RODOLFO CAROSELLI, Uomini nel tramonto, con una prefazione di Luigi De Marchi, Edizioni Interculturali, Roma , 2004, pp. 330, € 14,00
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Con il romanzo Uomini nel tramonto. Una storia del tempo dei Longobardi (Edizioni Interculturali, Roma, 2004, pp. 334, euro 14.00), Rodolfo Caroselli ha scritto come sua opera prima in fatto di narrativa un testo che si rivela ogni giorno sempre più attuale. Il titolo già lo implica e suggerisce: l’autore guarda all’Italia del VI secolo invasa dalle popolazioni germaniche, ma tiene la mente rivolta anche ad un altro tramonto, quello della civiltà europea attuale assillata dalle sue crisi intellettuali, morali, politiche e alle prese con il problema capitale delle immigrazioni. L’interesse per il tema è particolarmente acuito dalla professione del narratore, funzionario al Ministero degli Esteri e dunque provvisto, circa i problemi socioculturali odierni, della competenza che gli deriva dal poterli considerare da un punto di osservazione privilegiato.
Lo sfondo dei fatti raccontati è la penisola italiana conquistata dai longobardi e malamente difesa dai latini nonché da una debole autorità imperiale, che ha oltretutto il suo centro direttivo nella lontana Bisanzio. Il protagonista, il giovane Felice, ultimo sopravvissuto di una grande famiglia senatoriale romana, viene sottratto alla ferocia dei servi in rivolta da parte di Unulf, un duca longobardo a sua volta tradito e braccato da altri grandi del suo popolo per motivi di rivalità nel potere. I due si uniscono in un viaggio che dalle terre della Lucania li vede dapprima spostarsi a Vivarium, in Calabria, dove vengono accolti dall’ultimo grande della romanità, il monaco Aurelio Cassiodoro (490-583). Inviati quindi da lui a Roma per consegnare una missiva al papa Giovanni, per l’accavallarsi di eventi svariati e imprevisti passano per Tarentum, Ravenna, Pavia, la Tuscia, riuscendo solo alla fine ad arrivare nell’Urbe, dove si incontrano col saggio Prefetto che di lì a qualche anno, dopo aver preso gli ordini sacri, diventerà il pontefice passato alla storia col nome di Gregorio Magno (590-604).
Gli episodi in cui si trovano coinvolti entrambi gli amici costituiscono trama e ordito della narrazione e mostrano tutta la fertilità di un’inventiva che per il gusto dei colpi scena, la verve dei dialoghi, la curiosità erotica, il senso del paesaggio, ricorda quella del romanzo antico, dal Satyricon di Petronio (m. 66 d.C.) all’Asino d’oro di Apuleio (125-170) agli Amori di Dafne e Cloe di Longo Sofista (sec. III d.C.) Di fatto, quella ritratta è la vita di sempre, dei piccoli e dei grandi, con gli accidenti, gli incontri-scontri e i contrattempi che ci rendono terribile, cara, tragica, affascinante, la nostra umana avventura, e che nella trascrizione letteraria del nostro romanzo sanno in effetti avvincere l’attenzione, meravigliare, porre problemi.
Su questi momenti salienti si innestano spontaneamente gli argomenti forti della rappresentazione. L’intreccio si snoda tra due punti focali, Vivarium e Roma. Il primo è il centro di un cristianesimo che ha fatto la scelta umanistica. Cassiodoro (che in quanto amico di famiglia di Felice lo accoglie con grande affetto) ha costruito (e così fu nella realtà) un monastero il cui fulcro sono una legatoria, uno scriptorium, una biblioteca che è, per il tempo, la più grande del mondo. I monaci che vi sono impegnati costituiscono una comunità perfetta, sia a livello materiale (l’organizzazione pratica è completa, efficiente, un ingranaggio ben oliato e ben funzionante), sia a livello spirituale e intellettuale, visto che la produzione di nuove opere è dovuta alla collaborazione degli autori presenti nel monastero che, prima di mettersi a scrivere, discutono gli argomenti tra di loro, si scambiano pareri, confrontano i risultati. La validità di questa impostazione di vita appare tanto più attendibile in quanto la realtà sociale attorno ad essa è caos, decadenza, violenza, rovina.
Per contro, attraverso la conoscenza del Prefetto Gregorio a Roma, Felice viene in contatto con un cristianesimo che opta per una scelta spiritualistica. Quando Gregorio porta il suo giovane ospite sul Palatino a vedere l’antica aula dove per secoli gli imperatori hanno amministrato la giustizia su tutto il mondo, gli mostra il soffitto che sta per cadere da un momento all’altro. L’edificio, ormai abbandonato e deserto da tempo, testimonia che tutte le cose di quaggiù, anche le più grandi e durature, sono comunque destinate a passare. Lo stesso destino subiscono le opere della volontà, della logica, della ragione umana, “i cui perniciosi sottoprodotti”, osserva Gregorio, “si fanno chiamare arte, scienza, cultura quando non siano chiaramente finalizzate alla realizzazione del messaggio divino.” Come egli dice, la verità è che anche nel cristianesimo e del cristianesimo si salva unicamente ciò che è costruito su ciò che non può perire, lo spirito. Dunque solo la “città di Dio”, la Chiesa, è incorruttibile, e solo su di essa e sulla purezza della sua missione – non sui suoi riverberi terreni per quanto elevati – si può contare per l’avvenire del cristianesimo e della civiltà. Ecco perché agli occhi di Gregorio il fervore umanistico di Cassiodoro appare degno di rimprovero. La volontà di Cassiodoro di salvare attraverso solerti schiere di copisti la letteratura pagana, la sua fiducia nella ragione, il suo stesso impegno razionale che approda alla costruzione della teologia appaiono a Gregorio opera inutile, e tale da bruciare energie che tanto meglio potrebbero essere messe al servizio della missione più vera e peculiare della Chiesa.
Insomma, con una indovinata visione di insieme il narratore mette a confronto le due anime del cristianesimo di ogni tempo, quella rivolta più direttamente al Cielo, e quella meglio attenta a fare i conti con le pur sane esigenze e attitudini dell’uomo di questa terra. È un fatto che così il racconto realisticamente ripropone la problematica che fu centrale nei primi secoli di vita della Chiesa in seno alla civiltà romana. Da una parte, Tertulliano (160-220) vide nella diversità tra messaggio cristiano e cultura pagana un contrasto insanabile, e si schierò per il primo condannando la seconda. Dall’altra, Agostino (354-430), Ambrogio (339-397) e Girolamo (347-420) si aprirono alla civiltà grecoromana, ne assimilarono l’esperienza, ne fecero propri i fermenti migliori e con essi misero le basi di quelle che diventarono la filosofia, la teologia, la letteratura cristiane dei secoli successivi.
Nel romanzo, d’altro canto, tra i due, lo stile cristiano su cui maggiormente si incentra l’interesse appare quello più essenziale. Difatti, è nell’impatto con la realtà cristiana ambientata in Roma che il romanzo si conclude. Felice diventa conductor all’interno di un fondo di proprietà della Chiesa, dove amministrerà gli interessi economici di proprietà pontificia. Unulf invece, venuto a contatto con la Schola Greca, un monastero che si prodiga nell’amministrazione di beni di sussistenza ai poveri, resta incantato da questi consacrati che “lavorano duro senza aspettarsi alcuna ricompensa” e, sul filo della sua scoperta di Cristo, si fa monaco lui stesso. L’integrazione nel suo caso è stata, più veramente, conversione.
È chiaro, dicevamo, che il libro implicitamente propone un rinvio alla riflessione sulle analogie che la vicenda presentata offre con quelle del nostro tempo. Ma se gli uomini nel tramonto rievocati dal romanzo attraversarono un’età di transizione intensamente drammatica che li inoltrò in una notte dopo della quale ci fu un’alba radiosa, è facile per contro osservare che lo svolgimento della civiltà attuale lancia alla Chiesa delle sfide immensamente più ardue. Il panorama di oggi, sappiamo, è costituito non da un’Europa ancora ignara del cristianesimo, ma che anzi il cristianesimo lo ha conosciuto (o almeno crede di averlo conosciuto) e che da due secoli lo ha abbandonato per costruire in polemica con esso una società ideologica fondata sull’economia e sul cosmopolitismo, programmato dalle sue classi dirigenti per rinnovare il mito della Torre di Babele con l’abolizione di identità nazionali, tradizioni, cultura umanistica, e per creare l’ “uomo nuovo” omologato e massificato, puro produttore e consumatore al servizio del capitale. Non solo. L’esperienza dell’integrazione nel nostro tempo è fallita e comunque non interessa più, visto che i nuovi invasori vogliono portarsi dietro e trapiantare in Europa la loro identità e le loro tradizioni o, come nel caso dei maomettani, trasferiscono nei paesi di penetrazione una salda organizzazione religiosa, politica e culturale nella prospettiva finale di una conquista irreversibile.
Il romanzo di Caroselli, ad ogni modo, si trattiene al di qua di tutte queste problematiche, ha il merito di restare quello che vuole e riesce ad essere, un’opera d’arte, e come tale rappresenta, trascrive, narra, non cedendo alla tentazione di proporre più o meno forzate attualizzazioni o di suggerire soluzioni per la situazione di oggi. Il libro ci lascia il gusto di far lavorare mente, fantasia, sentimenti sulle grandi esperienze che hanno fatto la civiltà cui apparteniamo e sui problemi esistenziali e sociali che ci piace ruminare nelle ore in cui vogliamo riflettere serenamente su chi siamo, sulla nostra vita, sul mondo che fu, sulla realtà che abbiamo di fronte. È questo il tipo di compagnia stimolante di cui ci rendiamo conto di essere debitori ad un libro come quello di Caroselli, e gliene siamo grati.
Paolo Mariani