Pietro visita Andrea. E prega nella Moschea Blu
Per Benedetto XVI la riconciliazione tra la Chiesa di Roma e le Chiese d’Oriente fa tutt’uno con l’annuncio di Cristo ai non cristiani. Il simbolo di Santa Sofia
di Sandro Magister ROMA, 1 dicembre 2006 – Nel giorno della festa di sant’Andrea Benedetto XVI è entrato nella Moschea Blu di Istanbul con la croce di Gesù ben in vista sul petto, ha sostato davanti al mihrab rivolto alla Mecca, ha pregato in silenzio a fianco del gran mufti che sussurrava le parole iniziali del Corano: tutto questo ha fatto con la libertà e la chiarezza scolpite dalla sua lezione di Ratisbona.
Ma un gesto non meno simbolico è stato, poco prima, l’ingresso del papa in Santa Sofia, oggi museo e in precedenza moschea e prima ancora chiesa cattedrale del patriarcato di Costantinopoli, nella terra in cui è fiorito il primo cristianesimo.
In Santa Sofia Benedetto XVI non si è raccolto in preghiera, non ha ripetuto il gesto di Paolo VI qui in visita nel 1967. Circondato e pressato in ogni istante, ha solo potuto ammirare nelle mirabili architetture di Santa Sofia, nei suoi mosaici bizantini, nelle sue scritte coraniche l’immagine riassuntiva, magnifica e dolente, dell’Oriente cristiano di ieri e di oggi. Grecità e primo cristianesimo, romanità, e poi l’islam che conquista ma non cancella, e infine il piccolo gregge circondato da lupi che tiene viva la fede cristiana nella odierna Turchia.
È a questo piccolo gregge che Benedetto XVI ha portato il conforto di Pietro: anche alle Chiese che non ne riconoscono il primato nella forma che ha assunto nel secondo millennio.
Perché è stata questa la vera meta del viaggio. Pietro che visita Andrea. Il successore del primo degli apostoli che abbraccia il successore dell’altro apostolo, missionario tra i greci. La Prima e la Seconda Roma nelle persone del papa e del patriarca ecumenico, divisi da secoli di scisma ma oggi decisi a camminare verso una nuova unità: un cammino iniziato nel 1964 con l’abbraccio tra Paolo VI e Atenagora, proseguito con la revoca delle scomuniche e i documenti del Concilio Vaticano II, ripreso da ultimo con i dialoghi teologici in corso su “conciliarità e autorità” e con l’incontro di questo 30 novembre tra il papa e il patriarca.
Bartolomeo I è patriarca ecumenico di Costantinopoli. In Turchia ha con sé meno di tremila fedeli, ma è la porta regale attraverso cui Benedetto XVI vuole raggiungere l’insieme delle Chiese d’Oriente, fino a quella Terza Roma che è Mosca.
Ma c’è di più. L’apostolo Andrea – ha ricordato Benedetto XVI – “rappresenta l’incontro fra la cristianità primitiva e la cultura greca”. E cos’è questo se non l’incontro tra il Vangelo e il Logos, che era il cuore della lezione di Ratisbona?
Il dialogo “secondo ragione” tra il cristianesimo e le altre religioni, in primo luogo l’islam, è per Benedetto XVI indissolubilmente legato alla ricerca dell’unità tra i cristiani.
E il dialogo “secondo ragione” con l’islam esige, appunto, che sia sciolto ogni legame tra fede e violenza. Nelle sue omelie e nei discorsi in Turchia, papa Joseph Ratzinger ha incessantemente reclamato la libertà di religione. Con ripetute menzioni ai martiri – anche di oggi, come don Andrea Santoro – che hanno dato la vita per aver pacificamente testimoniato la loro fede cristiana.
I leader turchi politici e religiosi, così ansiosi d’essere ammessi nell’Unione Europea, ora sanno molto più di prima che la libertà di religione è condizione tassativa per questo ingresso. Anche in questo la visita di Benedetto XVI ha portato conforto alle minoranze non musulmane in Turchia.
Delle omelie e dei discorsi pronunciati dal papa ecco qui di seguito quello che forse meglio sintetizza il suo pensiero. Sono le parole lette da Benedetto XVI il 30 novembre dopo aver assistito alla Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo celebrata da Bartolomeo I nella chiesa patriarcale di Costantinopoli:
”La lezione del chicco di grano…”
di Benedetto XVI
Questa Divina Liturgia celebrata nella festa di sant’Andrea apostolo, santo patrono della Chiesa di Costantinopoli, ci porta indietro alla Chiesa primitiva, all’epoca degli apostoli. I Vangeli di Marco e di Matteo riferiscono su come Gesù chiamò i due fratelli, Simone, a cui Gesù attribuì il nome di Cefa o Pietro, e Andrea: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini” (Matteo 4,19; Marco 1,17). Il quarto Vangelo, inoltre, presenta Andrea come il primo chiamato, “ho protoklitos”, come egli è conosciuto nella tradizione bizantina. È Andrea che porta da Gesù il proprio fratello Simone (cfr Giovanni 1, 40 ss).
Oggi, in questa chiesa patriarcale di San Giorgio, siamo in grado di sperimentare ancora una volta la comunione e la chiamata dei due fratelli, Simon Pietro e Andrea, nell’incontro fra il successore di Pietro e il suo fratello nel ministero episcopale, il capo di questa Chiesa, fondata secondo la tradizione dall’apostolo Andrea. Il nostro incontro fraterno sottolinea la relazione speciale che unisce le Chiese di Roma e di Costantinopoli quali Chiese sorelle.
Con gioia cordiale ringraziamo Dio perché dà nuova vitalità alla relazione sviluppatasi sin dal memorabile incontro a Gerusalemme, nel dicembre del 1964, fra i nostri predecessori, il papa Paolo VI e il patriarca Atenagora. Il loro scambio di lettere, pubblicato nel volume intitolato “Tomos Agapis”, testimonia la profondità dei legami che crebbero fra di loro, legami che si rispecchiano nella relazione fra le Chiese sorelle di Roma e di Costantinopoli.
Il 7 dicembre del 1965, alla vigila della sessione finale del Concilio Vaticano II, i nostri venerati predecessori intrapresero un passo unico e indimenticabile rispettivamente nella chiesa patriarcale di San Giorgio e nella basilica di San Pietro in Vaticano: essi rimossero dalla memoria della Chiesa le tragiche scomuniche del 1054. In tal modo essi confermarono un cambiamento decisivo nei nostri rapporti. Da allora, molti altri passi importanti sono stati intrapresi lungo il cammino del reciproco riavvicinamento. Ricordo in particolare la visita del mio predecessore, il papa Giovanni Paolo II, a Costantinopoli nel 1979 e le visite a Roma del patriarca ecumenico Bartolomeo I.
In quello stesso spirito, la mia presenza qui oggi è destinata a rinnovare il comune impegno per proseguire sulla strada verso il ristabilimento – con la grazia di Dio – della piena comunione fra la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli. Posso assicurarvi che la Chiesa Cattolica è pronta a fare tutto il possibile per superare gli ostacoli e per ricercare, insieme con i nostri fratelli e sorelle ortodossi, mezzi sempre più efficaci di collaborazione pastorale a tale scopo.
I due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, erano dei pescatori che Gesù chiamò a diventare pescatori di uomini. Il Signore risorto, prima della sua ascensione, li inviò insieme agli altri apostoli con la missione di fare discepole tutte le nazioni, battezzandole e proclamando i suoi insegnamenti (cfr Matteo 28,19 ss; Luca 24,47; Atti 1,8).
Questo incarico lasciatoci dai santi fratelli Pietro e Andrea è lungi dall’essere compiuto. Al contrario, oggi esso è ancora più urgente e necessario. Esso infatti riguarda non soltanto le culture toccate marginalmente dal messaggio del Vangelo, ma anche le culture europee da lunga data profondamente radicate nella tradizione cristiana. Il processo di secolarizzazione ha indebolita la tenuta di quella tradizione; essa anzi è posta in questione e persino rigettata. Di fronte a questa realtà, siamo chiamati, insieme con tutte le altre comunità cristiane, a rinnovare la consapevolezza dell’Europa circa le proprie radici, tradizioni e valori cristiani, ridando loro nuova vitalità.
I nostri sforzi per edificare legami più stretti fra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse sono parte di questo compito missionario. Le divisioni esistenti fra i cristiani sono uno scandalo per il mondo ed un ostacolo per la proclamazione del Vangelo. Alla vigilia della propria passione e morte, il Signore, attorniato dai discepoli, pregò con fervore che essi fossero uno, così che il mondo possa credere (cfr Giovanni 17,21). È solo attraverso la comunione fraterna tra i cristiani e attraverso il reciproco amore che il messaggio dell’amore di Dio per ogni uomo e donna diverrà credibile. Chiunque getti uno sguardo realistico al mondo cristiano oggi scoprirà l’urgenza di tale testimonianza.
Simon Pietro e Andrea furono chiamati insieme a diventare pescatori di uomini. Ma lo stesso impegno prese forme differenti per ciascuno dei due fratelli.
Simone, nonostante la sua personale fragilità, fu chiamato Pietro, la “roccia” sulla quale sarebbe stata edificata la Chiesa; a lui in maniera particolare furono affidate le chiavi del Regno dei Cieli (cfr Matteo 16,18). Il suo itinerario lo avrebbe condotto da Gerusalemme ad Antiochia, e da Antiochia a Roma, così che in quella città egli potesse esercitare una responsabilità universale. Il tema del servizio universale di Pietro e dei suoi successori ha sfortunatamente dato origine alle nostre differenze di opinione, che speriamo di superare, grazie anche al dialogo teologico, ripreso di recente.
Il mio venerato predecessore, il servo di Dio papa Giovanni Paolo II, parlò della misericordia che caratterizza il servizio all’unità di Pietro, una misericordia che Pietro stesso sperimentò per primo (Enciclica “Ut Unum Sint”, 91). Su questa base il papa Giovanni Paolo fece l’invito ad entrare in dialogo fraterno, con lo scopo di identificare vie nelle quali il ministero petrino potrebbe essere oggi esercitato, pur rispettandone la natura e l’essenza, così da “realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri” (ivi, 95). È mio desiderio oggi richiamare e rinnovare tale invito.
Andrea, il fratello di Simon Pietro, ricevette un altro incarico dal Signore, un incarico che il suo stesso nome suggeriva. Essendo in grado di parlare greco, divenne – insieme a Filippo – l’apostolo dell’incontro con i greci venuti da Gesù (cfr Giovanni 12,20 ss). La tradizione ci racconta che fu missionario non soltanto nell’Asia Minore e nei territori a sud del Mar Nero, cioè in questa stessa regione, ma anche in Grecia, dove patì il martirio.
Pertanto, l’apostolo Andrea rappresenta l’incontro fra la cristianità primitiva e la cultura greca. Questo incontro, particolarmente nell’Asia Minore, divenne possibile grazie specialmente ai grandi Padri della Cappadocia, che arricchirono la liturgia, la teologia e la spiritualità sia delle Chiese Orientali sia di quelle Occidentali. Il messaggio cristiano, come il chicco di grano (cfr Giovanni 12,24), è caduto su questa terra e ha portato molto frutto. Dobbiamo essere profondamente grati per l’eredità che è derivata dal fruttuoso incontro fra il messaggio cristiano e la cultura ellenica. Ciò ha avuto un impatto duraturo sulle Chiese dell’Oriente e dell’Occidente. I Padri greci ci hanno lasciato un prezioso tesoro dal quale la Chiesa continua ad attingere ricchezze antiche e nuove (cfr Matteo 13,52).
La lezione del chicco di grano che muore per portare frutto ha pure un riscontro nella vita di sant’Andrea. La tradizione ci racconta che egli seguì il destino del suo Signore e Maestro, finendo i propri giorni a Patrasso, in Grecia. Come Pietro, egli subì il martirio su una croce, quella diagonale che veneriamo oggi come la croce di sant’Andrea. Dal suo esempio apprendiamo che il cammino di ogni singolo cristiano, come quello della Chiesa tutta intera, porta a vita nuova, alla vita eterna, attraverso l’imitazione di Cristo e l’esperienza della croce.
Nel corso della storia, entrambe le Chiese di Roma e di Costantinopoli hanno spesso sperimentato la lezione del chicco di grano. Insieme noi veneriamo molti dei medesimi martiri il cui sangue, secondo le celebri parole di Tertulliano, è divenuto seme di nuovi cristiani (“Apologeticum” 50,13). Con loro, condividiamo la stessa speranza che obbliga la Chiesa a proseguire “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio” (“Lumen Gentium” 8; cfr sant’Agostino, “De Civitate Dei”, XVIII, 51,2). Per parte sua, anche il secolo appena trascorso ha visto coraggiosi testimoni della fede, sia in Oriente sia in Occidente. Anche oggi vi sono molti di tali testimoni in diverse parti del mondo. Li ricordiamo nella nostra preghiera e, in ogni modo possibile, offriamo loro il nostro sostegno, mentre chiediamo con insistenza a tutti i leader del mondo di rispettare la libertà religiosa come diritto umano fondamentale.
La Divina Liturgia alla quale abbiamo partecipato è stata celebrata secondo il rito di san Giovanni Crisostomo. La croce e la risurrezione di Gesù Cristo sono state rese misticamente presenti. Per noi cristiani questo è sorgente e segno di una speranza costantemente rinnovata. Troviamo tale speranza magnificamente espressa nell’antico testo conosciuto come Passione di sant’Andrea: “Ti saluto, o Croce, consacrata dal Corpo di Cristo e adorna delle sue membra come di pietre preziose… Che i fedeli conoscano la tua gioia, e i doni che in te sono conservati…”.
Questa fede nella morte redentrice di Gesù sulla croce e questa speranza che Cristo risorto offre all’intera famiglia umana, sono da noi tutti condivise, ortodossi e cattolici. Che la nostra preghiera ed attività quotidiane siano ispirate dal fervente desiderio non soltanto di essere presenti alla Divina Liturgia, ma di essere in grado di celebrarla insieme, per prendere parte all’unica mensa del Signore, condividendo il medesimo pane e lo stesso calice. Che il nostro incontro odierno serva come spinta e gioiosa anticipazione del dono della piena comunione. E che lo Spirito di Dio ci accompagni nel nostro cammino!