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L’arcivescovo Ranjith interviene nel dibattito sulla liturgia
Fedeltà al Concilio
di Maurizio Fontana
(C) L\’Osservatore romano 10-20 dicembre 2007
(C) L\’Osservatore romano 10-20 dicembre 2007
A sessant’anni di distanza dalla pubblicazione dell’enciclica di Pio XII Mediator Dei, il dibattito sulla liturgia è quanto mai aperto e vivo: la recente entrata in vigore del motu proprio Summorum Pontificum – con il quale Benedetto XVI ha concesso la possibilità di celebrare l’Eucaristia secondo il messale tridentino senza dover chiedere il permesso del vescovo – ha alimentato un confronto che a partire dal Concilio Vaticano II non è stato, in realtà, mai sopito.
Ne "L’Osservatore Romano" di domenica 18 novembre, Nicola Bux, proprio richiamandosi alla Mediator Dei, ha riaffermato l’importanza di un dibattito ampio sulla liturgia, portato avanti "senza pregiudizi e con grande carità": un confronto – ha specificato – necessariamente guidato dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.
Su questi temi abbiamo intervistato il segretario della Congregazione per il Culto Divino, l’arcivescovo Albert Malcom Ranjith.
Partiamo proprio dalla Mediator Dei:
possiamo riassumerne gli aspetti qualificanti?
Con l’enciclica Mediator Dei, Pio XII – sulla base anche di quanto affermato da Pio X nel motu proprio Tra le sollecitudini – cerca di presentare ai fedeli una sintesi teologica dell’intima essenza della liturgia: si sofferma a coglierne le origini e la definisce come l’atto sacerdotale di Cristo che rende lode e gloria a Dio e – soprattutto attraverso il suo sacrificio – effettua la volontà salvifica del Padre. In questo senso Cristo è al centro della preghiera e del ruolo sacerdotale della Chiesa.
"Il Divino Redentore – leggiamo nell’enciclica – volle, poi, che la vita sacerdotale da Lui iniziata nel suo corpo mortale con le sue preghiere e il suo sacrificio, non cessasse nel corso dei secoli nel suo Corpo Mistico che è la Chiesa". In sostanza l’enciclica evidenzia che il culto non è il nostro, ma è quello di Cristo nel quale tutti noi siamo inseriti. Più o meno è la linea che Benedetto XVI ha offerto nei suoi scritti liturgici prima e dopo la sua elezione: non siamo noi che compiamo l’atto liturgico ma in esso ci conformiamo all’atto liturgico celeste che già sta accadendo in eterno.
L’enciclica di Pio XII "sulla sacra liturgia" anticipò di sedici anni la Sacrosantum Concilium: quali rapporti possiamo trovare fra i due documenti? C’è una continuità fra di essi? Davvero – come ha scritto Bux – senza la Mediator Dei non si può comprendere appieno la costituzione conciliare?
Si può senz’altro affermare che la riforma liturgica preconciliare fu una sorta di apertura verso ciò che sarebbe poi successo nel Concilio Vaticano II.
Del resto, il fatto che la Sacrosantum Concilium sia stato il primo documento dell’assise ecumenica conferma non solo l’importanza primaria della liturgia per la vita della Chiesa, ma anche che evidentemente i padri conciliari avevano già a disposizione gli strumenti pronti per procedere a una rapida definizione e al rinnovamento della liturgia. Si deve poi ricordare che la maggior parte degli esperti che avevano lavorato per guidare la riforma preconciliare, sono stati integrati e coinvolti nella preparazione della Sacrosantum Concilium.
C’è insomma una continuità pratica che fa il paio con la continuità teologica: la Sacrosantum Concilium infatti – pur nella spiccata preoccupazione pastorale di rendere la liturgia più efficace e partecipata – esprime bene il concetto della partecipazione alla liturgia celeste. Questo aspetto della Mediator Dei in un certo senso confluisce in maniera naturale nella Sacrosantum Concilium. Anche guardando all’impostazione dei due documenti, troviamo più o meno uno stesso schema compositivo. I legami appaiono chiari: la Sacrosantum Concilium continua la grande tradizione della Mediator Dei, così come la Mediator Dei si era posta sulla linea dei precedenti pontefici, in particolare di Pio X.
Di fronte a questa continuità vanno forse superati certi pregiudizi sulla Chiesa preconciliare e in particolare sullo stesso Pio XII.
Certamente. Del resto il cardinale Ratzinger – nel Rapporto sulla fede – parlava della distinzione tra una interpretazione fedele del Concilio e un approccio piuttosto avventuroso e irreale allo stesso, portato avanti da certi circoli teologici animati da quello che veniva definito lo "spirito del Concilio" e che lui invece definisce "anti spirito" o Konzils-Ungeist. Tale distinzione si può cogliere anche relativamente a quanto accaduto in materia liturgica: in diverse innovazioni introdotte si possono infatti riscontrare delle differenze sostanziali tra il testo della Sacrosantum Concilium e la riforma postconciliare portata avanti. È vero che il documento lasciava spazi aperti all’interpretazione e alla ricerca, ma ciò non vuol dire che esso invitasse a un rinnovamento liturgico inteso come qualcosa da realizzare ex novo; al contrario, esso s’inseriva pienamente nella tradizione della Chiesa.
Come lei stesso ha ricordato, dalla Mediator Dei ai documenti conciliari la centralità di Cristo nella liturgia è sempre affermata con chiarezza e vigore: la cosiddetta Chiesa postconciliare ha saputo incarnare pienamente questa realtà?
Con questo tocchiamo un tasto doloroso. C’è infatti un problema pratico: il valore delle norme e delle indicazioni dei libri liturgici non è stato pienamente capito da tutti nella Chiesa. Faccio un esempio. Quello che accade sull’altare è ben spiegato nei testi liturgici, evidentemente, però, certe indicazioni non sono state prese del tutto sul serio: c’è infatti una certa tendenza a interpretare la riforma liturgica postconciliare utilizzando la "creatività" come regola. Questo non è permesso dalle norme. La liturgia in certi luoghi non sembra riflettere il suo cristocentrismo ma esprime invece uno spirito di immanentismo e di antropocentrismo. La verità è ben diversa: un vero antropocentrismo deve essere cristocentrico. Quello che succede sull’altare è un qualcosa che non operiamo noi: è Cristo che agisce e la centralità della figura di Cristo sottrae quell’atto al nostro governo. Noi siamo assorbiti e ci facciamo assorbire in quell’atto, tanto che alla fine della preghiera eucaristica pronunciamo la stupenda dossologia che recita: "Per Lui, in Lui e con Lui".
La tendenza "creativa" cui accennavo non è permessa dalle istruzioni dei libri liturgici. Purtroppo essa deriva da una cattiva interpretazione dei testi o forse da una scarsa conoscenza di essi e della liturgia stessa.
Dobbiamo renderci conto che la liturgia ha una peculiare caratteristica "conservativa" – ma non nell’accezione negativa che oggi alcuni danno alla parola. Nell’Antico Testamento emerge una grande fedeltà ai riti e lo stesso Gesù ha continuato a essere fedele al rituale dei padri. In seguito, la Chiesa ha proseguito su questa stessa linea. San Paolo afferma: "Io trasmetto a voi ciò che ho ricevuto" (1 Corinzi, 11, 23), e non "ciò che ho inventato". Questo è un aspetto centrale: noi siamo chiamati a essere fedeli a qualcosa che non ci appartiene ma che ci viene dato; dobbiamo essere fedeli alla serietà con cui si celebrano i sacramenti. Perché dovremmo riempire pagine e pagine di istruzioni se poi ciascuno si ritiene autorizzato a fare quello che vuole?
Dopo la pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum
si è riacceso il confronto tra i cosiddetti tradizionalisti e innovatori. Ha senso una contrapposizione del genere?
Assolutamente no. Non c’era e non c’è una cesura tra un prima e un dopo, c’è invece una linea continuativa.
Parlando del motu proprio ritorniamo piuttosto al discorso appena affrontato. Riguardo alla messa tridentina c’è stata una domanda crescente nel tempo, via via sempre più organizzata. Di contro, la fedeltà alle norme della celebrazione dei sacramenti continuava a calare. Più diminuivano tale fedeltà, il senso della bellezza e dello stupore nella liturgia, più aumentava la richiesta per la messa tridentina. E allora, di fatto, chi ha realmente chiesto la messa tridentina? Non solo quei gruppi, ma anche coloro che hanno avuto poco rispetto per le norme della celebrazione degna secondo il Novus ordo.
Per anni la liturgia ha subìto troppi abusi e tanti vescovi li hanno ignorati. Papa Giovanni Paolo II aveva fatto un accorato appello nell’Ecclesia Dei afflicta che altro non era se non un richiamo alla Chiesa ad essere più seria nella liturgia. La stessa cosa è avvenuta con l’istruzione Redemptionis sacramentum. Eppure in certi circoli di liturgisti e uffici di liturgia questo documento è stato criticato. Il problema quindi non era la richiesta della messa tridentina, quanto piuttosto un abuso illimitato della nobiltà e della dignità della celebrazione eucaristica.
Di fronte a ciò il Santo Padre non poteva tacere: come si nota nella lettera scritta ai vescovi sul motu proprio e anche nei suoi molteplici discorsi, egli sente un profondo senso di responsabilità pastorale. Questo documento perciò – oltre ad essere un tentativo di cercare l’unione con la Fraternità Sacerdotale san Pio X – è anche un segno, un forte richiamo del pastore universale a un senso di serietà.
È un richiamo anche a chi forma i sacerdoti?
Direi di sì. Del resto di fronte a certe concezioni arbitrarie e poco serie della liturgia c’è da chiedersi cosa s’insegna in alcuni seminari.
Non ci si può accostare alla liturgia con atteggiamento superficiale e poco scientifico. Questo vale per chi adotta un’interpretazione "creativa" della liturgia, ma anche per chi presume troppo facilmente di stabilire come era la liturgia alle origini della Chiesa. Occorre sempre un’attenta esegesi, non ci si può lanciare in ingenue interpretazioni.
Oltre tutto in alcuni circoli liturgici c’è una certa tendenza a sottovalutare quanto la Chiesa ha maturato nel secondo millennio della sua storia. Si parla di impoverimento del rito, ma questa è una conclusione troppo banale e semplicistica: noi crediamo invece che la tradizione della Chiesa si manifesti in uno sviluppo continuo. Non possiamo dire che una parte è migliore di un’altra: ciò che conta è l’azione dello Spirito in continua crescita, pur negli alti e bassi della storia. Noi dobbiamo essere fedeli alla continuità della tradizione.
La liturgia è centrale per la vita della Chiesa: lex orandi, lex credendi, ma anche lex vivendi. Per un rinnovamento vero della Chiesa – desiderato tanto dal Concilio – è necessario che non si limiti la liturgia a uno studio solo accademico, ma che questa diventi una priorità assoluta nelle Chiese locali. Perciò è importante che alla formazione liturgica secondo la mente della Chiesa sia data la giusta importanza a livello locale. In fin dei conti la vita sacerdotale è strettamente legata a quello che il sacerdote celebra e a come lo celebra. Se un sacerdote celebra bene l’Eucaristia è sfidato a essere coerente e a diventare parte del sacrificio di Cristo. La liturgia diventa così fondamentale per la formazione di sacerdoti santi. È questa una grande responsabilità dei vescovi che possono così fare tanto per un vero rinnovamento della Chiesa.
Un aspetto non secondario del dibattito sulla liturgia è senz’altro quello dell’arte sacra, a cominciare dall’importante capitolo della musica liturgica. Tra l’altro "L’Osservatore Romano" proprio nei giorni scorsi ha affrontato questi temi riportando delle considerazioni non certo rassicuranti di monsignor Valentín Miserachs Grau.
La Congregazione sta ancora studiando il documento per il nuovo antifonale, abbiamo anche consultato lo stesso Pontificio Istituto di Musica Sacra e speriamo di poter arrivare a una rapida conclusione.
Cantare significa pregare due volte e questo vale soprattutto per il canto gregoriano che è un tesoro inestimabile. Il Papa nella Sacramentum caritatis ha parlato chiaramente della necessità di insegnare nei seminari il canto gregoriano e la lingua latina: noi dobbiamo custodire e valorizzare tale immenso patrimonio della Chiesa cattolica e utilizzarlo per rendere lode al Signore. Bisogna sicuramente lavorare ancora su questo aspetto.
Vi sono poi nell’uso comune molti canti che non si rifanno alla tradizione del gregoriano: è importante assicurare che siano edificanti per la fede, che alimentino spiritualmente chi partecipa alla liturgia e che dispongano realmente il cuore dei fedeli all’ascolto della voce di Dio. I contenuti, poi, devono essere controllati dai vescovi per evitare, ad esempio, tendenze
new age. A questo riguardo anche nell’uso degli strumenti musicali bisogna esercitare un grande senso di discrezione: che tutto sia solo per l’edificazione della fede.
Nel campo dell’architettura sacra il dialogo con gli specialisti sembra più delineato; più difficoltoso sembra invece quello con gli artisti figurativi. Se alcuni grandi artisti contemporanei appaiono coinvolti nell’interpretazione dei temi sacri, ciò accade molto meno per la produzione pensata appositamente per i luoghi di culto. È solo un problema di committenze o il dialogo tanto sostenuto da Paolo VI necessita di nuovo impulso?
Il Concilio ha dedicato un intero capitolo all’arte sacra. Tra i principî affermati, essenziale è quello del legame tra arte e fede.
Il dialogo è fondamentale. Ogni artista è una persona tutta particolare, ha un suo stile di cui è molto orgoglioso. Bisogna saper entrare nel cuore dell’artista con la dimensione della fede. È difficile, ma la Chiesa deve trovare le vie per un dialogo più profondo.
Il 1° dicembre ci sarà – sul tema – una giornata di studio in Vaticano organizzata dalla Congregazione: noi contiamo che possa essere un’occasione per dare impulso a questo dialogo e alla promozione dell’arte sacra.