Quando i cinesi esportano il cristianesimo
di Massimo Introvigne (il Giornale, 27 luglio 2005)
A Ulan Bator, in Mongolia, incontro nella cattedrale cattolica da poco inaugurata un gruppo di fedeli dall’inequivocabile aspetto cinese. I cinesi sono ancora più numerosi nelle diverse chiese protestanti mongole, e sono ormai una componente familiare del panorama religioso asiatico, dalla Malaysia al Kazakhistan. Pochi sanno che un numero crescente di questi cinesi non sono all’estero solo per ragioni di lavoro. Si sono trasferiti con lo scopo esplicito di diffondere il cristianesimo.
Secondo le statistiche ufficiali del governo, in Cina ci sono circa venti milioni di cristiani. Gli studiosi pensano che sfiorino invece i cento milioni, in grande maggioranza parte della Chiesa cattolica clandestina fedele a Roma – il regime riconosce solo una «Chiesa patriottica» scismatica i cui vescovi sono nominati dal governo – e di una fitta rete di Chiese protestanti «sotterranee» che a loro volta rifiutano di fare parte dell’organizzazione protestante «ufficiale». Diversi sociologi pensano che, se cadessero i pesanti limiti tuttora posti alla libertà religiosa, la Cina potrebbe arrivare a un 25-30 per cento di cristiani, che farebbe del cristianesimo la prima religione del Paese e della Cina uno dei primi Paesi del mondo per numero di cristiani praticanti. Si aggiunge il fenomeno, oggetto di crescente interesse, dei «cristiani culturali», come li chiamano a Pechino: intellettuali laici – di un tipo presente anche in Italia – che non si convertono al cristianesimo ma ne hanno grande stima e lo considerano il motore di quanto di buono l’Occidente ha prodotto.
La Cina, da almeno dieci anni, non si limita a ospitare decine di milioni di cristiani. Ma esporta – insieme a magliette, computer e scarpe – anche cristianesimo. Movimenti indigeni cinesi come la «Chiesa locale», contano decine di migliaia di seguaci in Occidente, e sono presenti anche in Italia. Si è pure diffuso in Cina un movimento ecumenico cristiano che si chiama «Ritorno a Gerusalemme» e che organizza periodiche conferenze sul ruolo missionario della Cina cristiana. Vi si afferma che sia il mondo buddhista sia quello islamico sono difficilmente convertiti da missionari cristiani europei e americani che associano all’imperialismo occidentale, mentre missionari cinesi possono ottenere risultati migliori.
Qualcuno potrebbe restare scettico pensando ai pogrom anticinesi (che derivano però da ragioni economiche, non religiose) scatenati da musulmani in Indonesia e altrove. Tuttavia chi scrive ha visto nelle metropoli postmoderne e multietniche come Singapore o Kuala Lumpur più di un musulmano portato all’altare, prima in senso religioso e poi matrimoniale, da fidanzate cinesi cristiane. E i missionari cinesi pensano soprattutto di potere ripercorrere a ritroso la «via della seta», dalla Mongolia a Gerusalemme attraverso l’Asia Centrale, che è passata per la lotta del comunismo contro la religione, un’esperienza che i cristiani della Cina conoscono bene.
Questo contribuisce a spiegare il grande interesse di Benedetto XVI per la Cina, che considera una priorità del pontificato, e il lavoro diplomatico vaticano per riassorbire lo scisma della «Chiesa patriottica», molti vescovi della quale sono già segretamente in comunione con Roma. Tra l’altro, piuttosto rigido sul piano morale e conservatore in teologia, il cristianesimo cinese ammira l’anti-relativismo di Papa Ratzinger e farebbe da contrappeso a tendenze sincretistiche diffuse altrove in Asia.