(il Foglio) La scienza nasce durante lo scontro tra Chiesa e magia

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Il sole e la scrittura

Galileo voleva fare il teologo mentre la chiesa era alle prese con la magia e l’eliocentrismo

La tattica adottata, in extremis, dal Dalle
Colombe e dai suoi alleati, perdenti
sino ad allora grazie ai gesuiti, si rivela efficace.
La polemica sulla presunta inconciliabilità
tra copernicanesimo e Scritture
esplode per motivi non facili da comprendere
del tutto. Certo non è un caso che a
prestarsi al gioco siano due dominicani:
siamo nell’epoca in cui altri domenicani,
Giordano Bruno e Tommaso Campanella,
sostengono l’eliocentrismo “copernicano”,
ma in nome delle loro convinzioni magiche
ed astrologiche, al di fuori di qualsiasi
prospettiva scientifica. Si dimentica
troppo spesso che la nascita della scienza
è contemporanea ad un grande scontro
epocale, quello tra chiesa e visione magica
del mondo. Neoplatonismo, neopitagorismo
ed ermetismo rinascimentali, infatti,
non hanno portato solo un interesse verso
visioni matematiche, per il vero molto
simboliche ed astratte, ma anche per interpretazioni
del mondo in chiave animista,
e quindi magica. La “Città del Sole” di
Campanella è costruita in modo da captare
gli influssi astrali, e il sole vi appare
quindi come una vera divinità. Come ha
notato Paolo Rossi “i primi sostenitori della
verità copernicana non sono certo facilmente
inseribili tra i moderni o tra gli assertori
di un nuovo metodo scientifico”.
Giordano Bruno nel 1585 difende la teoria
di Copernico “sullo sfondo della magia
astrale e dei culti solari”, legandola alla filosofia
di Ficino, che non disdegnava presentarsi
come un sacerdote del culto solare.
Nel 1592 il Patrizi viene condannato
per aver sostenuto sì la rotazione della
Terra, ma all’interno di una visione secondo
la quale gli astri hanno vita spirituale
e intelligenza. Robert Recorde, John Dee
e Thomas Digges, che si richiamano tutti a
Copernico, sono accesi sostenitori dell’ermetismo
e dell’astrologia. La centralità
del sole è per loro sacrale, non fisica. Non
c’è da stupirsi allora se tra gli uomini di
chiesa, che combattono il revival magico e
la rinascente eliolatria, in nome della ragione,
e quindi della scienza, alcuni finiscano
per interpretare Copernico negativamente,
a causa delle strumentalizzazioni
che tanti ne avevano fatto.
In questo clima Galilei decide di difendersi
sul piano dell’esegesi, con l’aiuto di
due sacerdoti suoi allievi, padre Benedetto
Castelli, grande scienziato, e un barnabita.
Il succo delle “lettere copernicane” è
perfettamente ortodosso: la Sacra Scrittura
e la natura scaturiscono entrambe dal
“Verbo Divino”, “quella come dettatura
dello Spirito Santo, e questa come osservantissima
esecutrice degli ordini di Dio”.
Inoltre la Scrittura non deve essere sempre
interpretata alla lettera, sia perché si
rivolge al volgo, per essere da lui compresa,
sia perché, come aveva detto il cardinal
Baronio, il suo intento non è quello di
dire “come vadia il cielo” ma “come si vadia
in cielo”. Trovandosi però ad analizzare
il miracolo narrato in Giosuè 10, 11-13,
in cui Dio ferma il sole al fine di prolungare
il giorno, Galilei, ritiene di poter
adottare una posizione concordista, ritorcendo
contro i suoi avversari l’interpretazione
letteralista. Spiega cioè che il passo
in questione è compatibile con la teoria
copernicana e non con quella tolemaica.
Si tratta di una posizione già sostenuta in
passato, e, negli stessi anni, da un frate,
Antonio Foscarini, e che trova sostenitori
accreditati anche oggi. Le prime lettere di
Galilei, lungi dal placare le polemiche, le
ampliano, sino alla richiesta da parte di
cardinali amici, di non eccedere “i limiti
fisici o mathematici, perché il dichiarar le
Scritture pretendono i theologi che tocchi
a loro”, e di trattar quindi del sistema copernicano
“senza entrare nelle Scritture”.
Di fronte a questi inviti, che se accolti
avrebbero scongiurato qualsiasi contrasto,
Galilei risponde con altre due lettere, in
cui ritorna sul rapporto tra astronomia ed
esegesi biblica. Così facendo, però, si
espone all’invasione di campo della chiesa.
Roberto Bellarmino rivolge allora al
Galilei e al Foscarini l’invito (12 aprile
1615) a considerare il sistema copernicano
solo in termini ipotetici, ex suppositione.
Molto prudentemente però aggiunge che
nel caso in cui si dimostri la validità delle
tesi copernicane “allhora bisogneria andar
con molta consideratione in esplicare
le Scritture che paiono contrarie, e più tosto
dire che non le intendiamo, che dire
che sia falso quello che si dimostra”. E
conclude: “Io non crederò che ci sia tal dimostratione,
finché non mi sia mostrata”.
Nessuna abiura
Bellarmino non si dichiara contrario
per principio al sistema copernicano, bensì
afferma di non voler che altri intervenga
nella interpretazione delle Scritture
prima che esso sia una certezza dimostrata
e non solo un’ipotesi, come era allora.
Siamo così al 1616, l’anno della convocazione
di Galilei a Roma e della condanna
del Santo Uffizio, diviso al suo interno,
della “dottrina pitagorica” della mobilità
della terra e della immobilità del sole. Tale
dottrina non viene però dichiarata “eretica”;
a Galilei non viene imputata nessuna
colpa, né richiesta alcuna abiura. In
realtà il decreto, per quanto sbagliato, col
senno di poi, dimostra che se la questione
non fosse stata portata sul terreno delle
Scritture, la chiesa non se ne sarebbe occupata:
infatti sospende la pubblicazione
di Copernico, donec corrigantur, cioè finché
non sarà corretto eliminando i dieci
versi della prefazione a Paolo III dove si
accenna alle Sacre Scritture; l’altro testo
proibito è la lettera del Foscarini, perché
“esplicitamente votata ad una difesa concordista
[cioè scritturale] della cosmologia
Pithagorica”. (3. continua)
Francesco Agnoli