Andrea Tornielli, Inchiesta su Gesù bambino. Misteri, leggende e verità sulla nascita che ha diviso in due la storia, Il Giornale, 2004, pp. 225, € 6,90 con il quotidiano Il Giornale, in edicola dal 16 dicembre.
E’ veramente esistito Gesù di Nazaret? In quale anno è nato? E dove? Chi erano i suoi genitori? Maria ha partorito in una grotta, in una stalla o in una casa? I pastori e i re magi sono personaggi reali o leggendari? Perché una stella cometa li ha guidati a Betlemme? Erode ha realmente compiuto la strage degli innocenti? È giusto festeggiare il Natale il 25 dicembre?
Inchiesta su Gesù Bambino cerca di rispondere a questa e ad altre domande sulla nascita che ha diviso in due la storia dell’umanità. Un’indagine rigorosa che attraverso le fonti storiche ricostruisce i particolari di un evento affascinante e misterioso: l’incarnazione del Figlio di Dio.
In un momento in cui in Italia si discute e si polemizza sul presepe nelle scuole statali, un giornale laico manda in edicola un libro interamente dedicato ai Vangeli dell’infanzia, ai misteri, alle leggende e alle verità su quella notte di Betlemme.
«Tornielli smonta pazientemente le molte obiezioni mosse alla attendibilità del racconto evangelico sul piano geografico, cronologico, di verosimiglianza: perché questa è, in definitiva, l’obiezione ricorrente che si muove ai Vangeli – e non solo a quelli dell’infanzia – quando si parla di miracoli, senza tener conto che per lo storico non esiste la categoria del verosimile (lo sapevano molto bene Polibio e Aristotele), ma solo quella del probabile, che è ciò su cui si possono citare testimonianze attendibili».
Per gentile concessione dell’Autore pubblichiamo la Prefazione e il Prologo del volume
Prefazione
Nel presentare il suo utilissimo e valido volumetto sui Vangeli dell’infanzia, Andrea Tornielli ricorda che egli non è né un biblista, né un esegeta, né uno storico, ma solo un cronista e che la caratteristica di un’inchiesta giornalistica è di rispondere alle cinque «W», le inziali, in inglese, delle cinque domande fondamentali che ogni avvenimento pone: chi, che cosa, quando, dove, perché. Si dà il caso, però, che queste siano anche le domande a cui deve rispondere lo storico, nella sua ricostruzione–interpretazione degli avvenimenti, accertando criticamente l’attendibilità delle testimonianze e mettendo in rapporto, attraverso le coordinate spazio-temporali e la presa di coscienza degli altri condizionamenti (il concetto di causa è forse troppo forte in quel mondo della libertà che è la storia umana), i fatti che da tali testimonianze risultano avvenuti. Ed è proprio questo il metodo che Tornielli applica correttamente attingendo alle fonti e tenendo conto delle osservazioni dei moderni, ai racconti che dell’infanzia di Gesù ci danno Matteo e Luca, nei primi due capitoli del loro Vangelo. Si tratta, come è noto, di racconti che anche molti di coloro, fra gli esegeti, che appaiono disposti ad ammettere la storicità dei Vangeli, cercano spesso di spiegare in chiave teologica e non storica, ricorrendo a simboli preannunciati nell’Antico Testamento o ammettendo drammatizzazioni.
Tornielli smonta pazientemente le molte obiezioni mosse alla attendibilità del racconto sul piano geografico, cronologico, di verosimiglianza: perché questa è, in definitiva, l’obiezione ricorrente che si muove ai Vangeli – e non solo a quelli dell’infanzia – quando si parla di miracoli, senza tener conto che per lo storico non esiste la categoria del verosimile (lo sapevano molto bene Polibio e Aristotele), ma solo quella del probabile, che è ciò su cui si possono citare testimonianze attendibili. Il paradoxon, l’imprevedibile, può far parte della storia, mentre può essere inventato un fatto pienamente verosimile. Nella critica contro i Vangeli il pregiudizio ha una parte fondamentale, e si è giunti perfino a mettere in dubbio l’esistenza di Nazaret, perché non ricordata da altre fonti prima dei Vangeli stessi: l’archeologia ha fatto facilmente giustizia di tali assurdi sospetti.
Parlando di fonti attendibili colpisce la convergenza tra i due racconti canonici, che le numerose varianti rivelano dipendenti da testimonianze diverse, mai contrastanti, ma tra loro complementari, il racconto di Matteo, dipendente chiaramente dall’ambiente familiare di Giuseppe, e quello di Luca, che rivela con molta probabilità, in base anche all’osservazione strettamente personale e ripetuta con cui si conclude (2, 19 e 51), la testimonianza di Maria, madre di Gesù, che Luca, greco di Antiochia, potè interrogare ad Efeso. Colpisce ancora il confronto – merito anch’esso non indifferente di Tornielli – fra il racconto estremamente sobrio e privo di drammatizzazioni dei Vangeli canonici e quello fantasioso degli apocrifi.
All’ultima domanda, quella del perché, Tornielli risponde citando un famoso passo di Platone in cui l’anima greca, assetata di verità, invoca appassionatamente, quattro secoli prima della nascita di Cristo, la Rivelazione divina; alla vigilia stessa, ormai della pienezza dei tempi, anche l’anima romana, l’altro volto del mondo classico alla radice della nostra civiltà, invoca con altrettanta passione, attraverso i suoi poeti, Catullo e Virgilio, l’intima comunione con Dio, la discesa della divinità nella storia degli uomini, attraverso i simboli, cari anche alla Bibbia, della mensa e delle nozze.
Marta Sordi
Prologo
«23 dicembre. Molta gente, molti auguri. Mi accorgo, però, che nessuno pensa veramente alla Natività di Cristo e al suo significato».
Questo appunto datato 1947 e scritto da Giovanni Papini nel suo diario è all’origine dell’Inchiesta su Gesù Bambino che avete tra le mani. Le parole dello scrittore fiorentino, riscoperte per caso aprendo un libro della mia biblioteca, sono infatti tremendamente attuali e fotografano la realtà quotidiana nella quale siamo immersi sotto le feste. Non è mia intenzione né mio compito (dato che scrivo questo libro da cronista) dilungarmi qui in considerazioni sul significato del Natale o sulla sua riduzione consumistica, sul clima zuccheroso e melenso che accompagna il bombardamento di spot e trasmissioni televisive sulla festa della bontà, sull’esaltazione dei buoni sentimenti, sul calore familiare, sul ritrovarsi a tavola con i propri cari, sullo scambio reciproco dei doni. Tutte cose in sé rispettabilissime: ci mancherebbe anche che il Natale, invece di rappresentare l’occasione per un invito a volersi bene, ispirasse azioni violente o malevole. E poi, mi sia consentito dirlo, tante, troppe prediche sul consumismo natalizio lasciano ormai il tempo che trovano o vengono inglobate e metabolizzate come una componente in fondo irrinunciabile del «gioco» stesso delle festività di fine anno.
No, l’appunto sul diario di Papini, pur nella sua estrema semplicità, indica qualcosa di ben più profondo che una tirata d’orecchie moralistica o pauperistica nei confronti di coloro che si accingono a vivere in pace, tra regali, pandori e cappone, qualche giorno con familiari e amici. Inconsapevolmente, anche chi non crede – e quanti non credono sono tanti, sono sempre di più – celebra a suo modo la nascita di Gesù Cristo. La celebra perché pur non credendo, festeggia il Natale, festa integralmente cristiana. La celebra quotidianamente, perché usa calcolare gli anni della sua vita, le date importanti, gli eventi felici e quelli dolorosi, le ricorrenze del matrimonio e della nascita dei suoi figli, secondo la datazione cristiana, che è la più diffusa nel mondo. Quella nascita della quale si fa memoria il 25 dicembre di ogni anno, avvenuta (all’incirca, e più avanti vedremo perché non c’è certezza in proposito) duemila anni fa finisce per condizionare molto della nostra esistenza. Mi disse il cardinale Giacomo Biffi alla vigilia del Giubileo, nel corso di un’intervista per Il Giornale che gli feci a Bologna: «La sua rilevanza (di Cristo, ndr.) si impone a tutti, credenti e non credenti. Chi scrive una lettera mettendo la data si richiama a Cristo, perché 1999 significa che sono passati quegli anni dalla sua nascita. Il giovanotto che la domenica si alza a mezzogiorno anziché presto come gli altri giorni, senza saperlo rende testimonianza alla resurrezione di Cristo. Chi a Natale mangia il panettone, inconsapevolmente rende onore a Cristo. Bisognerebbe conoscere più da vicino questa persona che condiziona così tanto alcuni aspetti della nostra vita».
Già, bisognerebbe. Eppure oggi, nella nostra società si parla e si polemizza molto sulle «radici cristiane» dell’Europa, sui «valori cristiani» che sono alla base della nostra civiltà, sul cristianesimo come sistema di valori e di cultura che ha influito non poco nel forgiare la nostra convivenza, dando quasi per scontata l’origine di tutto questo. Si ha talvolta la sensazione che al centro del dibattito e delle polemiche vi sia una sorta di cristianesimo che in fondo può fare a meno di Cristo, del legame vivo e presente con la persona che viene dichiarata essere la sua origine e il suo fine. Di fronte alle scarne parole di Papini, di fronte alla constatazione dell’indifferenza verso il fatto cristiano in sé, certi discorsi non facilitano, e forse talvolta rischiano persino inconsapevolmente di ostacolare la semplice comunicazione della «buona notizia» cristiana nella società scristianizzata.
Non è dunque inutile, a mio avviso, porsi la domanda su chi sia veramente quel bambino sulla mangiatoia la cui statuetta viene posta al centro dei nostri presepi. Chi sia, dove sia nato, e anche se sia veramente esistito. Quali sono state le circostanze della sua venuta al mondo, quali fonti abbiamo per raggiungere una qualche certezza su tutto ciò, quali i problemi che ci si aprono davanti cercando di scoprirlo. Tutto questo, ovviamente, non attiene in senso stretto al «significato» del Natale. Ma alla sua essenza sì. «In verità», ha scritto John P. Meier, «considerando l’incidenza di Gesù su tutta la civiltà occidentale, nessuno, di qualunque convinzione religiosa, può oggi essere considerato veramente istruito se non ha investigato, in qualche grado, ciò che la ricerca storica può dirci su questa enigmatica figura che ha scatenato una delle maggiori forze religiose e culturali del mondo. La vita religiosa inesplorata – o anche la vita antireligiosa – non merita di essere vissuta».
Non è inutile, oggi, un’inchiesta su Gesù Bambino. Un’inchiesta su quella nascita avvenuta a Betlemme (ma era davvero Betlemme?) in una notte di dicembre (ma era davvero notte? Ed era davvero dicembre?) di un paio di millenni fa. Notte misteriosa, muta testimone di un evento paradossale. Anzi, del paradosso dei paradossi. Per i cristiani, a nascere quella notte, in quello sperduto villaggio di un angolo remoto dell’impero romano, presso un popolo un po’ bizzarro e poco incline a farsi assoggettare, nell’oscurità di una stalla o di un caravanserraglio, è stato il figlio di Dio. L’essere supremo, colui che sta sopra i cieli e regola lo scorrere delle nostre esistenze, l’onnipotente, avrebbe scelto di incarnarsi nel grembo di una ragazzina, di venire al mondo come un bimbo qualsiasi, di diventare – lui, Dio – totalmente dipendente dalle cure di una giovanissima madre e di un più maturo padre, totalmente in balia di circostanze storiche. L’essere infinitamente potente avrebbe scelto di nascere nel modo più umile e più debole, sarebbe stato allattato come tanti suoi coetanei, educato in una povera casa, cresciuto giocando in un cortile. «La tradizione cristiana», scrive René Laurentin «ha penetrato da tempo questo enigma trascendente e semplice. L’Eterno ha sposato il temporale. Ha preso sul serio la condizione umana. L’ha rispettata. L’ha condivisa integralmente. La trascendenza divina non ha assorbito ma ha accettato consapevolmente l’umile umanità, con tutte le sue vicissitudini: dipendenza iniziale, crescita, debolezza, apprendistato della vita. L’Immutabile piange come qualsiasi neonato. L’Onnipotente, impotente entro le fragili membra umane, ha bisogno di una madre per essere nutrito e fasciato (Lc, 2,7). E accetta la nuova condizione di neonato con la stessa umiltà con cui aveva accettato la gestazione».
Per chi non crede, è indifferente o professa altre religioni, invece, ciò che si racconta di quella notte celebrata ogni 25 dicembre, non è altro che una melensa leggenda o, al massimo, una bella favola. Favola originale, da raccontare ai bambini per commuoverli, oppure fiaba da rigettare con indifferenza se non con repulsione perché impossibile, perché falsa, perché all’origine di quella forte e tuttora – nonostante tutto – consistente credenza così diffusa nel mondo. Comunque la si voglia vedere, un viaggio attraverso quelle ore considerate così decisive per l’esistenza dell’umanità al punto da dividere, per sempre, in due parti la sua storia – prima dell’avvento di Cristo, dopo la sua venuta – può risultare non inutile. Ed è per questo che lo propongo al lettore, cosciente più che mai dei miei limiti: non sono uno specialista, non sono un biblista, non sono un esegeta, non sono uno storico. Sono soltanto un cronista. Ma dato che il cristianesimo, come ci spiegano e ci ripetono gli uomini di Chiesa, è innanzitutto la comunicazione di una «buona notizia», sono portato a credere che quanto scritto sopra, in qualche modo, possa rientrare anche nelle mie (scarse) competenze professionali.
A.T.