S. Tommaso, Commento all’etica nicomachea

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San Tommaso d’Aquino, «Commento all’etica nicomachea di Aristotele», edizione tradotta in lingua italiana, ISBN 88-7094-333-X, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1998-2001, 2 voll., pp. 664+604, Euro 52.
 
 
Aristotele non ci invita ad essere virtuosi e a preferire la vita contemplativa degli esseri eterni perché così noi ne otterremo dei vantaggi: qui non si parla di pene o di premi che vengono da Dio. Nelle pagine dell’etica nicomachea semplicemente egli applica anche all’antropologia umana un principio fondamentale per spiegare ogni mutamento, progresso o perfezionamento: il ricorso a un principio superiore poiché il meno non può produrre il più. Quindi, anche nel momento in cui la perfezione morale attinge il divino che è oggetto della contemplazione, entra in un dinamismo in cui è Dio il principio, quale entelècheia, cioè fonte universale di ogni energia di qualsiasi tipo.
[…]
L’Aquinate non aveva studiato il greco; eppure, per il suo scrupolo di aderire al testo, si cimenta a volte con l’analisi dei lemmi, cioè di quei termini che la traduzione medievale gli fornisce. E’ vero che il testo non era sempre corretto, e quindi lo sforzo di Tommaso alla fine può risultare vanificato.
Ciò che conta, comunque, è che egli ha sempre cura di capire soprattutto il pensiero dello Stagirita: del resto, va ribadito che lo scopo del Commento non era una revisione filologicamente corretta, ma la dimostrazione che il vero Aristotele era conciliabile con il pensiero cristiano. Lo stesso Gauthier sembra rimproverare S. Tommaso di avere coscientemente ignorato tutto il "paganesimo" di cui trasuda l’Etica Nicomachea, e riporta i soliti temi della mancata asserzione dell’immortalità dell’anima individuale e della non affermata presenza di Dio nelle vicende umane.
Noi potremmo aggiungerne altri: p. es., una categoria che la morale aristotelica non ha è quella dei "perdono", che pure è indispensabile a una convivenza umana e serena, anche a prescindere dal messaggio evangelico.
A tali obiezioni va risposto che, ispirandosi a un principio di ricerca che lo stesso Gauthier approva ed esalta, Aristotele cerca di capire la realtà di quel groviglio di tensioni e di valori in cui si attua la morale concreta della singola persona, così come era riuscito a configurarne la struttura psicofisica.
Analogamente Tommaso vuole ricuperare in Aristotele elementi di un’etica fondata su quel tocco di divino che è la luce della ragione: un’impresa non facile, che tuttavia è riuscita a entrambi.
Del resto, pur con la "mortalità" dell’anima non è che l’impianto della Nicomachea perda qualcosa della sua organicità e stabilità: ogni azione ha per fine un bene, le passioni sono una potente energia interna, la giustizia conserva il rigore analitico che garantisce l’apertura sociale in cui lo Stagirita l’ha prospettata, l’amicizia vera non è facile perché è disinteressata, mentre dall’altro lato l’essere umano, annota S. Tommaso, ha molti difetti.
Inoltre non è vero che l’Aquinate chiude gli occhi per stendere un velo pietoso sulle affermazioni decisamente pagane del grande maestro del Liceo. Nei Riassunti prima dei capitoli abbiamo individuato alcuni passi in cui è evidente che l’Aquinate "soffre" di fronte a certe asserzioni non ammissibili dal cristianesimo: p. es. dove Aristotele nomina gli "dèi" Tommaso si premura di precisare che "questa è la denominazione che i pagani davano alle sostanze separate". Va aggiunto però che spesso lo Stagirita parla anche di Dio al singolare.
Per ciò che concerne l’immortalità dell’anima, l’Aquinate cita spesso i testi dell’Anima in cui la questione è chiaramente dibattuta da Aristotele. Infatti la comprensione di un brano non si esaurisce in un lavoro di ricostruzione corretta del testo e di una ricerca filologica del processo storico in cui si sono formate le parole che l’autore utilizza. E sempre essenziale cogliere il senso profondo e organico del pensiero che il testo esprime e del messaggio che, con esso, l’autore ci trasmette.
Da questo punto di vista è innegabile il contributo di Tommaso all’ermeneutica della morale aristotelica. Ricordiamo che mentre dettava questo Commento l’Aquinate componeva la parte morale della Somma Teologica (I II, II II). Per una valutazione completa di tale scritto il lavoro tommasiano del Commento all’Etica Nicomachea è decisamente indispensabile, come ammette lo stesso Gauthier.
Non si dimentichi, poi, che l’inutile condanna dell’arcivescovo di Parigi Tempier, nel 1274, è una censura che vuole colpire Tommaso non meno che Aristotele.
Si è così verificata un’interessante analogia: come Aristotele è rimasto famoso per la Metafisica, così Tommaso è noto per il modo scientifico di fare teologia. Ne è la prova la sua Somma, dove tratta di Dio, degli Angeli, della Grazia e dei Sacramenti.
Tuttavia, per comune consenso dei tomisti, le pagine più creative e geniali dell’Aquinate sono quelle della sua morale. Il motivo è che, al di là di ciò che attiene all’originalità di un lavoro, ciò che affascina la persona è il poter specchiare il proprio essere in modo da scoprime le meravigliose potenzialità.
In altre parole, la morale è più interessante perché implica necessariamente l’analisi di quali altezze l’essere umano può realizzare nella vita quando dà il meglio di sé. Ciò vale anche per la morale alla luce della Rivelazione praticata con il sostegno della grazia di Cristo che è via, verità e vita.
Analogamente le pagine più avvincenti di Aristotele sono quelle della sua ricerca sull’etica quando la persona si ritrova in un discorso autentico che ha gli accenti del sublime: esaltare la mitezza nel mondo greco dell’epoca, in cui le guerre con le sue atrocità di stragi, furti e deportazioni costituivano la realtà frequente di quei piccoli Stati, non è impresa meno pregevole che avere avuto il coraggio di criticare già da giovane il "mondo delle idee" dei grande Platone.
La fama che valica i secoli si nutre anche di queste testimonianze che un lettore critico non può non avvertire.
 

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LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E TOMMASO D’AQUINO
di Antonio Livi 
Tratto da "Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia", Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005.

La metafisica in rapporto all’etica
A partire da Kant l’orientamento comune è stato di scavare un solco profondo tra etica e metafisica. Per Kant la separazione delle due discipline era inevitabile, data la totale incapacità della metafisica di raggiungere verità certe intorno alla realtà (la cosa in sé, il noumeno) e l’esigenza nello stesso tempo di fornire criteri sicuri dell’agire umano. Così Kant poté elaborare una Critica della ragion pratica interamente svincolata dalla Critica della ragion pura. Più recentemente Emmanuel Lévinas, dopo aver respinto le pretese totalizzanti della metafisica, ha conferito all’etica stessa compiti metafisici: «La morale ha una portata indipendente e preliminare. La filosofia prima è un’etica». L’etica non è impiantata nella metafisica, ma è essa stessa la metafisica. In effetti, a parere di Lévinas, soltanto l’etica può fornire la spiegazione esaustiva e conclusiva della realtà umana, non l’antropologia, la sociologia, la psicologia, la cosmologia, la metafisica. Molto più drastiche e pesanti erano state le critiche di Nietzsche: per far nascere il superuomo è necessario spezzare tutte le catene con cui la cultura ellenico-cristiana ha imprigionato l’uomo, in particolare le catene della metafisica (platonica) e della morale (cristiana). Ciò che si può concedere alle molteplici critiche mosse dalla filosofia moderna e contemporanea alla metafisica classica è la sua inettitudine a procurare un adeguato fondamento alla morale a causa di una concezione troppo essenzialistica dell’essere che ignora il primato assoluto della persona non solo nell’ordine assiologico ma anche ontologico. Solo una robusta metafisica della persona può fornire un proporzionato fondamento all’agire della persona e pertanto all’ordine morale. Per questo, assicurare una fondazione metafisica alla morale vuol dire mettere alla base della morale non una metafisica della sostanza (Aristotele), dell’uno (Plotino), della monade (Leibniz), ma una metafisica dell’uomo considerato come persona. L’opera in cui Tommaso chiarisce meglio i rapporti tra etica e metafisica è il suo commento all’Etica nicomachea, approfondendo il pensiero di Aristotele che su questo punto era stato di un’estrema chiarezza. Nella sua opere Aristotele aveva affrontato la questione dei rapporti tra ragion pratica e ragion speculativa a più riprese e la soluzione che aveva proposto era sempre la stessa: relativa autonomia della disciplina morale, la quale dispone di un oggetto e di princìpi propri, e, allo stesso tempo, sostanziale subordinazione del pensiero morale al sapere speculativo. Questa è anche la tesi che Tommaso fa sua, arricchendola di ulteriori considerazioni, nel suo splendido commento. La questione dei rapporti tra le diverse forme di sapere si presenta subito nel primo capitolo, dove Aristotele afferma che tutto l’agire umano è ordinato a qualche fine e che tra i vari fini esiste un certo ordine a seconda della loro importanza. Lo stesso ordine si rispecchia anche nelle operazioni e nelle scienze, perché «i fini delle scienze architettoniche sono più importanti dei fini di quelle subordinate. Infatti solo in funzione di quelli si seguono anche questi». Commentando questo capitolo Tommaso dice che compito della ragione è “conoscere l’ordine delle cose”. E qui egli distingue subito quattro tipi di ordine e quindi quattro modi di rapportarsi della ragione all’ordine. I quattro ordini sono quello ontologico, quello logico, quello morale e quello artistico. Rispetto all’ordine ontologico, «la ragione si limita a constatare, poiché [la realtà] non è frutto della sua opera»[33]. Rispetto all’ordine logico, la ragione «lo realizza nell’atto suo proprio: per esempio quando ordina tra loro i suoi concetti e i segni dei concetti, perché si tratta di voci significative»[34]. Anche nell’ordine morale è protagonista la ragione; è infatti «l’ordine che la ragione, riflettendo, effettua nelle azioni volontarie»[35]. Della stessa padronanza gode la ragione rispetto all’ordine artistico: è infatti «l’ordine che la ragione realizza negli esseri esterni di cui essa è la causa»[36]. Subito dopo Tommaso precisa che a ciascun ordine corrisponde un genere di sapere e di scienza; infatti, «le diverse scienze derivano dai diversi ordini che sono oggetto di una specifica considerazione della ragione»[37]. La filosofia naturale «ha come oggetto proprio l’ordine degli esseri su cui la ragione umana riflette senza esserne la causa, e nell’àmbito della filosofia naturale facciamo rientrare anche la metafisica»[38]. La logica o filosofia razionale realizza l’ordine della ragione stessa, «considerando l’ordine delle parti del discorso tra di loro, e l’ordine dei princìpi tra di loro e in relazione alle conclusioni»[39]. La filosofia morale «riflette sull’ordine delle azioni della volontà»[40]. Nelle arti meccaniche «la ragione concretizza l’ordine delle cose esteriori come elaborazione del pensiero umano»[41].I tre ordini — logico, etico e artistico — nei quali la ragione è protagonista sono subordinati all’ordine ontologico, di cui la ragione è solo umile testimone. Infatti la logica ordina la ragione speculativa alla conoscenza dell’essere e del vero. La morale ordina la ragione pratica alla conoscenza e alla realizzazione del bene. L’arte ordina la ragione alla conoscenza e all’attuazione del bello e dell’utile. Ma l’essere, il vero, il bene, e il bello cadono tutti sotto la considerazione della metafisica, la quale quindi svolge un ruolo architettonico rispetto a tutte le altre scienze e modi del sapere. Così, dalla ripartizione dei vari ordini a cui si trova relazionata la ragione umana già si evince la subordinazione della morale alla metafisica. Ma su questo punto il pensiero di Tommaso è molto più preciso e articolato e ne parla diffusamente soprattutto nei libri VI e X del Commento all’Etica nicomachea. Gli argomenti principali con cui egli giustifica la subordinazione della morale alla metafisica sono tre: il primo si basa sulla subordinazione della prudenza (regina delle virtù morali) alla sapienza; il secondo sulla subordinazione del bene all’essere; il terzo sul primato della contemplazione della divinità nel conseguimento della felicità.
Nella concezione tommasiana la subordinazione del bene all’essere e quindi della morale alla metafisica è ancora più accentuata che in Platone, in Aristotele e nei neoplatonici. E non si tratta semplicemente di una subordinazione logica ma anche ontologica, reale. C’è anzitutto una subordinazione logica in quanto il concetto di esse nella sua vastità estensiva e nella sua ricchezza intensiva abbraccia ogni altro concetto[42]. Ma c’è anche una rigorosa e profonda subordinazione ontologica, perché il bene che presiede all’ordine dell’agire umano non è altro che una facciata dell’essere, è l’essere stesso visto in quanto appetibile. Per precisare in che modo il bene aggiunge qualche cosa all’essere Tommaso distingue tre generi di aggiunte: a) l’aggiunta dell’accidente riguardo alla sostanza di qualche cosa che non appartiene alla sua essenza o definizione; b) l’aggiunta di una specie al genere, contraendolo e determinandolo in tal modo che il genere diviene parte della sua definizione; c) l’aggiunta che si ottiene mediante la privazione, la quale aumenta la nostra conoscenza di una cosa senza tuttavia aggiungere un nonché di reale alla cosa stessa. Per esempio, quando aggiungiamo il termine “cieco” al termine “uomo” noi richiamiamo la nostra attenzione a una mancanza e non a una aggiunta nell’ordine reale: l’aggiunta avviene soltanto sul piano concettuale e non sul piano dell’essere. In base a questa divisione, ci si aspetterebbe che Tommaso collocasse l’aggiunta del bene all’essere nel secondo tipo, e invece egli non lo fa, anzi lo esclude esplicitamente; infatti, come il bene non è un “accidente“ così non è pure una specie particolare di essere. Il genere di aggiunta a cui appartiene il bene riguarda l’ordine concettuale, logico, non quello reale: «È necessario che il bene, per il fatto che non contrae l’ente, aggiunga all’ente qualche cosa che sia soltanto di ragione. Ora, ciò che è soltanto di ragione non può essere che duplice, cioè o una negazione o qualche relazione. Infatti, ogni positività assoluta significa qualcosa di esistente nella realtà. Così dunque all’ente, che è la prima nozione dell’intelletto, l’uno aggiunge soltanto di ragione una negazione: si dice infatti uno nel senso di ente indiviso; invece il vero e il bene si dicono positivamente, per cui non possono aggiungere se non una relazione di ragione. […] È necessario dunque che il vero e il bene aggiungano al concetto di ente la relazione di ciò che è perfettivo (rispetto all’intelletto oppure rispetto alla volontà)»[43].
Il primato dell’essere è un primato che sottende anche l’ordine dell’agire. In effetti il bene (o valore), che è ciò che muove all’agire, non esula dall’ordine dell’essere ma lo presuppone e trova proprio in esso il suo coronamento. L’agire, come precisa Tommaso, tende sempre all’essere, è anelito di essere, come poi dirà nell’Action Maurice Blondel.
Il modo con cui Tommaso stabilisce la tesi della subordinazione della morale alla metafisica può anche lasciare perplessi, perché non è chiaro come uno studio delle cause ultime e delle realtà divine possa diventare un utile strumento di guida per l’agire umano nella contingenza storica. Per orientare l’uomo nella sua condotta morale non basta infatti una metafisica delle realtà separate (Dio e gli Angeli) ma occorre una metafisica dell’uomo stesso, una metafisica della persona umana. In effetti si possono fissare solide basi per l’agire umano soltanto se si chiarisce il mistero della persona: ossia se si fa vedere che l’uomo non è una realtà esclusivamente materiale, bensì una realtà primariamente spirituale, vale a dire un ente sussistente nell’ordine dello spirito, una persona. Non si può prescrivere all’uomo — come pretende il formalismo kantiano — di obbedire all’imperativo categorico; non si può imporre alcun precetto alla coscienza se non c’è consapevolezza critica, in colui che sottostà a tali precetti, sulle ragioni per cui è tenuto a osservarli. La questione ontologica precede necessariamente la questione etica. La metafisica della persona precede l’etica della persona. Ciò manca — come ordine logico — alla nuova filosofia morale del Novecento, e in particolare all’etica anti-intellettualistica e antimetafisica della filosofia ebraica (Martin Buber, Vladimir Jankélévitch, Emmanuel Lévinas), che pure è ricchissima di intuizioni valide.
Compito della metafisica è assicurare un solido fondamento alle realtà finite e pertanto contingenti riconducendole ai loro supremi princìpi. La metafisica dell’essere radica e salva gli enti collegandoli all’esse ipsum subsistens. La metafisica dell’uomo fonda e salva il suo essere saldandolo strettamente alla dimensione dello spirito (dimostrando la spiritualità dell’anima e dotandola di un proprio actus essendi) ed elevandolo in tal modo al grado di persona, che è sempre un sussistente nell’ordine dello spirito: è un “subsistens rationale vel intellectuale” secondo la definizione di Tommaso. La metafisica fonda la morale proprio perché chiarisce che lo spirito dell’uomo è uno spirito incompiuto e imperfetto, il quale è chiamato alla piena realizzazione di sé stesso facendo il bene ed evitando il male. L’agire morale, insomma, presuppone — sia pure al livello inespresso del senso comune — precise certezze metafisiche. La prima certezza è che l’uomo sia una persona e non una cosa. La seconda è che il mondo umano in quanto mondo dello spirito sia un mondo sensato: che sia un regno dei fini e non della necessità o del caso; un regno dove si afferma l’essere piuttosto che il non-essere, il significato piuttosto che la perdita di senso. La terza è che l’uomo sia un essere incompiuto, un progetto anziché un’opera finita, e che proprio mediante l’agire morale — agire per il bene e secondo il bene — egli possa autodeterminarsi verso il proprio compimento. In breve: la metafisica chiarisce all’uomo che nel profondo del suo essere egli appartiene all’ordine dello spirito; la morale è la ragione che guida l’uomo nell’ardua fatica della piena realizzazione di sé come spirito finito proteso verso l’infinito.