nostra polizia – ottime persone, ma digiune di agiografia – perché occorrerà raddoppiare la vigilanza il prossimo 27 aprile. E non certo perché in quella domenica il Papa beatificherà don Giacomo Alberione, fondatore dei Paolini, e quattro religiose, fondatrici di altrettante congregazioni. Il fatto è che, rompendo gli indugi dopo anni di esitazione, a quei cinque candidati agli altari, Giovanni Paolo II ne ha aggiunto un sesto il cui nome, a più di tre secoli dalla morte, suscita ancora la venerazione di molti cattolici e il fremito d’ira di un certo mondo islamico. In effetti, quel giorno di aprile, salirà alla gloria padre Marco d’Aviano, cappuccino, che dal 1699 riposa, veneratissimo, nella viennese Cripta dei Cappuccini accanto agli imperatori asburgici. Renzo Martinelli, il giovane, rampante regista di Vajont, ha già in cantiere un film per la tv: «Senza di lui – dice – oggi le italiane, e non solo loro, porterebbero il burqa». Ne è convinto anche Carlo Sgorlon, che al religioso ha dedicato il bel libro Marco d’Europa. E Pasolini stesso, autore di un testo teatrale sulle atrocità dei turchi in Friuli, conosceva bene quel suo antico corregionale. La devozione popolare per lui è viva non solo nel nostro Nord Est ma in Austria, in Ungheria, in tutta la ex-Jugoslavia, dove la sua statua campeggia in molte piazze. 

A quella venerazione si contrappone l’ostilità di un fondamentalismo musulmano che non ha dimenticato che il sogno di un’Europa sottomessa ad Allah si infranse il 12 settembre del 1683 sotto le mura di Vienna, con l’assalto travolgente di una coalizione cristiana compattata e galvanizzata dalla parola infuocata di padre Marco. 

Tre, soprattutto, erano le cause di beatificazione «politicamente scorrette» che Giovanni Paolo II si è trovato sul tavolo. C’era, ovviamente, Pio IX, il Papa del Sillabo, di Porta Pia, del «caso Mortara». Le resistenze furono aggirate abbinando la glorificazione del «Papa cattivo» (stando alla tenace leggenda nera) a quella del «Papa buono» per definizione. Un esorcismo che strappò un sorriso agli addetti ai lavori: sapevano bene, infatti, che la venerazione di Giovanni XXIII per Pio IX era tale che Roncalli aveva previsto di terminare il Concilio proprio con la beatificazione per acclamazione del suo predecessore ottocentesco. C’era poi – e c’è ancora – l’altra causa spinosa. Quella di Isabella di Castiglia, la Regina Cattolica, invisa agli ebrei per l’espulsione dei marranos, agli islamici per la cacciata dei moriscos, ai liberali di ogni specie per l’Inquisizione. 

Da tempo, è in corso uno scontro di lobbies: ai potenti gruppi avversi alla grande sovrana si contrappongono i suoi devoti, riuniti attorno all’arcivescovo di Valladolid e a buona parte dell’episcopato sudamericano. In effetti – contrariamente, anche qui, agli schemi demagogici – proprio tra gli indios vigoreggia da sempre la devozione verso la regina che finanziò il viaggio di Colombo e iniziò la Conquista. Comunque, sinora la causa isabellina non è stata sbloccata ed è prevedibile che neppure la decisione e il coraggio di Papa Wojtyla verranno a capo in tempi brevi di un’avversione che unisce forze anticattoliche tanto potenti. 

E’ giunto ora in porto, invece, il lungo viaggio di Marco d’Aviano. Già a sedici anni, il futuro cappuccino, nato in Friuli nel 1631, fuggì dal seminario, contando di imbarcarsi per Candia dove i veneziani resistevano eroicamente all’assedio turco. Rimandato indietro prima ancora di partire e ordinato poi sacerdote, padre Marco si segnalò come oratore e, soprattutto, come taumaturgo: le sue prediche, richieste avidamente in tutta Europa, erano contrassegnate da continui prodigi. Lo stesso Imperatore Leopoldo d’Asburgo ne fece uno dei suoi più ascoltati consiglieri. 

A Vienna, il cappuccino ritornò nel 1683 in circostanze drammatiche: i Turchi avevano devastato tutti i Balcani e, messa a ferro e a fuoco l’Ungheria, giunsero a porre l’assedio alla capitale imperiale. I 150 mila guerrieri di Allah erano guidati dallo spietato Gran Visir, Kara Mustafà, il cui piano prevedeva l’islamizzazione dell’intera Europa Centrale. La Francia (come già a Lepanto) tradì la cristianità: mirando a indebolire l’Imperatore, il Re Sole era giunto a stringere patti con gli Ottomani. L’esercito che avrebbe dovuto liberare Vienna dall’assedio non comprendeva che 70 mila uomini, tra imperiali, polacchi guidati dal re Giovanni Sobiesky, bavaresi, sassoni, volontari italiani che avevano risposto all’appello disperato del Papa. Le truppe coalizzate non erano solo scarse, ma anche paralizzate dalle rivalità tra i capi. La situazione fu sbloccata, con prodigi di passione e di persuasione, proprio da padre Marco, inviato dal Papa e il cui prestigio era immenso non solo tra i cattolici ma anche tra le truppe protestanti. Su indicazione del cappuccino il comando fu assunto dal re di Polonia e l’esercito giunse in vista di Vienna quando la città, ormai allo stremo, stava per capitolare. All’alba del 12 settembre di quel 1683, il religioso celebrò la messa sul Kahlenberg, la collina che sovrasta la città, servito all’altare dai re e dai principi dei coalizzati. Dopo una predica infiammata, in un misto di italiano, tedesco, latino, tenendo alta la sua croce di legno, padre Marco si gettò in ginocchio, pregando, mentre le truppe andavano all’assalto. I cristiani erano la metà dei musulmani e, a differenza di questi, non avevano artiglieria, ma l’impeto con cui si gettarono sui soldati di Allah travolse ogni difesa. La battaglia fu violentissima e breve, in poche ore 20 mila turchi giacquero sul terreno e i superstiti fuggirono, abbandonando tutto, compreso l’harem "mobile" del Gran Visir. La minaccia islamica al cuore stesso dell’Europa era sventata. Il padre d’Aviano fu tra i primi ad entrare in Vienna liberata e celebrò nella cattedrale il Te Deum . Negli anni seguenti, la sua attività instancabile fu decisiva per la liberazione di Budapest e di Belgrado. Se i turchi furono incalzati e ricacciati verso Istanbul, il merito è della "Lega santa" nella quale il cappuccino era riuscito a fare entrare anche Venezia, come sempre ondeggiante e ambigua. Quando morì, nella sua povera cella singhiozzavano, in ginocchio, l’Imperatore e la consorte: vollero che l’umile religioso, cui si doveva la salvezza d’Europa, fosse ospitato nel loro mausoleo. 

Le circostanze tragiche fecero di Marco d’Aviano uno straordinario suscitatore di eroismi guerrieri, un abilissimo diplomatico per la causa dell’unità cristiana. Ma, in realtà, era un uomo di pace, del tutto alieno dagli intrighi della politica: un frate che visse fedele alla Regola francescana e che esercitò sino in fondo le virtù cristiane, sempre nostalgico della pace del chiostro. 

Buono e generoso, lontano da ogni fanatismo ed avverso a ogni crudeltà, sempre si affannò per salvare vite, per mitigare la sorte dei prigionieri, per esortare al perdono, alla misericordia, alla ricerca dell’accordo. Se intervenne nella mischia, non fu che per legittima difesa di una cristianità aggredita. Si spinse a consigliare piani strategici ai generali e trattati ai governanti, ma sempre e solo per allontanare la minaccia mortale sull’Europa cristiana. Non a caso i musulmani del suo tempo guardarono a lui con rispetto, se non con ammirazione. E’ solo il fondamentalismo recente che lo ha trasformato in un "nemico", tanto da costringere a misure straordinarie di sicurezza quando, tra pochi mesi, il Papa ne proclamerà finalmente, urbi et orbi, la gloria.

© Corriere della Sera