Padre Pio, l’ultimo sospetto. La verità sul frate delle stimmate

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\"\"Saverio GAETA – Andrea TORNIELLI, Padre Pio, l’ultimo sospetto. La verità sul frate delle stimmate, Edizioni Piemme 2008, 240 pagine, ISBN: 8838499616, euro 14,90

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Smontate, grazie anche a documenti inediti, le accuse e gli ultimi sospetti sollevati contro il santo del Gargano nel volume dello storico Sergio Luzzatto: le stimmate non furono procurate dall’acido fenico e dalla veratrina, Papa Giovanni fu male informato da alcuni collaboratori, non esistono «filmine» con prove contro Padre Pio. E il libro di Luzzatto contiene numerosi e gravi errori storici nonché una lettura parziale dei documenti, con evidenti omissioni delle parti che risultano incongruenti alla tesi del suo libro. Acido fenico e veratrina
Si è molto parlato della testimonianza resa a monsignor Salvatore Bella, vescovo di Foggia, dalla farmacista Maria De Vito e da suo cugino Valentino Vista nel luglio del 1920, a due anni da quel 20 settembre 1918 in cui Padre Pio aveva ricevuto le stimmate mentre stava pregando nel coro del convento. Un documento conservato nell’Archivio del Sant’Uffizio. Il farmacista Vista denunciò che la cugina, tornando da San Giovanni Rotondo, «mi portò i saluti di Padre Pio e mi chiese a nome di lui e in stretto segreto dell’acido fenico puro, e mi presentò una bottiglietta della capacità di un cento grammi, datale da Padre Pio stesso». Leggiamo immediatamente la deposizione di Maria De Vito, allegata anch’essa al faldone conservato nell’Archivio della Congregazione della Dottrina della fede: «Mi consegnò personalmente una boccettina vuota, richiedendomi che gliela facessi pervenire a mezzo dello chaffeur che prestava servizio nell’autocarro passeggieri da Foggia a S. Giovanni, con entro quattro grammi di acido fenico puro, spiegandomi che l’acido fenico serviva per la disinfezione delle siringhe occorrenti alle iniezioni che egli praticava ai novizii di cui era maestro». Nel fascicolo si trova un biglietto autografo di Padre Pio nel quale è scritto fra l’altro: «Ho bisogno di aver da duecento a trecento grammi di acido fenico puro per sterilizzare».
Emergono immediatamente diverse perplessità, a partire dal motivo per cui Padre Pio diede alla De Vito il biglietto. Luzzatto suggerisce che era per il timore di non poter comunicare a tu per tu: ma se le ha consegnato la boccettina è evidente che le ha potuto parlare. E questo è il primo mistero. Il secondo mistero è relativo alla quantità di acido fenico chiesta dal cappuccino: nel bigliettino di Padre Pio si legge «da duecento a trecento grammi», la dichiarazione giurata della De Vito afferma «quattro grammi», il rapporto del cugino farmacista asserisce che gli è stata presentata «una bottiglietta della capacità di un cento grammi». Non risulta strano che Padre Pio chiede almeno duecento grammi e dà una boccetta che ne contiene appena cento?
Ancora un nuovo mistero: nel bigliettino non c’è alcun riferimento alla segretezza della richiesta, asserita dalla De Vito e dal cugino. Ma Padre Pio, per la consegna “in segreto” della sostanza, dice nel suo biglietto di far riferimento allo chaffeur del servizio automobilistico Foggia-San Giovanni Rotondo. Con tutto il rispetto per l’autista, non sembrerebbe la persona più adatta a svolgere una qualsiasi attività “segreta”, visto che su quell’autobus passavano e chiacchieravano tutti i sangiovannesi.
Procediamo con l’analisi della provocazione lanciata da Luzzatto: «Se davvero Padre Pio necessitava di acido fenico per disinfettare le siringhe con cui faceva iniezioni ai novizi, perché mai procedeva in maniera così obliqua, rinunciando a chiedere una semplice ricetta al medico dei cappuccini, trasmettendo l’ordine in segreto alla cugina di un farmacista amico, e coinvolgendo nell’affaire l’autista del servizio pullman tra Foggia e San Giovanni Rotondo?».
Non è occorso troppo sforzo per trovare alcune possibili risposte. Innanzitutto in quei mesi anche a San Giovanni Rotondo si continuava a vivere nel clima di paura per l’epidemia influenzale spagnola, che rendeva necessaria una accurata disinfezione delle siringhe. Si può dunque ragionevolmente ipotizzare che episodicamente sostanze antisettiche come l’acido fenico mancassero nel paese e fosse perciò necessario dirigersi verso il capoluogo. Ce lo documenta la testimonianza di padre Ignazio da Jelsi a riguardo dell’intervento chirurgico che Padre Pio subì nel 1925 all’ernia: nonostante si fosse in anni ormai meno disagiati rispetto a quelli dell’immediato dopoguerra, la sera precedente l’operazione mancava la novocaina e si dovette andare a Foggia per procurarla. Un’altra ipotesi realistica è il desiderio di Padre Pio di non gravare sulle casse della comunità, in quanto, chiedendolo alla De Vito, egli sapeva che il materiale gli sarebbe giunto gratuitamente.
È opportuno aggiungere che mai, in ogni caso, l’acido fenico avrebbe potuto causare e mantenere le profonde lesioni del frate, che i medici Luigi Romanelli e Giorgio Festa avevano potuto osservare accuratamente, riscontrandone la profondità, come un foro che attraversava mani e piedi, ricoperto soltanto da una membrana di pelle e di croste sanguigne. A riprova, leggiamo qualche autorevole testo dei nostri giorni: il vademecum Martindale attesta che «severo o fatale avvelenamento può verificarsi per l’assorbimento di fenolo attraverso la pelle o le ferite [e] soluzioni contenenti fenolo non devono essere applicate su vaste aree della pelle o ampie ferite poiché può essere assorbito sufficiente fenolo da dare luogo a sintomi tossici», mentre il prontuario Effetti indesiderati da farmaci chiarisce che l’acido fenico «a livello cutaneo può provocare necrosi coagulativa superficiale», ossia non favorisce ma blocca l’emorragia sanguigna. Nessun dubbio: l’uso continuato dell’acido fenico sulla pelle, anche soltanto per qualche mese, avrebbe causato danni irreparabili ed evidentissimi (figuriamoci per un cinquantennio!).
Passiamo alla seconda presunta “bomba” tirata fuori da Luzzatto nel suo libro su Padre Pio, sempre attraverso la citazione del rapporto del farmacista Valentino Vista: «Dopo poco tempo dalla richiesta dell’acido fenico venne una seconda richiesta. […] Appena la lessi mi venne il sospetto che i 4 gr. di veratrina richiesti da P. Pio servissero al medesimo per procurarsi o rendere più appariscenti le stigmate alle mani». Considerate tali esplicite accuse, il visitatore apostolico Carlo Raffaello Rossi – inviato a San Giovanni Rotondo dal Sant’Uffizio – mise alle strette il cappuccino nell’interrogatorio del 15 giugno 1921:
«Interr. Se abbia richiesto in passato la veratrina, e per quale scopo. Risp. Sì, lo ricordo benissimo. La richiesi, senza conoscerne neppur l’effetto, perché il P. Ignazio Segretario del Convento, una volta mi dette una piccola quantità di detta polvere per metterla nel tabacco e allora io la ricercai più che altro per una ricreazione, per offrire ai Confratelli tabacco che con piccola dose di questa polvere diviene tale da eccitare subito a starnutire».
Qual è stato il commento dello storico Luzzatto a tale riguardo? Nel suo libro ha sostenuto «la scarsa verosimiglianza di giustificazioni come queste», mentre in televisione ha affermato con tono sarcastico che «le spiegazioni che lui dava erano delle volte sorprendenti». Era sufficiente invece recarsi in biblioteca e consultare il volume Medicamenta. Guida teorico-pratica per sanitari, una specie di “bibbia” per i farmacisti, che già nell’edizione del 1914 propone folgoranti parole che tramortiscono le irrisioni di Luzzatto: «La veratrina del commercio è una polvere […] assai irritante per le mucose e starnutatoria. […] Polvere bianca, leggera, che irrita la congiuntiva ed eccita violentemente lo starnuto. […] Fiutata provoca sternuti, lacrimazione e catarro nasale, spesso anche tosse».
Insomma, Padre Pio aveva pienamente ragione: in sostanza era qualcosa di simile a quelle polverine che prudevano e facevano starnutire, utilizzate ancora dai ragazzi degli anni Settanta a Carnevale! E che lo storico abbia “annusato” la verità ma abbia fatto finta di nulla ce lo documenta la colpevole assenza nel suo libro della testimonianza sotto giuramento di padre Ignazio da Jelsi, sempre dinanzi al vescovo Rossi, visitatore apostolico vaticano: «La veratrina ce l’ho. In un altro Convento avevamo farmacia per la Comunità, numerosissima. Un farmacista me ne dette un grammo e ne conservo. Una sera scherzando coi confratelli feci provare che effetto produce avvicinandola al naso. Ne prese anche P. Pio e bisognò che andasse in cella perché non cessava dallo starnutire». Questa dichiarazione è importantissima: attesta che davvero la veratrina venne usata per uno scherzo e soprattutto conferma le parole che Padre Pio, dopo aver giurato sul Vangelo, disse al visitatore apostolico Rossi. Perché Luzzatto ha omesso questa testimonianza, presente e consultabile nel fascicolo del Sant’Uffizio? Perché non se ne trova traccia nel suo libro? Forse perché citandola si sarebbe smontato il «sospetto» di un Padre Pio impostore, o «piccolo chimico» (come Luzzatto lo definisce), che gioca con gli acidi per procurarsi i segni della passione di Cristo? Spiace notarlo, ma la scelta di omettere del tutto questa dichiarazione giurata di un confratello di Padre Pio, in grado di avvalorare la spiegazione che lo stesso frate stimmatizzato aveva sinceramente fornito, mostra a nostro avviso la parzialità del volume dello storico.

Le parole di Giovanni XXIII e le «filmine»
Un altro dei contenuti del libro di Luzzatto che più hanno fratto scalpore è quello relativo ai giudizi dati da Papa Giovanni sul frate con le stimmate al tempo della «visita Maccari», nel 1960. Il Papa Buono giunse al punto da definire Padre Pio un «idolo di stoppa». Il suo fedele segretario, l’arcivescovo Loris Francesco Capovilla, ha recentemente dichiarato che «da parte di Giovanni XXIII non c’era alcun pregiudizio: erano gli uffici a trasmettere notizie negative su quanto avveniva a San Giovanni Rotondo e il Papa non poteva che prenderne atto». La vicenda più delicata fu quella relativa ai nastri su cui erano incisi i colloqui del cappuccino con alcune penitenti, abusivamente registrati per iniziativa da un monsignore romano in collaborazione con due frati del convento. Chi ha letto il testo di Luzzatto si è trovato di fronte a una delle situazioni più incresciose, a partire dal titoletto dato al paragrafo nel quale viene narrata la vicenda: «Le ghiottonerie e le filmine». Con quest’ultima parola lo storico si riferisce a un appunto manoscritto nel quale Giovanni XXIII annotò «la scoperta per mezzo di filmine, si vera sunt quae referentur, dei suoi rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana sin qui infrangibile intorno alla sua persona». L’inciso «se sono cose vere quelle che vengono riferite» è superato di slancio da Luzzatto, il quale non ha il buon gusto, né sente il dovere morale, di chiarire da qualche parte che si tratta di bobine registrate e non di pellicole audiovisive.
Ciò che in realtà era accaduto aveva invece i caratteri del malinteso, seppur grave oltre ogni limite. Occorre infatti considerare che il cardinale Domenico Tardini, segretario di Stato vaticano, aveva chiamato per telefono monsignor Loris Capovilla e lo aveva invitato «a scendere nel suo appartamento per prendere le bobine delle “registrazioni” e farle ascoltare al Papa. Papa Giovanni non volle, dicendo che tutta la vicenda era in mano ai responsabili del S. Officio: esaminassero in coscienza». Nel descrivere l’oggetto, il cardinale Tardini utilizzava impropriamente il termine «films», volendo intendere le grandi bobine magnetiche dell’epoca, mentre Roncalli aveva forse interpretato il termine come «filmati». A documentare l’equivoco ci resta il dettagliato appunto manoscritto, da noi ritrovato e pubblicato nel libro, preparato dal cardinale Tardini per la riunione del Sant’Uffizio del 13 luglio 1960, nel quale fra l’altro si legge che «allo stato attuale della documentazione, sia le lettere delle fedelissime, sia i films non costituiscono la prova di vere e proprie colpe».

Un morto cancellato dalla storia faziosa.
Non si può infine non far notare un’altra grave omissione presente nel libro di Luzzatto, che contribuisce a falsare la storia degli eventi che egli stesso ha voluto collegare a Padre Pio, come nel caso del cosiddetto «eccidio di San Giovanni Rotondo».
Il libro dello storico su Padre Pio è attraversato da un unico «filo rosso», da un’unica chiave interpretativa della figura del frate stimmatizzato: quella della sua (presunta) contiguità con il fascismo, al punto da farne un’icona del «clerico-fascismo» . Che sia proprio questa la lente attraverso cui egli legge la biografia del futuro santo lo indicano i titoli di due capitoli del suo volume: «Arditi di Cristo?» e «Stigmate littorie». Il primo dei due si apre con la descrizione del cosiddetto «eccidio di San Giovanni Rotondo» , avvenuto il 14 ottobre 1920. Un evento che nel libro in questione viene artatamente associato a Padre Pio, il quale ben due mesi prima – vale a dire il 15 agosto – aveva semplicemente benedetto i labari delle associazioni di ex combattenti e mutilati, tra l’altro per obbedienza a una indicazione dei Superiori francescani.
Ecco i fatti. Quella mattina del 14 ottobre un corteo socialista, formato da circa seicento persone, attraversò le strade di San Giovanni Rotondo per accompagnare in Municipio i nuovi consiglieri comunali, i quali si ripromettevano di esporre sul balcone del palazzo la bandiera rossa al posto del tricolore italiano. Si era in quello che sarà definito il «biennio rosso»: i socialisti, usciti vincitori seppur di misura dal responso delle urne, spingevano per una resa dei conti sospinti dall’ala massimalista del partito. Per i loro oppositori politici – un centinaio di aderenti al fascio, riunitisi sul lato opposto di piazza dei Martiri – tale gesto risultava una provocazione antipatriottica, alla quale si erano ripromessi di reagire anche usando la forza. Carabinieri ed esercito erano stati messi sull’avviso nei giorni precedenti e avevano allestito un nutrito servizio d’ordine: alla decina di carabinieri della locale caserma se ne erano aggiunti di rinforzo un’altra quarantina, insieme con una compagnia di un’ottantina di fanti comandata da due tenenti. Ma le provocazioni fra i due schieramenti ideologici innescarono una spirale di violenza e la situazione si evolse rapidamente in una mortale sparatoria, il cui bilancio è per lo storico di «undici caduti “rossi” su undici» . Scrive proprio così, nero su bianco. Tutti i morti, a suo dire, furono «rossi».
Ciò che invece davvero accadde è riportato nella documentata e imparziale relazione dell’ispettore Vincenzo Trani, lodata da Luzzatto, che la utilizza ma ne dimentica una pagina fondamentale, quella dove si legge che in quella occasione «un carabiniere cadde mortalmente ferito, ed a tanta impreveduta aggressione rispose il fuoco che fu aperto dai carabinieri. […] Il carabiniere Imbriani di fatti cadde vittima di un colpo sparatogli contro da un borghese che si era impadronito da uno dei fucili tolti dalle mani dei soldati» . Non vogliamo credere che la morte del carabiniere (il motivo scatenante della sparatoria e dell’eccidio) sia stata volutamente taciuta da Luzzatto, preferiamo pensare si sia trattato di una gravissima svista. Certo, fa riflettere e meditare la pagina 110 del suo libro, dove campeggia la fotografia della lapide in memoria dell’eccidio, da lui stesso scattata (come ci ha personalmente dichiarato al termine della trasmissione «Matrix»): basta osservarla, per notare che a fianco del sesto nome nella lista, quello di Imbriani Vito, è esplicitamente annotato «carabiniere». Lo si può leggere a occhio nudo sulla foto da lui pubblicata, ma, nei testi di quelle pagine, il povero Imbriani scompare, è un fantasma, un morto che non esiste, nonostante che la sua memoria sia stata incisa sulla pietra e sia tuttora appesa nella pubblica piazza. L’uccisione del carabiniere, lo ripetiamo, aveva provocato la dura reazione dei commilitoni e dei fanti. Non può essere certo considerata un incidente collaterale, da omettere. È un elemento fondamentale per comprendere quel doloroso episodio.
Del resto nessuna fonte relativa a quella giornata ignora la morte del militare: soltanto Luzzatto si permette di farlo. Persino l’«Avanti», nella sua pur faziosa ricostruzione, scrisse allora con chiarezza che «un carabiniere, […] tale Imbriani, fu colpito da un proiettile di moschetto, e morì mentre veniva trasportato a Foggia».
È soltanto uno dei tanti, tantissimi esempi riportati nel libro di Gaeta e Tornielli che – ad avviso dei due autori – smontano la tesi del libro di Luzzatto.

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