(CorSera) L’addio di un grande della Chiesa

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Ruini, il personaggio

Don Camillo, uomo della riconquista post-dc

Dal referendum alle battaglie per la famiglia, così ha rivoluzionato la Chiesa nella seconda Repubblica
ROMA — Nella storia politica italiana, fitta di rivoluzionari mancati, al momento dell’addio Camillo Ruini (Sassuolo, 1931) imprime il segno di una rivoluzione riuscita. Che l’ha portato a rafforzare l’influenza dei cattolici nonostante la morte della Dc. L’ha portato a riprendere l’offensiva dei valori nonostante la secolarizzazione del Paese, a imporre nell’agenda del confronto parlamentare e intellettuale i temi della vita e della bioetica, a stravincere un referendum trent’anni dopo la disastrosa sconfitta del divorzio, a innovare la linea sulla missione in Iraq nell’ora più drammatica; in una parola, a ripristinare la coscienza identitaria della Chiesa italiana, e modificarne profondamente — nel bene o nel male, a seconda dei punti di vista—il rapporto con lo Stato e la società.
Nessuno dei suoi predecessori era stato tanto amato e criticato, blandito e temuto, al punto da diventare un personaggio centrale della politica, guadagnarsi in conclave il ruolo di grande elettore di Ratzinger, respingere numerose richieste di incontro da parte di segretari di partito (cui preferiva mandare appunto il segretario della Cei Betori), ispirare l’invettiva di una brava attrice di Rai3 (Eminenz!), portare in Senato una scienziata dell’Opus Dei affezionata alle mortificazioni, essere visto ora come un baluardo ora come un bersaglio come ha spiegato lui stesso domenica scorsa al Corriere: «Meglio criticati che irrilevanti ». Una missione condotta con uno stile molto personale: schivo macostretto a un ruolo pubblico, taciturnoma deciso a non lasciarsi mai zittire, Ruini non ha ceduto alla tentazione della vanità e alla scorciatoia della vetrina televisiva.
Pur avendo a disposizione una Rai non certo ostile, ha scelto per la sua battaglia culturale gli strumenti più tradizionali del libro, delle riviste, dei giornali. Di qui, ad esempio, la scelta di rilanciare Avvenire, affidato al pupillo Dino Boffo, e di farne una postazione avanzata di intervento anche polemico. Assunta la guida dei vescovi italiani nel 1991, alla vigilia della bufera, Ruini vide nella rottura dell’unità politica dei cattolici non un guaio ma un’opportunità. Considerò il crollo del partito, che secondo un esponente non secondario come Cossiga era stato fondato e diretto dal Vaticano, non come la fine del rapporto tra la Chiesa e la politica ma come l’alba di una fase nuova, in cui i vescovi, scavalcata la mediazione Dc, avrebbero potuto allargare la loro influenza all’intero sistema. Non a caso, i referenti del suo disegno non sono stati tanto ex democristiani quanto insospettabili come l’ex radicale Rutelli o l’ex anticlericale Pera. Ruini ha cercato il dialogo con intellettuali critici, come quando scrisse un libro con Magris, Scalfari e Vattimo (Le ragioni della fede) e discusse a distanza con «i tre Alberti» come li definì Avvenire (Ronchey, Asor Rosa e Arbasino).
Ha avuto rapporti migliori con l’azionista Ciampi che con il democristianissimo Scalfaro. E ha trovato corrispondenze non scontate con il pensiero di Giuliano Ferrara ed Ernesto Galli della Loggia, e in genere dei laici preoccupati dalla debolezza identitaria dell’Occidente nel confronto con l’Islam. Sul piano politico, la «dottrina Ruini» ha portato al gelo tra la Chiesa e la sinistra, compresa quella cattolica; simboleggiato dalla rottura con Romano Prodi, che da Ruini fu unito in matrimonio con Flavia Franzoni, ma che da Ruini si divise quando annunciò che da «cattolico adulto» non avrebbe disertato il referendum sulla fecondazione assistita. Un gelo che non ha mai indotto il capo dei vescovi ad appoggiare apertamente la destra, accusata da sinistra di guardare alla Chiesa strumentalmente, alla ricerca di sostegno elettorale e di un nucleo di valori in grado di surrogare il proprio deficit culturale. Che questo fosse l’esito della stagione di Ruini era scritto nella sua formazione; e non perché fin da quando era un giovane sacerdote — fu ordinato a 23 anni — lo chiamavano «don Camillo».
Negli anni in cui alla Gregoriana, dove si è laureato, si mandavano a memoria Maritain e Mounier, lui meditava i tedeschi, in particolare Rahner (di cui darà poi un’interpretazione critica), che gli forniranno gli strumenti per l’intesa dottrinaria con Ratzinger. Ruini ha studiato Heidegger, Kant, Husserl. Ha dedicato una parrocchia romana a Escrivà de Balaguer fondatore dell’Opus Dei prima ancora che fosse proclamato santo. Ha definito Dossetti «portatore di una visione catastrofale dell’Occidente» e ha amato Tocqueville, in particolare là dove invita la religione a non schierarsi mai con un partito o un regime; «perché allora essa aumenta il suo potere su alcuni uomini, ma perde la speranza di regnare su tutti». I suoi alleati naturali in questi anni sono stati i teologi e i moralisti educati al rigore wojtyliano, che non a caso Giovanni Paolo II d’intesa con Ruini volle in diocesi importanti o posti-chiave: Scola a Venezia, Caffarra a Bologna, Fisichella alla Lateranense. Mentre interlocutori soggetti alla sua primazia, e però mai del tutto conquistati alla sua dottrina, sono stati i tanti vescovi di provincia che non avevano rinunciato alle suggestioni postconciliari e a un’allure progressista.
Proprio alla Chiesa del post-Concilio Ruini ha impresso la sua svolta: basta nascondersi nel mare magno della società secolarizzata, mimetizzare le chiese tra le case, difendere il ridotto del cattolicesimo dall’invasione laicista; anzi passare al contrattacco, uscire allo scoperto, riprendere coscienza che se i cattolici praticanti sono in effetti in minoranza i loro valori possono tornare a essere patrimonio della maggioranza. Una sorta di riconquista, un Kulturkampf capovolto. Cominciato quando, nell’aprile 1985, da vicepresidente del convegno di Loreto Ruini si segnalò presso Wojtyla. E condotto con gli strumenti del mondo, a cominciare dall’8 per mille («quando nell’86 arrivai alla Cei da segretario avevamo a malapena i soldi per pagare quattro impiegati», ha ricordato), ma soprattutto scegliendo un nuovo campo di battaglia: la bioetica, il rapporto tra scienza e fede, i limiti da porre alla ricerca, al progresso tecnologico, alla capacità teoricamente illimitata di sostituirsi al creatore e intervenire sull’uomo sino a programmarne nascita e codice genetico e quindi farne cosa diversa da sé. Non gli interessava rendere testimonianza, ma intervenire nell’agone con efficacia. Per farlo non ha esitato a inoltrarsi nelle tecnicalità della politica; come quando invitò ad astenersi al referendum del 2005, suscitando la denuncia penale del ginecologo Antinori, la perplessità di Andreotti, la polemica dei referendari.
Poi la denuncia è stata archiviata, Andreotti si è inchinato, e i referendari ne sono usciti nettamente sconfitti: il 75% degli italiani non votò. Altrettanto coraggio Ruini aveva dimostrato due anni prima, nel novembre 2003. La sua omelia a San Paolo fuori le Mura, davanti alle bare dei caduti di Nassiriya, non puntava a suscitare commozione, ma a innovare la linea della Chiesa, a sostegno della missione italiana in Iraq e della guerra al terrore («Noi non fuggiremo davanti ai terroristi; li fronteggeremo, ma non li odieremo…»); e non è un caso che ora sia chiamato a succedergli Angelo Bagnasco, già ordinario militare per l’Italia. Un’omelia porta con il caratteristico tono di voce, dolce ma fermo, e con l’eloquio consueto in cui la geometria prevale sul pathos, che fece dire a Giorgio Rumi: «Ruini è emiliano ma ragiona come un cardinale tedesco ». Lo stesso tono e lo stesso rigore geometrico con cui motivò il rifiuto ai funerali per Welby, e nel contempo ammise la propria sofferenza; Ruini del resto è uomo asciutto, e non solo nel fisico; e forse è quello il suo modo di provare pietà.
I cattolici italiani l’hanno compreso. Basta seguire Ruini nelle sue visite alle parrocchie di Roma (anche nelle borgate rosse, anche nelle comunità come quella di Sant’Agnese legata alla liturgia delle chitarre e dei battimani ma che qualche domenica fa è rimasta due ore a tributargli un’accoglienza e un’attenzione impressionanti), per verificare come accanto alla sua popolarità sia cresciuto l’orgoglio identitario del suo popolo. La forza asciutta che ha deluso molti laici ed è forse spiaciuta anche a qualche cattolico ha finito, nel tempo, con l’alimentarne il carisma, e ha contribuito a scriverne il ruolo nella storia recente d’Italia, che ora prosegue come vicario di Roma. E quando si sarà sopito il clamore del mondo — la polemica quotidiana, le richieste d’udienza dei segretari di partito, l’urlo della Littizzetto, il cilicio della Binetti —, anche la politica saprà fare, nel tempo, quello che alla Chiesa riesce più facile, fermarsi ameditare, individuare gerarchie di valori, restituire le cose alla loro dimensione; e allora si comprenderà appieno che all’inizio della primavera del 2007 si è consumato l’addio di un grande.

Aldo Cazzullo

07 marzo 2007