Arcivescovo Marchetto:
il Concilio Vaticano II non ha segnato il nascere di una nuova Chiesa”
In un libro di recente pubblicazione
ZENIT – Il mondo visto da Roma
Servizio quotidiano – 12 luglio 2005
ROMA, martedì, 12 luglio 2005 (ZENIT.org).- L’Arcivescovo Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti mostra in un libro appena pubblicato le distorsioni storiografiche esistenti nell’interpretazione del Concilio Vaticano II, considerato come uno degli eventi più rilevanti nella storia della Chiesa cattolica.
Nel presentare il volume “Concilio Vaticano II contrappunto per la sua storia” (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2005, pp. 410, Euro 35,00), il 17 giugno a Roma, il Cardinale Camillo Ruini, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha detto: “A quarant’anni dalla sua chiusura, il Concilio Vaticano II è ancora in attesa di una sua storia non di parte ma di verità”.
Marchetto definisce “scentrata” “squilibrata” e “ideologica” l’analisi del Concilio Vaticano II fatta da alcune scuole di storici. In questa intervista concessa a ZENIT ne spiega i motivi.
Discontinuità nella storia della Chiesa, Curia conservatrice contro teologi progressisti, tradizione contro rinnovamento, Paolo VI che tradisce Giovanni XXIII, questa, secondo la lettura degli eventi fatta dal professor Giuseppe Alberigo e dai suoi collaboratori, la storia del Concilio Vaticano II. Qual è la sua opinione in proposito?
Chi legge il mio libro si renderà conto che, pur cercando di situarmi, nell’interpretazione storica del Concilio Ecumenico Vaticano II, tenendo conto della cornice delle “tendenze” storiografiche generali, conservo la mia visione specifica di quello che la Chiesa Cattolica è, anche storicamente. Vedo dunque il Vaticano II in continuità con tutti i Concili Ecumenici, non come una stella cometa, ma facente parte di una costellazione, pur avendo alcune sue caratteristiche. Non vi è dunque in esso cesura, rottura, quasi il nascere di una nuova Chiesa.
E’ del resto, questo, il pensiero di Giovanni XXIII, di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e anche di Benedetto XVI, per limitarci ai Papi. Anche l’opposizione “Curia conservatrice” e “teologi progressisti”, è una semplificazione, perché all’interno della Curia vi erano sensibilità e tendenze non monolitiche. Un esempio? Fu il Cardinale Cicognani a sbloccare la situazione cementata del primo schema sulla Chiesa, dando luce verde al Cardinale Suenens (quindi a Monsignor Philips) per una stesura rinnovata, non tutta nuova però, poiché, a detta sua, il 60% del primitivo schema rimase nel secondo.
La contrapposizione, poi, fra Giovanni XXIII e Paolo VI, con un “concilio di Giovanni”, fino all’intersezione 1963-64, e uno di Paolo VI – che per l’Alberigo inizierebbe nel dicembre 1963 – non ha fondamento ed è opinione del resto non solo mia ma anche del noto Prof. Aubert. Per lui pure vi è continuità nella linea conciliare dei due Papi del Concilio. Altri esempi non mancano, ma la mia risposta è già lunga.
Secondo Alberigo e i suoi collaboratori (cfr. “Storia del concilio Vaticano II”, diretta da G. Alberigo, edizione italiana a cura di A. Melloni, Bologna, Il mulino – Leuven, Peeters, 1995-2001) il “vero” Concilio Vaticano II fu quello di Papa Giovanni XXIII, ritenuto “innovatore” e “progressista”. In questo contesto sarebbe stato centrale il lavoro svolto da Giuseppe Dossetti. Ma il beato Giovanni XXIII può essere definito come un progressista? E Dossetti ebbe veramente un ruolo così rilevante?
Richiamo, per Papa Giovanni, oltre che il mio, il pensiero di Monsignor Loris Capovilla, per tanti anni suo Segretario, e che cito nel volume. Egli ha affermato che la sintesi del pontificato giovanneo si trova nel binomio “fedeltà e rinnovamento”, che certo non significa “progressismo”. Papa Giovanni – continua il Monsignore nostro – non aveva smanie di innovazione, ma sapeva che la sola “fedeltà” avrebbe ridotto la Chiesa a museo, mentre il solo rinnovamento l’avrebbe condotta all’anarchia. Cercò dunque d’ispirare il concilio fra questi due principi. Per Dossetti premetto che non mi riferisco qui all’uomo politico, né al monaco spirituale, ma a chi criticò, per esempio, lo stesso Philips per il suo sforzo di conciliazione fra le due correnti esistenti in Concilio, quella con più sensibilità per la Tradizione e quella per il rinnovamento, tradizionale o innovativo, cioè, di conservazione o di progresso – se si può dire così. Era in fondo, quella del Philips, la linea scelta in Concilio di conservare gli schemi preparatori (conciliari) come base di lavoro.
Diceva Philips: “non si tratta di fare trionfare le nostre idee personali, ma di arrivare a un consenso su ciò che la Chiesa intera può oggi accettare come espressione della sua fede comune, senza accettare compromessi sui principi di fondo”. Però all’interno di quei due “schieramenti”, legittimamente coesistenti nella Chiesa Cattolica e in Concilio, vi furono degli estremismi. Così ci fu poi il tradizionalismo post-conciliare di Lefebvre e l’estremismo della “scuola di Bologna” e di chi con essa sta. Invece il Concilio cercò – ripeto – il consenso e fu la grande opera di Papa Paolo VI, di questo martire del Concilio, come lo definì il Cardinale König. Questa grande opera fu ostacolata dal Dossetti fino a dire, il Pontefice, che quello di quasi “Segretario” dei Moderatori non era il suo posto.
In effetti nessuno lo aveva nominato, né si poteva stabilire una contrapposizione fra lui e il Segretario Generale del Concilio, Mons. Pericle Felici. In definitiva, ma rimando, meglio, alla lettura del mio volume, non credo che in Concilio sia stato centrale il ruolo svolto da Dossetti e dall’incipiente “officina bolognese”. Ne ho avuto conferma anche dalla lettura del Diario di Padre Congar, che ampiamente analizzo nel mio libro, presentando la sua opera in modo alquanto diverso da come appare nei volumi diretti dall’Alberigo.
Secondo la “Storia del Concilio Vaticano II” scritta da Giuseppe Alberigo e dai suoi collaboratori, il Pontefice Paolo VI avrebbe tradito la spinta progressista che veniva dal Concilio, su due temi fondamentali: la collegialità rispetto al Primato di Pietro, e l’illeicità dell’uso dei contraccettivi. Può spiegarci quale fu il senso profondo del contendere, e in che modo agì il Papa Paolo VI?
Come ho già in parte detto, il senso profondo del contendere era l’icona del Cattolicesimo, un Concilio ecumenico, con la sua ricerca del consenso, di mettere insieme (in una parola si dice: aggiornamento) le due anime del Cattolicesimo, la fedeltà alla Tradizione e l’incarnazione in quello che io chiamo l’oggi di Dio. E fu pensiero che accomunò Giovanni XXIII e Paolo VI, pur nella diversità delle loro personalità. Nel volume più volte presento l’intenzione dell’uno e dell’altro, in comunione, in concilio. Per me, in esso, Tradizione e rinnovamento si sono alla fine abbracciati.
Per quanto riguarda i due temi da Lei citati, il primo, la collegialità, fu piuttosto caratteristica ecclesiale del primo millennio, e venne “riscoperta” – diciamo così – dal Vaticano II. Essa fu posta accanto, senza contraddizione, al primato pontificio, esercitato personalmente, che si sviluppò specialmente nel secondo millennio.
Pure qui la congiunzione “e” si rivela essere cattolica: collegialità e primato, anche perché non si può parlare di collegialità in senso stretto senza che vi sia, nel collegio, il suo capo, il Vescovo di Roma. Per quanto riguardo l’uso dei contraccettivi, sdoganati da un giudizio etico del Magistero, dirò soltanto che l’accusa dell’Alberigo di un “silenzio conciliare” al riguardo (il Concilio restò “muto”) non è fondata, come non è giusto parlare – e lui lo fa – di un “trauma suscitato in tutto il mondo cristiano dall’Enciclica Humanae Vitae”.
Lei ha definito “scentrata” “squilibrata” e “ideologica” l’analisi del Concilio Vaticano II fatta dal “gruppo di Bologna”. Quali sono secondo lei i più gravi errori di valutazione?
Fin dall’inizio ho definito “ideologica” l’ermeneutica che fa capo al “gruppo di Bologna”. E dove v’è ideologia si trova mancanza di equilibrio, estremismo, visione sfuocata, scentrata. Mi limito a riprendere quanto scrivevo a proposito delle conclusioni dell’Alberigo al V volume della sua storia, vale a dire: la già citata contrapposizione tra Giovanni XXIII e Paolo VI, la questione della “modernità” (in che senso? Cosa significa?) e passaggio indebito, da questa, all’“umanità”, lo spostamento del baricentro conciliare dall’Assemblea (e relativi Acta Synodalia) alle Commissioni (e ai diari personali), la tendenza a considerare come “nuovi” schemi che tali non furono, il giudizio di “acefalia” dell’Assemblea conciliare, la visione di parte circa la libertà religiosa.
V’è poi un’ispirazione riduttiva del Synodus Episcoporum, la disparità tra i vari atti approvati, per cui il loro grado di elaborazione e di corrispondenza alle linee di fondo del Vaticano II sarebbe vistosamente diseguale (e chi giudica al riguardo? – ci chiediamo), la svalutazione dei voti dei Padri conciliari, lo svilimento del Codice di diritto canonico, e al contrario l’amore per la “legge stralcio”.
E ancora, il richiamo costante alla “settimana nera” (che nera non fu), la critica alla Nota Explicativa Praevia, la pretesa lunga attesa trascorsa dalle decisioni conciliari alla loro attuazione, che avrebbe giustificato “spontaneità tumultuose”, la riforma della Curia romana “in un’ottica ecclesiologica neo-accentratrice e pertanto incoerente proprio col Vaticano II”, la necessità di un nuovo suo criterio di interpretazione, la reiterata difesa della canonizzazione conciliare di Papa Giovanni, la svalutazione dei testi, rispetto all’evento, la critica alla loro edizione tipica e, per interposta persona, agli Acta Synodalia curati da Monsignor Vincenzo Carbone.
Lei sostiene che ci sono studi e analisi molto più argomentati ed equilibrati che spiegano il senso e raccontano la storia del Concilio Vaticano II. Ce li potrebbe illustrare?
Più che illustrare posso citare le opere, per esempio, del Cardinale Scheffczyk dal titolo: “La Chiesa. Aspetti della crisi post-conciliare e corretta interpretazione del Vaticano II” della Jaca Book – con presentazione all’edizione italiana di Joseph Ratzinger – e quella di Monsignor Vincenzo Carbone, intitolata: “Il Concilio Vaticano II, preparazione della Chiesa al Terzo Millennio” (quaderni de “ L’Osservatore Romano” n. 42). Il Prof. A. Zambarbieri ha edito, poi, nel 1995, un volumetto su “I Concili del Vaticano” che per me è il migliore breve studio storico specifico finora edito sul Magno Sinodo Vaticano.
Aggiungerei l’ultimo Acerbi, quello che appare, molto critico dell’Alberigo, dalla raccolta degli “Atti degli Incontri svoltosi presso il Seminario Vescovile di Bergamo 1998-2001” (a cura di Gianni Garzaniga), Ed. San Paolo. Penso di non poter tralasciare, infine, la citazione di colui che è ora asceso al Sommo Pontificato, in alcuni suoi ricordi conciliari, che mi fecero invocare un suo impegno a offrircene altri, vista l’importanza degli squarci che ci dava in “La mia vita. Ricordi (1927-1977)”. Ma adesso non è più possibile.
Quali sono in sostanza gli intenti del suo libro? E’ forse giunto il tempo per poter discutere in verità e carità del Concilio Vaticano II?
Scrivevo nella prefazione alla mia opera: “L’intento è di contribuire a giungere finalmente ad una storia del Vaticano II che vinca i condizionamenti gravi – e si capisce quindi quel mio ‘contrappunto’ del titolo – posti finora, a tale riguardo, da una visione da me definita ideologica fin dall’inizio e che si impone monopolisticamente sul mercato delle pubblicazioni”. Se il mio duro impegno e il mio andare controcorrente per anni è riuscito a rompere un monopolio e a creare sollievo e libertà di ricerca agli storici, per studiare il Vaticano II in una dimensione più ampia di come si è fatto finora, ne sono profondamente lieto.
Ad ogni modo il dialogo è importante pure fra storici e la mia storia della storiografia, sul Vaticano II degli ultimi 15 anni (che è storia legittima, come ben si sa), vorrebbe contribuirvi. Del resto il “contrappunto” è un richiamo alla musica, all’armonia, a un superamento dell’unilateralità.
A questo riguardo il Cardinale Camillo Ruini, alla fine della sua presentazione del mio volume, in Campidoglio, ha affermato: “L’interpretazione del concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire. E’ un’interpretazione oggi debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa. E’ tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità”.
ZI05071210