Il manifesto nero di Almodóvar
Viaggio di quattro cattolici nel mondo del nulla dove la “mala educación” è solo frutto della volontà
Al cinema con Angela Pellicciari, Giovanni Cantoni, don Luis Barge e Andrea Monda
Annalena Benini
Il Foglio 14 Ottobre 2004
Viaggio di quattro cattolici nel mondo del nulla dove la “mala educación” è solo frutto della volontà.
Al cinema con Angela Pellicciari, Giovanni Cantoni, don Luis Barge e Andrea Monda “Se l’occidente non cambia strada è già morto” Abbiamo visto “La mala educación” di Pedro Almodóvar insieme a Giovanni Cantoni, reggente nazionale di Alleanza cattolica (“non andavo al cinema da 40 anni, l’ultimo film che ho visto è ‘I sette samurai’, con un’eccezione per ‘The passion’, ma a casa”), Angela Pellicciari, docente di storia e filosofia e storica del Risorgimento (“ho smesso di andare al cinema da tempo, anche se ero un’appassionata: troppo sesso e troppa violenza gratuita”), don Juan Luis Barge, viceparroco di S. Maria del Rosario, a Roma (“ho visto tutto Almodóvar, e non mi piace”) e Andrea Monda, docente di religione cattolica al liceo, e di Chiesa cattolica contemporanea all’Università americana Ies (“insegno anche attraverso i film, e i romanzi”). Cercavamo una chiave, dentro un manifesto molto nero, ecco quel che abbiamo trovato. Il Foglio – In tutto il film si rincorre una frase, detta dal protagonista Ignacio, ancora bambino: “Io non credo in niente e quindi non ho paura di niente”. E allora: nessuna paura, nessun sentimento, nessuna reazione, nessun dolore, nessuna donna, niente di niente. Almodóvar ha rappresentato una tensione disperata verso il nulla, è così? Pellicciari – La tensione non va verso il nulla, ma verso la morte. Questo film, che non è realista ma descrive la realtà, mi ha entusiasmato: la cultura cui siamo abituati ci ha fatto credere che la realizzazione del desiderio comporti un appagamento. Invece Almodóvar ci ha mostrato come la realizzazione del desiderio porti la morte. Noi siamo quelli che hanno cambiato il nome alle cose per renderle accettabili: abbiamo chiamato l’omicidio eutanasia, l’omicidio di un bambino interruzione di gravidanza, e allegri gli omosessuali disperati che Almodóvar ci mostra. Con grande onestà ci spiega che il peccato esiste e ha come prezzo la morte. E non è solo l’omosessualità il peccato, ma qualsiasi desiderio sfrenato e perseguito senza limiti, come la voglia di successo del fratello di Ignacio, per il quale diventa indifferente il sesso con un uomo, e l’omicidio del fratello. Cantoni – Ho visto, con sconvolgimento, un cascame di Dostoevskij in immagini. E se anche il cinema è espressione della società, di sicuro questo film ha ben rappresentato un certo tipo di establishment – gli episodi di questi giorni relativi a Buttiglione sono significativi in proposito. C’è, nel film, l’importante dimensione rivelativa di una condizione storica: una società che non continuiamo a immaginare, da un punto di vista esigenziale, in un certo modo, mentre da un punto di vista esistenziale si è trasformata in qualcos’altro, senza significato. Le cose vanno molto male, e i consules dovrebbero vedere questo film, per farsi un’idea di com’è fatto il mondo, e soprattutto di cos’è fatto il disfacimento del soggetto. Non m’interessa il caso Almodóvar, né il caso Spagna, ma voglio parlare del caso occidente: il mondo com’è rappresentato assomiglia molto a quello di Almodóvar, con uomini double face, donne magnificamente assenti, e mai nessuna gioia. Don Luis – Non ci si può però staccare dal caso Spagna, perché Almodovar è la punta del governo zapateriano, a livello d’immagine: detta la corrente di pensiero del paese, insieme ad Amenábar (il regista di “Mare dentro”, ndr): “La spazzatura è in rialzo”, dice al prete Juan, travestito da donna, anzi da travestito. Questa frase riassume il film e la società in cui viviamo, che ormai non si scandalizza nemmeno più. Neanche la critica cattolica spagnola si scandalizza più per il mondo omosessuale di Almodóvar, senza donne e senza sentimenti. Le sole donne del film sono la madre e la vecchia zia, le uniche che davvero si inteneriscono, e sono capaci di passione vera. Perché il film inizia con la parola desiderio e finisce con la parola passione, ma io non ho visto né desiderio né passione, solo volontà di possesso: tutti fanno ciò che è utile, e basta. Non c’è altro, come nella scena bestiale del rapporto sessuale, in cui il travestito si inumidisce l’ano – e nessuno in sala ha battuto ciglio, anzi ridevano. Però il mondo di Almodóvar è cambiato, prima il gay era un personaggio positivo, colorato, adesso non più, perché si è superato anche il desiderio, si è superata la passione, e nemmeno il regista, nel film, ha un’idea che lo appassioni: non fa altro che ritagliare storie dai giornali, e passare il tempo in piscina, spiando le mutande dell’amico. Monda – Io ho sentito puzza di morte, di non vita, era tutto finto e quindi finito. Enrique, il protagonista, forse l’alter ego di Almodóvar, a un certo punto dice: “Io sono morto da un pezzo”. E tutti i personaggi che gli ruotano intorno sono vivi soltanto perché sono finti, e cambiano continuamente nome: l’identità è perduta. C’è calma piatta, terribile: un orizzonte totalmente cupo e privo di speranza, senza luce, tant’è che quando compaiono le donne ci si stupisce, perché c’è qualcuno che si commuove. E viene in mente la lettera di Ratzinger, che parla del genio femminile, e della capacità delle lacrime. Lì c’è vita, umanità, nel film invece non c’è nulla. Questo è un film molto personale, autobiografico, e chi va a vederlo lo fa anche per ritrovare qualcosa di sé, oppure qualcosa in comune, qui non c’è niente, solo un gioco freddo per cui non si capisce mai ciò che è finto e ciò che è vero, e dove non succede niente. Pellicciari – Non è vero, succede eccome: è svelata la falsità dei luoghi comuni. La falsità dei nomi che cambiano la realtà, trasformando una cosa orribile in una cosa bella. Da questo punto di vista è vero che il film di Almodóvar rappresenta l’occidente, che ha completamente apostatato la fede, che non sa più neanche dare il nome alle cose più semplici, e questo film dice chiaramente una cosa essenziale: se l’occidente vuole sopravvivere, o cambia strada e si converte, o è già morto. Cantoni – In una trasposizione in grande, l’occidente ha perso la propria identità, e l’unica possibilità di riconquista ce l’hanno le due povere donne, ‘che piangono su Gerusalemme’, che vedono nei figli i figli e non la metamorfosi impropria, che continuano a farsi illusioni che illusioni non sono, sono loro le uniche che toccano una realtà, che hanno un rapporto vero. Non giocano nessun gioco, e il loro scopo non è il possesso: è la conservazione, e la speranza che le anima è quella del cambiamento, del miglioramento. Vedono il possibile figliol prodigo, sperano ancora, le uniche. Il Foglio – Lo scenario che descrivete è spaventoso, ma la ricezione tende il più possibile a edulcorare, a non guardare. Chi ha visto il film ha parlato di storie d’amore, di noir, di denuncia della Chiesa pedofila, e gli spettatori hanno riso nel vedere il nulla negli occhi di Enrique che osserva Juan abbassarsi ad arte le mutande, o inumidirsi con la saliva prima di sedersi sopra un uomo addormentato per farsi penetrare. Cantoni – Sarebbe un buon segno se qualcuno si lamentasse, perché non c’è peggior malato di uno che non sa di esserlo. Anche questo atteggiamento è sintomatico, perché il film descrive uno stato naturalmente paradossale, ma va assunto per quello che dice: evidentemente però noi abbiamo bisogno di vederlo casa per casa, caso per caso. Come quelli che hanno dovuto aspettare l’elenco dei morti dei Gulag per diventare anticomunisti, e altri invece hanno capito che nel manifesto era già contenuto tutto: allora questo assumiamolo, se siamo capaci, come manifesto. Perché ci viene descritto realisticamente o in modo apparentemente realistico come andiamo a finire se non ci fermiamo: non abbiamo, in fondo, niente. Cercavamo una felicità insostenibile, abbiamo perduto anche la felicità sostenibile, che è quella del sorriso e dell’angoscia della madre, che dice: ‘Sì, adesso cambia’. Questa è anche l’ultima frase battuta a macchina da Ignacio prima di morire: ‘Caro Enrique, credo di esserci riuscito’, forse questa è la volta buona. Non ci è riuscito, ma il messaggio è chiaro, per chi lo vuole ascoltare. Don Luis – La ricezione di questo film è stata totalmente light. Quello che stiamo dicendo noi, il nichilismo, la distruzione dell’umano, non viene neanche percepito. La gente al cinema rideva per scene di una tristezza infinita, scene che qualcuno ha interpretato come totalmente anti ideologiche, ma non è affatto così, l’ideologia c’è. Il film è ambientato venticinque anni fa, e Almodóvar ci ha proposto la sua idea di futuro, e di mondo: la distruzione dell’omosessuale e dell’eterosessuale. E’ la politica spagnola di oggi, e sarà il futuro dell’Europa, perché Zapatero sta facendo la cavia politica, si fa tutto e il contrario di tutto, per accontentare tutti, si legifera su tutto senza riflettere e senza pensarci. Monda – I due ragazzi sono ancora piccoli, in collegio, e Ignacio dice: “Ma non è che quello che abbiamo fatto al cinema è peccato?” – i due si sono toccati per la prima volta guardando un film – ed Enrique, lo stesso che successivamente si dichiarerà morto, risponde: “Ah no, ma tu credi ancora a queste cose? Io non ci credo più: io sono un edonista, l’ho letto nell’enciclopedia”. Ecco, abbiamo buttato a mare tutto ciò che viene chiamato, in maniera semplificatrice, ipocrisia, però in cambio del nulla, cioè di un principio di autorità ideologico, dove l’enciclopedia fa venire in mente l’illuminismo, e dove l’edonista si dichiara morto. In maniera strisciante, l’ideologia affiora e fa perseguire, forsennatamente, un piacere che puzza di morte. Perché il desiderio svincolato dalla relazione, nel momento in cui viene consumato, è qualcosa di finito, di finto, di morto. Don Luis – E allora si può togliere la religione cattolica dalla scuola, si permettono i matrimoni gay con diritto d’adozione, si legifera sul divorzio veloce, meno tempo a divorziare che a sposarsi. Dunque nel film Almodóvar ha un progetto, e il suo progetto è la tranquillità mortifera di Enrique: un personaggio che si dice morto e può continuare a girare e a lavorare con passione. Il film è stato venduto tra desiderio e passione, che non ci sono. Ne “La legge del desiderio”, bel film di Almodóvar, lì c’è passione e desiderio. Qui c’è solo l’abbandonarsi a un nulla non drammatico, che non è tragico, è soltanto niente. Il Foglio – Però c’è la libertà, la libertà dell’occidente di raccontare ogni tipo di realtà, e la libertà che, dice Juan travestito da Zara, “è più importante della tua ipocrisia”. Dove l’ipocrita è il prete innamorato, pedofilo, e disperato. Pellicciari – La frase in questione è riferita alla chiesa e l’immagine della chiesa che viene fuori è un’immagine caricaturale, non reale. E’ una frase che non significa niente, e da questo punto di vista il titolo, ‘La mala educación’, sembra seguire quella moda che spinge a far ricadere le proprie colpe sugli altri, sul tipo di educazione che si è ricevuta, sulla famiglia, sui genitori, senza assumersi le proprie responsabilità. Ma il film compie solo apparentemente questa operazione: nella realtà mostra la verità, che non è il frutto della “mala educación”, ma il frutto terribile di ciò che scientemente si fa con la volontà. Monda – E’ stato detto che questo è il film dove Almodóvar ha cercato di non essere frainteso. Dove si vede tutta la cupezza della disperazione, anche la violenza di questo universo, senza specchietti per allodole. Ma il titolo e la figura del sacerdote sono, ancora una volta, specchietti per le allodole: serviti a creare il caso per depistare e dire che si tratta di un film anticlericale. Viene in mente ciò che dice René Girard: la chiesa cattolica è oggi il vero capro espiatorio. Gli omosessuali sono tutti liberi belli e stupendi, ma non se sono sacerdoti. I gay possono adottare ma se l’educazione viene da un prete gay allora è cattiva. Una strana discriminazione, una sorta di complesso anticattolico. Cantoni – Qualcuno in America ha scritto di recente che l’anticattolicesimo è l’ultima espressione di aggressività, l’ultima modalità attraverso la quale ci si può esprimere aggressivamente. Tutto questo continua con passione, il resto è morto. Don Luis – Non è proprio così. Nel film ho guardato, per deformazione professionale, la messa che si celebrava nella cappella del collegio: l’amica Sara, il travestito, alle parole, “la pace sia con voi”, “la misericordia” risponde, con gli occhi al cielo, “speriamo”, “se è possibile”, “magari”. L’intenzione è caricaturale, e il pubblico in sala ride, non si vogliono prendere sul serio quelle parole, ma proprio quelle parole rispondono al desiderio più profondo dell’uomo. Il desiderio, invece, di cui si parla nel film, non è mai vero, è esaperato e porta a un’ansietà nei rapporti che alla fine sono solo di possesso, ma nella scoperta di questo personaggio totalmente buffo che esprime un desiderio non detto, inconscio, addormentato, ridicolizzato, viene fuori l’unica possibilità di amore che c’è nel film. Monda – Infatti quella battuta finale, “continua a fare cinema con passione” è solo amara ironia: ritagliare pigramente articoli assurdi, di notizie assurde per fare film assurdi. L’elettrocardiogramma della vita è piatto in tutto il film. E’ un film fatalista, pieno di personaggi maschere, schiave di un fato ineluttabile. Chesterton diceva che il romanzo è una forma d’arte squisitamente cristiana perché sono entrambi fondati sul libero arbitrio, il cristianesimo e il romanzo. Qui non c’è libero arbitrio, la disperazione di Enrique che a dieci anni si dice edonista e poi si denuncia morto è la disperazione di chi non riesce a uscire dalla condanna dell’ineluttabilità. Cantoni – E’ una condizione terribile: almeno fosse felice, viene da dire, ma non è nemmeno felice. Allora davvero valeva la pena di accontentarsi di quella felicità che mi permetto di chiamare la felicità sostenibile, quella di povera gente che vive tutti i giorni con una piccola speranza. Monda – E’ una condizione terribile, quella descritta da Almodóvar, perché esiste il dovere della felicità per cui perseguire tutti i desideri in tutte le direzioni sfrenatamente e senza scrupoli, strumentalizzando tutto e tutti. Senza relazioni, se poi relazione la decliniamo come religione, allora questo è un mondo senza l’una né l’altra, un mondo da disperarsi. Don Luis – E se il cinema intorno a noi rideva è perché è mascherato e finto, come, nel film, le maschere che ridono dei personaggi disperati e finti, abbandonati al nulla, né uomini né donne. Monda – Anche Almodóvar, pur immerso nel proprio mondo omosessuale maschile, sente che l’unica speranza viene dal genio delle donne, le sole senza maschera, le sole che ci credono ancora. Don Luis – E’ tutto vero, ma non possiamo scandalizzarci che il mondo sia mondo, e Almodóvar è un personaggio del mondo. Non ci possiamo scandalizzare che il mondo sia così, ritragga così, legiferi così. E neanche possiamo perdere tempo a condannare. Occorre che da qualche parte qualcuno custodisca quelle parole, buttate lì nel film a mo’di scherno, “speriamo”, e che sono riuscite a risvegliare speranza. Quelle parole sono quelle della tradizione della Chiesa, della tradizione dell’occidente ormai persa, qualcuno deve custodirle per fare il cristianesimo oggi in Europa e non per condannare che il mondo sia mondo. Cantoni – Il Pontefice, l’anno scorso, si è servito di un’espressione mediorientale, che può essere utile: “Se vuoi combattere le tenebre, accendi la luce”.