L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli ann

  • Categoria dell'articolo:In libreria

Sharing is caring!

ROBERTO PERTICI, L\’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta, Istituto di Studi Politici «S. Pio V», Roma 2008, 68 pp., s. i. p. [estr. da BENEDETTO COCCIA (a cura di), 40 anni dopo: il sessantotto in Italia fra storia, società e cultura, Editrice Apes, Roma 2008, pp. 183-251].

«A quarant’anni di distanza, ciò che resta di quel complesso movimento politico, culturale e sociale che chiamiamo, per brevità, il Sessantotto è soprattutto una sorta di “pensiero socializzato” largamente operante nella mentalità corrente e nei comportamenti diffusi in ampi settori della nostra società». Questa considerazione, con la quale il professor Roberto Pertici – docente di Storia Contemporanea nell’ateneo bergamasco – apre il suo saggio intitolato L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta – pubblicato dall’Istituto di Studi Politici «S. Pio V» di Roma, come estratto dal volume a cura di Benedetto Coccia 40 anni dopo: il sessantotto in Italia fra storia, società e cultura [Editrice Apes, Roma 2008, pp. 183-251 (pp. 183-184)] –, la dice davvero lunga sulla qualità dell’intervento, che si rivela insieme originale e quanto mai utile.
La capacità di sintetizzare in una breve frase – in cui si può avvertire l’eco dell’analisi della struttura dei fenomeni rivoluzionari svolta dallo storico e sociologo francese Augustin Cochin (1876-1916) – il senso del Sessantotto come «categoria culturale permanente», cogliendone così l’essenza e la «vigenza», dà al lettore immediatamente la certezza che l’autore possiede le coordinate giuste e che, seguendolo, non si smarrirà.
E infatti, ci s’imbatte subito dopo in un’altra considerazione acuta, che spiana la via verso la comprensione piena del fenomeno. Comprensione senza la quale, è ovvio, non sono possibili né un giudizio − o diagnosi, visto che, per quel che mi riguarda, appare chiaro il suo carattere di «morbo» − corretto, né un’azione (terapia) adeguata. Perché è solo vero che la cultura del Sessantotto è segnata dal «[…] prepotente riemergere della “passione rivoluzionaria”, dell’idea, cioè, che l’unico tipo veramente risolutivo di mutamento politico-sociale sia quello che rompe radicalmente con la tradizione: la Rivoluzione (con l’iniziale maiuscola) diventa così la soluzione del problema della storia. Questa “cultura della Rivoluzione” − che invero è presente da ben più di due secoli, e rimonta almeno al tempo dell’umanesimo secolarizzato e incipientemente anti-cristiano (1) − […] matura nel tardo Settecento, nella negazione di uno dei temi centrali della tradizione cristiana (lo status naturae lapsae, il peccato originale) e nella sua riduzione a problema politico e sociologico» (pp. 184-185). Tale evidenza spiega il fenomeno rivoluzionario – e quindi il Sessantotto come momento di esso – nella sua radice, e soprattutto nella sua incapacità strutturale di mantenere le promesse di cui è generoso dispensatore, che fatalmente si rivelano per quel che sono: minacciose utopie, destinate a scontrarsi sanguinosamente con la realtà dell’umana natura, che resiste ai tentativi di trasformarla, di ri-crearla secondo un progetto ideologico.
È perciò naturale – com’è naturale orientarsi per chi possiede le giuste coordinate – per il professor Pertici cogliere «[…] la vera svolta culturale degli anni Sessanta […]: l’affermarsi vittorioso e per molti aspetti inarrestabile (almeno fino a oggi) della “mentalità progressista”, come presupposto tacito della pratica culturale in Italia come in Europa occidentale. Intendo riferirmi a quella forma mentis che avverte il passato e la tradizione essenzialmente come un condizionamento oppressivo da cui liberarsi […]. In quegli anni si parlò continuamente di filosofia militante, politica della cultura, rinnovamento radicale attraverso la scienza, liberazione dai pregiudizi, demitizzazione, secolarizzazione: tutte articolazioni di un medesimo atteggiamento mentale. Comune a esse era un sottinteso fondamentalmente relativistico: i criteri del vero e del falso, del bene e del male venivano, di fatto, sostituiti dai loro equivalenti moderni, quelli di “progressivo” e di “reazionario”, di “innovativo” e di “tradizionale”» (p. 188).
In quest’opera di demolizione della cultura e del senso comune tradizionali e cristiani, così squisitamente italiani, Pertici individua uno strumento balistico privilegiato, in qualche modo forgiato dall’opinione, elaborata e diffusa in alcuni ambienti intellettuali, che fosse «fallita» l’intera tradizione occidentale per il fatto che era sfociata nel fascismo e nel nazionalsocialismo: da qui l’esigenza di farne piazza pulita e di ricostruire tutto ab imis. Opinione peraltro condivisa anche da gruppi e ambienti cattolici che furono poi detti «progressisti», e che contribuì a indurli a mettere in discussione se non la Chiesa e il suo magistero – almeno non sempre –, certamente la sua storia e la sua cultura filosofica − giudicata troppo «ellenistica» − nonché la sua dottrina politico-sociale − troppo conservatrice, quando non reazionaria. Tale posizione «cattolica» non fu estranea, secondo quanto scrisse successivamente l’allora cardinal Joseph Ratzinger, ai moti sessantottini e addirittura ai fenomeni terroristici che li seguirono, anzi ne fu una delle cause (2).
L’accusa di «fascismo», dunque, venne agitata – con non trascurabili effetti intimidatori e squalificanti (proprio in senso «sportivo»: tali da mettere «fuori gara») – non solo come «spauracchio» permanente, che evoca un pericolo per la libertà e la civile convivenza tanto immanente e imminente quanto inesistente, ma soprattutto come esperienza rivelatrice dell’autentica natura della cultura e dell’ethos nazionali, segnati dalla «Contro-Riforma» cattolica, e perciò meritevoli e bisognosi di un’opera di radicale «ristrutturazione» rivoluzionaria. La vulgata sul fascismo, poi, otteneva un altro non trascurabile risultato. Troppo spesso, infatti, le migliori energie di chi voleva in qualche modo reagire alla pressione progressistica e rivoluzionaria in nome della tradizione venivano depistate – nella ricerca delle ragioni e dell’identità di tale salutare reazione – verso l’approdo neo-fascista proprio dal pensiero «egemone», che dannava come «fascista» l’anticomunismo, assimilandogli ogni forma di rifiuto del milieu culturale dominante e di pensiero conservatore e tradizionale. Così, attesa la natura essenzialmente rivoluzionaria del fascismo − anche se non del consenso ampiamente popolare di cui ha goduto −, la buona reazione veniva recuperata in una dialettica che la sterilizzava, instradandola in un vicolo cieco.
È perciò particolarmente efficace, oltreché assolutamente originale, la parte più cospicua del saggio, quella che ricostruisce i percorsi di quella cultura anti-progressista italiana che non si fece trascinare nella dialettica «fascismo-anti-fascismo», fondando la sua critica su due capisaldi. Il primo, l’analisi del fascismo come esperienza rivoluzionaria, che quindi non inverava la cultura e l’ethos tradizionali, né ne rivelava l’autentica natura, ma se ne allontanava, sebbene seguendo una strada diversa da quelle battute dalla versione liberale e socialcomunista della medesima Rivoluzione. Protagonisti principali di tale interpretazione alternativa del fascismo sono indicati, sul piano filosofico e dottrinale, il filosofo torinese Augusto Del Noce (1910-1989), e, sul piano storiografico, lo storico reatino Renzo De Felice (1929-1996).
Il secondo è il ricupero – anche da parte di pensatori liberali, ma non laicisti, come Nicola Matteucci, i cui editoriali comparsi nel 1957 sulla rivista bolognese il Mulino sono stati un po’ lo spunto della ricerca del docente viareggino – dell’idea dell’origine cristiana dei valori e della cultura occidentali e quindi del ruolo pubblico del cristianesimo. Tale fondamento appariva l’unico che consentisse di resistere e di reagire all’offensiva culturale progressistica e socialcomunista, ma soprattutto ai suoi esiti prima positivistico-scientistici, poi relativistici e nichilistici – in una parola, tecnocratici –, infine più banalmente, ma non meno devastanti per la nostra civiltà, permissivi e grossolanamente materialistici, in un percorso che va dal libertinismo individuale al libertarismo come ideologia. Stigma di una società opulenta cui il Sessantotto – con la sua furia iconoclasta e demolitrice di principi, valori, autorità, gerarchie, istituzioni tradizionali, a cominciare dalla famiglia, e soprattutto di ogni sacralità e spirito religioso – ha fatto da battistrada.
Nella sua stimolante ricostruzione del formarsi di un mondo alternativo a quello culturalmente, politicamente e economicamente dominante, oserei dire della dinamica di una reazione al Sessantotto che non è passato, il professor Pertici narra fatti, evoca iniziative editoriali, dibattiti, pubblicazioni e controversie culturali. Fa anche molti nomi, alcuni dei quali è davvero consolante veder sottratti a un certo oblio per chi, avendo altre ascendenze e provenienze culturali e associative, era abituato a vederli circolare solo in ambiti ristretti e quasi clandestini (3). Altri ne dimentica – o forse semplicemente non li ha incontrati nella sua pur meticolosa e approfondita ricerca, tanto ha funzionato nei loro confronti quell’atteggiamento ben espresso dal gesto, ricordato nel suo scritto (p. 216), con il quale in occasione di una seduta di laurea a Torino venne con disprezzo scagliata per terra una tesi sul pensatore e uomo politico savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821).
Ma, al di là delle peculiari opzioni culturali e della condivisione totale dei giudizi su fatti e persone, mi pare importante che egli abbia restituito alla storiografia di quegli anni anche «l’altro Sessantotto italiano». Quello che, per dirla con Eric Voegelin (1901-1985) – uno dei grandi che il professor Pertici ricorda –, ha rifiutato «l’immanentizzazione dell’eschaton cristiano» (p. 243). Rifiuto che porta a riconoscere il vero discrimine fra le culture nell’accettazione o non della trascendenza − suggerendo di fare, almeno, veluti si Deus daretur −, a partire dall’intuizione del principio di realtà – contro ogni «perfettismo», alla scuola del beato Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) (p. 204 e passim) –, che garantisce dall’essere vittime dell’infatuazione utopistico-rivoluzionaria e delle sue tragiche, omicide e distruttive conseguenze.
Lo studioso viareggino, in ultima analisi, ha di nuovo restituito all’esistenza storiografica, riconoscendone l’assoluta dignità e densità culturale, un mondo che nel suo insieme, in quanto tale – se non nei singoli che lo costituiscono –, è stato sempre ignorato quando non disprezzato. Così come era accaduto alla destra autentica, tanto diffusa e maggioritaria nel nostro Paese, quanto, quasi si trattasse di un lebbrosario, «non rappresentata nel sistema politico italiano». Destra «[…] le cui radici si possono trovare nella diffidente accettazione della democrazia, nella frequente polemica “antimoderna”, nel rifiuto della politicizzazione della società e […] in un anticomunismo, si direbbe, “esistenziale”. È un’area che elettoralmente si sposterà sui partiti che via via le sembreranno corrispondere a questo sentire diffuso, ma sempre, in definitiva, “turandosi il naso”» (4). E per «anticomunismo esistenziale» lo stesso autore, con grande puntualità e in modo assolutamente condivisibile, intende «l’avversione spontanea, profonda, immediata di tanta piccola e piccolissima gente, per lo stravolgimento violento della “naturalità sociale”» (5), stravolgimento di cui il Sessantotto sembra essere l’episodio – tuttora in corso – finale.
Giovanni Formicola

Note:

(1) Si tratta, né più né meno, dell’«itinerario culturale e socio-politico dell’umanesimo europeo, segnato dall’ateismo non solo nel suo esito marxista» (Sinodo dei Vescovi. Assemblea Speciale per l’Europa, Dichiarazione «Siamo testimoni di Cristo che ci ha liberato», del 13-12-1991).
(2) «La rivolta parigina degli studenti, che dette avvio al movimento del ’68, non fu un fenomeno d’urto abbattutosi dall’esterno contro la Chiesa, bensì è stata preparata e innescata dai fermenti postconciliari del cattolicesimo e da correnti della teologia protestante americana rivoluzionaria, che cronologicamente l’hanno preceduta. Il fatto che a Parigi, sulle barricate, venisse celebrata l’eucarestia come affratellamento dei combattenti per la libertà anarchica e come segno di speranza del messianismo politico che credeva in un nuovo mondo, destinato ad essere partorito nel terrore, mostra il carattere essenzialmente religioso, o meglio, pseudoreligioso del fenomeno.
«Quest’implicazione teologica risalta in maniera inequivocabile anche nel terrorismo tedesco e italiano degli anni ’70. Il processo di formazione del terrorismo italiano dei primi anni ’70 rimane incomprensibile se si prescinde dalle crisi e dai fermenti interni al cattolicesimo postconciliare».
«[…] ’68: la politica si erge a religione, e la religione si converte in passione politica. La fede nella trascendenza e nel destino eterno dell’uomo vien meno […]. Rimane però l’aspettativa d’una salvezza incondizionata […] che […] dev’essere ora conquistata in questo mondo mediante le sole proprie forze. Così però si carica la politica di un’attesa alla quale essa non può corrispondere. La religione fattasi politica esige troppo dalla politica stessa e diviene così fonte di disintegrazione dell’uomo e della società» (Joseph Ratzinger, Svolta per l’Europa. Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti, trad. it., Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1992, p. 125 e p. 128).
(3) Fra i tanti, mi riferisco in particolare all’evocazione del pensatore, uomo politico, dirigente cattolico e accademico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), e della sua opera Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977), a p. 221.
(4) R. Pertici, Il vario anticomunismo italiano (1936-1960): lineamenti di una storia, in Loreto Di Nucci ed Ernesto Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2003, pp. 263-334 (p. 295).
(5) Ibid., p. 289.