(CorSera) Il Papa ci ricorda che accanto e prima del labora c’è l’ora

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23 maggio 2009

La vita dei monaci come esempio. Il Papa indica la regola benedettina

di Vittorio Messori

Perché un papa bavarese del XXI secolo predilige a tal punto un monaco sabino del VI secolo da averne assunto il nome e da considerarlo il patrono del suo pontificato? Perché , fra tanti luoghi che lo invocano, ha scelto di recarsi domani a Montecassino, per una domenica di full immersion  nel mondo benedettino ? Perché, poche ore prima della morte dell’amato predecessore, si è recato a Subiaco, dove è iniziata l’avventura del monachesimo d’Occidente,  per leggervi ciò che parve una sorta di programma di governo?

Per comprendere una simile attenzione, occorre ricordare che il lucido  teologo, l’intellettuale post-moderno divenuto pastore di anime, ha da sempre, e ora più che mai, un assillo : l’indebolirsi della fede  di cui è custode e garante . Una fede, ha scritto di recente, <<che sembra spegnersi come una candela cui viene a mancare l’alimento>>. Da qui, la necessità di ritrovare le ragioni del credere, di riconfermare la ragionevolezza della “ scommessa “ sulla verità del Vangelo. L’enorme edificio ecclesiale è in bilico (parola di san Paolo) sulla storicità di un sepolcro vuoto, a Gerusalemme. Se venisse  meno questa certezza, non resterebbe che un drammatico << tutti a casa ! >>.       

Avviene, ormai da decenni, un fatto che inquietava Joseph Ratzinger   responsabile dell’ex-Sant’Uffizio e  che ora inquieta ancor più Benedetto XVI. Il fatto,  cioè,  che  quanto resta di un  cristianesimo falcidiato dal secolarismo tenda a trasformarsi in una associazione mondiale di volontariato, in un’organizzazione no-profit  di impegno sociale . L’ amore cui esorta il vangelo è inteso da molti in senso solo “orizzontale“: dunque, la carità del pane e dell’impegno socio- politico per una società più pacifica,  giusta, meno inquinata . Questo, in effetti, lo slogan “trinitario“, proposto come  nuovo Credo dal Consiglio Ecumenico delle Chiese di Ginevra: << Pace, giustizia, salvaguardia del creato >>.

Ebbene: dietro alla rimozione della prospettiva cristiana autentica – che  si fa  “orizzontale“ come conseguenza della sua “verticalità“, che guarda alla Terra perché crede nel Cielo- c’è una crisi di fede che è il vero, drammatico problema del cristianesimo moderno. Appannata la speranza in  una vita eterna nell’Aldilà, i superstiti engagés  cercano appagamento sensibile  nell’impegno per una vita migliore   nel presente, ripiegano sulle  certezze tangibili  dell’Aldiquà . La fede nell’uomo e nella storia  sostituisce quella in Dio e nell’eternità, il militante per le  buone cause prende il posto dell’orante  e dell’asceta. Cristiani (ma senza Gesù come Cristo-Dio : non usiamo parole troppo grosse!)  come filantropi, adepti del volontariato, sindacalisti, ambientalisti, custodi suscettibili  dei “ diritti umani“….    

E’ una  deformazione  inquietante  che ,   in un passato recente,  è passata attraverso la fase del     clerico-marxismo e che  ora ha assunto le vesti della nuova ideologia egemone, quella della political correctness, del radicalismo liberal,  occidentale  . Che importa aderire a dogmi e perder tempo in preghiere,   quando c’è un mondo che può salvarsi grazie alle forze umane, di qualunque  Credo o incredulità,  purché di buona volontà ? 

Questa deriva fu causa di angoscia per Paolo VI, fu contrastata dallo straordinario mix di misticismo e di concretezza di Giovanni Paolo II ed è la priorità assoluta su cui intervenire per Benedetto XVI. Tutti gli ultimi papi furono ben consapevoli che – per la logica dell’et-et che sempre lo guida e per il rifiuto di ogni  aut-aut –  il cristianesimo è chiamato a umanizzare la Città dell’uomo ma perché crede nella Gerusalemme celeste, si infanga  nel mondo ma  perché prega , si preoccupa dei  corpi mortali ma   in quanto chiamati all’immortalità. Un equilibrio, una sintesi  che sembrano   essersi rotti : l’indebolirsi della fede ha sbilanciato coloro che, pur non rinnegando esplicitamente il Credo (la contestazione rumorosa è finita per stanchezza, per senso di irrilevanza , talvolta per dissimulazione), non lo giudicano necessario per il loro darsi da fare.

Anche, forse soprattutto, questo, può spiegare l’attenzione che , sia prima che dopo il pontificato, Joseph Ratzinger  ha riservato alla vita monastica. Una vita assurda , insopportabile , anzi disumana. Un ergastolo – la scelta è a vita – ben  peggio di quello nelle  prigioni pubbliche:  rinuncia alla famiglia ,  astensione dal sesso, nessuna proprietà personale, otto ore di preghiera comunitaria quotidiana  più altre in solitudine, veglie notturne , penitenze, alimentazione scarsa e vegetariana interrotta da frequenti digiuni, freddo e caldo,  obbedienza pronta e assoluta, divieto di varcare il muro della clausura, lettere  e letture sotto controllo, notizie scarse e filtrate dai superiori, convivenza stretta, continua, senza termine con compagni imposti e non scelti… Un inferno. Un inferno che  però, può   rovesciarsi in un  paradiso.  Ma solo- solo – in una visione  di fede che non esiti sulla verità del Vangelo e sulle sue promesse;  un paradiso solo  per chi creda, senza dubitare, che Gesù Cristo è davvero ciò che la Chiesa annuncia. Una vocazione per pochi, certo . Ma nella quale si manifesta una fede totale, radicale, che non esita a spingersi sino a quelle estreme  conseguenze di cui Montecassino è simbolo illustre da quindici secoli. Il benedettino mostra con la sua vita stessa che la fiamma della sua candela ha ancora alimento. Forse è proprio  questa luce, rara e preziosa, che Benedetto XVI vuole  additare a noi, credenti sempre più increduli. Noi che del distico  monastico abbiamo conservato, semmai,  solo il labora, dimenticando del tutto l’ ora.       

© Corriere della Sera