Angela Pellicciari, L’altro Risorgimento, Una guerra di religione dimenticata, Editore PIEMME, VI edizione, 2006, ISBN 8838449708, Pagine 288, Prezzo € 15,90
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Presentazione grazie ad alcuni contributi apparsi su "Il Timone" (http://www.iltimone.org/ ) offerti dalla prof. Pellicciari.
Risorgimento? Del paganesimo (I-2001)
“Principe generoso e magnanimo, Principe che i popoli salutano Redentore, Principe, innanzi a cui si attutano le passioni, si dileguano i sospetti, si sciolgono i dubbii, Principe che ha il dono meraviglioso della fede inconcussa che converte e trascina, Principe, miracolo dell’età nostra fortunata, Principe che passerà alla memoria dei posteri col nome di RE GALANTUOMO”: con questa specie di litania l’influente massone Pier Carlo Boggio, collaboratore di Cavour, saluta Vittorio Emanuele II.
Fatto sta che il re galantuomo non rispetta nessuno degli impegni che prende: i governi liberali del Regno di Sardegna prima, e di quello d’Italia poi, violano sistematicamente tutti i più importanti articoli dello Statuto a cominciare dal primo, che definisce la religione cattolica “unica religione di Stato”. Appena inizia l’era costituzionale scatta in Piemonte (poi in tutta l’Italia) la prima seria persecuzione anticattolica dopo Costantino: a cominciare dai gesuiti, tutti gli ordini religiosi della “religione di stato” vengono soppressi uno dopo l’altro e tutti i loro beni incamerati. Mentre 57.000 persone (tanti sono i membri degli ordini religiosi) vengono da un giorno all’altro private della proprie case (i conventi) e di tutto quanto possiedono, i beni che nel corso dei secoli la popolazione cattolica ha donato agli ordini religiosi vanno ad arricchire l’1% della popolazione di fede liberale. Oltre 2.565.253 ettari di terra, centinaia di splendidi edifici, archivi e biblioteche, oggetti di culto, quadri e statue, tutto scompare nel ventre molle di una classe dirigente che definisce sé stessa liberatrice d’Italia dall’oscurantismo dei preti e dei sovrani assoluti.
Nel nome della libertà i liberali conculcano sistematicamente la libertà dei cattolici (della quasi totalità della popolazione): vietano le donazioni alla chiesa, impediscono le processioni cattoliche (plaudono a quelle massoniche), negano la libertà di istruzione (la scuola deve essere docile strumento della propaganda liberale), per stampa “libera” intendono la sola stampa liberale (Cavour arriva a proibire la circolazione delle encicliche pontificie).
In nome della “nazione” italiana (che si pretende risorta alle glorie del passato imperiale romano) i liberali impongono una sudditanza economica e culturale alle potenze definite “civili”: Inghilterra e Francia prima, Germania poi. Disprezzando la storia e la cultura dell’Italia cattolica (che regalano all’Italia il primato mondiale della bellezza), i liberali si ripropongono di “fare” gli italiani sul modello delle nazioni protestanti. Lo stato liberale che, in nome della libertà e della costituzione, impone la volontà dell’1% della popolazione al restante 99, è un perfetto esempio di stato totalitario in cui spadroneggiano le società segrete legate ai potentati internazionali anticattolici.
Il 29 maggio 1876 Pio IX così si rivolge ad un gruppo di lombardi che festeggia, non a caso a Roma, il settimo centenario della battaglia di Legnano: «Sorse una setta, nera di nome e più nera di fatti [la Carboneria], e si sparse nel bel Paese, penetrando adagio adagio in molti luoghi. Più tardi un’altra ne comparve [la Giovane Italia] che volle chiamarsi giovane, ma per la verità era vecchia nella malizia e nella iniquità. A queste due, altre ancora ne tennero dietro, ma tutte alla fine portarono le loro acque torbide e dannose nella vasta palude massonica. Da questa palude escono oggi quei miasmi pestilenziali che infestano tanta parte dell’orbe, ed impediscono a questa povera Italia di poter presentare le sue volontà al cospetto di tutte le genti».
Non potendo invadere lo Stato pontificio dopo una normale dichiarazione di guerra (il Piemonte è, per definizione, tutelato al rispetto della “religione di stato”), il 9 ottobre 1860, nel proclama ai Popoli dell’Italia meridionale, Vittorio Emanuele così giustifica il proprio operato: “Ho fatto entrare i miei soldati nelle Marche e nell’Umbria disperdendo quell’accozzaglia di gente di ogni paese e di ogni lingua, che colà si era raccolta, nuova e strana forma d’intervento straniero, e la peggiore di tutte. Io ho proclamato l’Italia degli italiani, e non permetterò mai che l’Italia diventi il nido di sette cosmopolite che vi si raccolgano a tramare i disegni o della reazione, o della demagogia universale”.
Secondo la migliore tradizione massonica, per “setta cosmopolita” il re galantuomo intende la chiesa cattolica. I Savoia realizzano in Italia il sogno di tutti i protestanti e massoni (che non a caso sono suoi unici ed influenti alleati): la distruzione del potere temporale dei papi nella convinzione che al crollo del potere temporale avrebbe inevitabilmente fatto seguito la fine del potere spirituale, e, quindi, la scomparsa della chiesa cattolica. Ecco cosa scrive nel 1863 il Bollettino del Grande Oriente Italiano: «le nazioni riconoscevano nell’Italia il diritto di esistere come nazione in quanto che le affidavano l’altissimo ufficio di liberarle dal giogo di Roma cattolica. Non si tratta di forme di governo; non si tratta di maggior larghezza di libertà; si tratta appunto del fine che la Massoneria si propone; al quale da secoli lavora, a traverso ogni genere di ostacoli e di pericoli».
Nulla di nuovo sotto il sole: il Risorgimento –che, non a caso, Leone XIII definisce risorgimento del paganesimo- è una durissima forma di persecuzione anticattolica scatenata nel cuore stesso della cattolicità: Roma e l’Italia. Eppure un aspetto radicalmente nuovo il Risorgimento lo possiede: è l’unico caso in cui una guerra di religione contro la chiesa è scatenata in nome della chiesa (i Savoia, monarchi costituzionali, non possono ufficialmente infrangere il primo articolo della costituzione). All’Italia spetta un non invidiabile primato di doppiezza: la realizzazione della propria unificazione nazionale contro la Chiesa cattolica, in nome della Chiesa cattolica.
Un uomo dal cuore tenero
Un tenero di cuore. Ebbene sì; Giuseppe Garibaldi era tenero di cuore. Come spesso capita a chi con gli uomini non ha troppi scrupoli –ci si ricorderà di Hitler-, il cuore del generale batte di amore paterno per gli animali. E dire che oggi quasi nessuno più se ne ricorda.
Come mai la sorte degli animali sta tanto a cuore all’eroe dei due mondi? Perché la loro situazione nei paesi cattolici, in primis ovviamente l’Italia, è letteralmente da compiangere sottoposti come sono dai seguaci di santa romana chiesa -che non credono di essere loro diretti discendenti- a brutalità di ogni tipo. Da sempre attento alle esigenze del mondo femminile, il cuore del generale è attratto dall’amara sorte toccata agli animali da una nobildonna inglese che, in viaggio per l’Italia, constata di persona i gravi maltrattamenti inflitti dai superstiziosi e ignoranti cattolici alle bestiole. E’ così che, sull’onda dello sdegno, il generale fonda nel 1871 la Società per la Protezione degli Animali.
Forse che i cattolici del secolo scorso erano davvero così spietati nei confronti delle bestie? A leggere i documenti dell’epoca non si direbbe. Sembrerebbe anzi che fossero proprio i cattolici a farsi paladini delle bestie cadute sotto il bisturi positivista di provetti scienziati umanitari.
Un gruppo di scienziati stranieri aveva infatti iniziato a Firenze la pratica della vivisezione "per sorprendere i misteri della vita nei suoi recessi". Fu proprio una campagna stampa sostenuta dal "partito cattolico" ad impedire che simili sperimentazioni continuassero in Italia. E così chi li faceva continuò il suo lavoro nella più ospitale -calvinista e puritana- Ginevra.
Garibaldi, oltre che tenero di cuore, era anche fantasioso romanziere. E pure questo aspetto del poliedrico generale è rimasto praticamente sconosciuto anche perché difficilmente la sua produzione letteraria potrebbe definirsi riuscita. Interessante sì. Perché testimonia, se ce ne fosse bisogno, l’odio che uno dei padri nobili della nostra patria nutre per la chiesa in generale, i suoi ministri in particolare, i gesuiti in modo speciale. Sì, perché se il prete è "il vero rappresentante della malizia e della vergogna, più atto assai a la corruzione e al tradimento dello schifoso e strisciante abitatore delle paludi", il gesuita è "il sublimato del prete". "Quando sparirà -si chiede, affranto, Garibaldi- dalla faccia della terra questa tetra, scellerata, abominevole setta, che prostituisce, deturpa, imbestialisce l’esser umano?". Tanto è lo schifo che il generale nutre per tutto quanto ricorda santa romana chiesa ed i suoi rappresentanti, che per i preti arriva ad immaginare un rimedio attuato circa un secolo dopo dalla fantasia malata di un altro grande della storia: Mao Tse-Tung.
La Cina degli anni Sessanta assiste esterrefatta ad uno straordinario esperimento: come gli odiati "borghesi", nella fattispecie i boriosi intellettuali -medici, ingegneri, professori-, possano imparare dai contadini l’arte, preziosa, di vivere. La "rivoluzione culturale", i cui milioni di morti non si sa quando potranno essere contati, distrugge la vita culturale, e quindi economica oltre che familiare, della nazione cinese. Ebbene Garibaldi questo provvedimento lo aveva anticipato, anche se solo nelle intenzioni. Solo che, invece dei borghesi, nei campi ci voleva mandare i preti. Nelle sue intenzioni "i preti alla vanga" avrebbero realizzato una magnifica bonifica delle paludi pontine.
Questo benefattore dell’Umanità (con la U rigorosamente maiuscola come i massoni –di cui Garibaldi è autorevolissimo esponente- scrivono) oltre che tenero di cuore e romanziere è pure commerciante di schiavi. E anche questo aspetto della vita del liberatore d’Italia dal giogo pontificio poco si conosce. L’attività di negriero Garibaldi la esercita negli anni eroici passati a combattere per la liberazione dell’America Latina. Convinto di vivere una vita memorabile, è Garibaldi stesso a redigere un resoconto delle proprie azioni in una lunga autobiografia. Solo che, a questo riguardo, le Memorie sono leggermente reticenti e devono essere integrate con altre fonti.
Garibaldi non racconta del commercio di carne umana. Si limita a specificare che il 10 gennaio del 1852, da comandante della Carmen, parte dal porto del Callao, in Perù, alla volta della Cina. La nave trasporta un carico di guano che è una qualità di letame molto pregiata. Il generale è in genere molto preciso nel racconto delle proprie gesta che descrive in dettaglio; così del viaggio Callao-Canton-Lima sappiamo praticamente tutto: giorni di traversata, carichi trasportati, traversie. Manca solo un particolare: non viene specificato con che tipo di merce Garibaldi, dopo aver venduto a condizioni vantaggiose il guano, faccia ritorno in Perù.
A questa dimenticanza provvede fortunatamente l’armatore ligure Pietro Denegri che volendo lodare il capitano della Carmen, racconta all’amico di famiglia nonché biografo del generale, tale Vecchj, il dettaglio mancante: Garibaldi «m’ha sempre portati i Chinesi nel numero imbarcati e tutti grassi e in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie».
Protettore degli animali, romanziere e negriero? Garibaldi non è passato alla storia con questo clichet. Tutti lo conosciamo come impavido eroe dei due mondi, libertador, disinteressato condottiero, esule volontario, uomo puro e scevro da compromessi. Garibaldi con questa immagine è conosciuto e rispettato in tutto il mondo. Basti dire che nella centralissima piazza George Washington di New York, nuova capitale mondiale, la statua di Garibaldi è una delle due che accompagna, con minor magnificenza e con dimensioni molto più ridotte è vero, ma nondimeno con grande valore simbolico, la statua a cavallo del generale Washington, padre della patria americana.
Davvero grande e onnipresente è l’odio per santa romana chiesa. E’ stato profetizzato.
Stato federale? No. Stato rigidamente centralizzato
L’Italia dalle cento città, l’Italia dalla grande e creativa diversità, tutto ad un tratto al momento dell’unificazione politica nel 1861, diventa l’Italia della più cupa e tetra omologazione. Tutte le cento città devono prendere a modello Torino e la dottrina liberale che vi regna sovrana. Tutte devono regolarsi secondo la legislazione piemontese che sistematicamente combatte la religione cattolica. Tutte devono riprodurre come con lo stampino i retorici e vacui monumenti che magnificano l’epopea risorgimentale.
La pretesa massonica di incarnare le ragioni della bellezza, del progresso, della giustizia e della libertà –in una parola della perfezione-, è particolarmente evidente nel caso ormai dimenticato delle ‘gesuitesse’. Corre l’anno 1848, anno rivoluzionario per eccellenza, e il costituzionale Regno di Sardegna comincia a smantellare tutte le istituzioni della chiesa cattolica che pure il primo articolo dello Statuto definisce “unica religione di stato”. Costituzionali contro la costituzione? Ai liberali, che si definiscono tali, tutto è possibile per definizione: sono sciolti da qualsiasi obbligo nei confronti di chicchessia. Liberi, per l’appunto.
Dopo aver deciso la soppressione della Compagnia di Gesù definita ‘peste’ e ‘lue’, il governo ha gioco facile nel condannare uno dopo l’altro gli ordini religiosi. Contagiati dal contatto con gli appestati gesuiti. E quindi pericolosi. E pertanto da sopprimere. Questo il contesto in cui in Parlamento si affronta il caso delle Dame del Sacro Cuore di Gesù, spregiativamente chiamate gesuitesse. Si tratta di una ventina di suore che gestiscono a Chambery una scuola prestigiosa e svolgono molte opere di carità.
L’odio che circonda le istituzioni cattoliche nel parlamento subalpino è palpabile. Basti citare come il deputato Cesare Dalmazzi descrive la fondatrice dell’ordine, santa Margherita Maria Alacoque. “Maria Alacocca”, dice, cui Cristo “palesava il suo desiderio ardente di fare seco lei il cambio del suo cuore, dichiarandola vittima dell’amor suo, trastullo dei suoi piaceri”. Il deputato specifica: Cristo “ridiscendeva a lambire e tergere colle divine sue labbra le piaghe del seno di lei”.
In questo clima il destino dell’ordine è segnato. Solo che i savoiardi non si rassegnano: hanno bisogno delle suore e della loro scuola. Invocate tanto la libertà –sostengono- e pretendete di giudicare delle questioni che ci riguardano meglio di noi? Come si fa a negare la libertà ad una ventina di suore in nome della libertà? Esasperati dalla sordità della maggioranza alle ragioni della regione che rappresentano, i deputati savoiardi invocano una consultazione popolare. Il fatto è che i liberali sanno perfettamente come stanno le cose. Sanno che la popolazione savoiarda è tutta favorevole alle suore. Lo afferma candidamente anche il Ministro della pubblica istruzione Carlo Boncompagni: “dalle informazioni che ci mandano le autorità preposte all’insegnamento in Savoia consta che veramente queste corporazioni hanno per sé l’opinione pubblica; abbiamo su questo informazioni di persone di diverse opinioni”.
E allora? E allora l’opinione della popolazione non conta nulla. Perché? Perché la popolazione è ingenua e indottrinata dai preti e non capisce. Perché sono in gioco i sacri ‘principi liberali’ e sui principi non si può transigere. Quali sono questi principi? Si riassumono in uno: la società deve essere liberata dalla superstizione cattolica e dalle sue istituzioni. L’istruzione in modo particolare deve interamente essere gestita dai liberi muratori i quali sapranno riplasmare gli italiani a propria immagine e somiglianza.
La Massoneria, anima del mondo liberale, è certa di possedere la Luce. Luce che difetta a tutti i «profani», ma che manca, in modo tutto particolare, ai cattolici. È fin troppo evidente -ritengono i «fratelli»- che chi obbedisce al dettato della Rivelazione e del Magistero è succube di imposizioni esterne alla propria ragione e alla propria volontà e, pertanto, non è libero ma schiavo. Ecco la quadratura del cerchio: è una questione di definizione. I liberali pensano di incarnare il mondo della libertà perché prendono in considerazione solo se stessi e le proprie convinzioni. Definendo se stessi liberali, ritengono ovvio e giusto che uno stato da loro guidato sia chiamato libero e cioè liberale. Questo stato opprime la libertà della maggioranza della popolazione, cattolica? Ciò non ha la minima importanza perché i cattolici non sono liberi. Anzi: lo stato, attraverso la gestione liberale, deve incaricarsi di insegnare anche ai cattolici cosa e come pensare.
Nel 1848 i liberali rivendicano ed impongono la propria direzione politica (la propria «dittatura» scrive Gramsci) su tutto il Regno di Sardegna. Le validissime ragioni degli abitanti della Savoia vengono sacrificate sull’altare della Verità; della verità liberale. Nel 1861 succede la stessa cosa in tutta Italia. Il nuovo Regno è uno stato rigidamente centralizzato perché i liberali hanno il fondato sospetto che gli italiani -proprio come i savoiardi- se lasciati a se stessi non avrebbero spontaneamente abbandonato la Chiesa di Roma.
Stato federale o stato centralizzato? Il dibattito che ha appassionato per più di un secolo la storiografia nazionale e che è tornato di attualità da quando la Lega lo ha imposto alla discussione politica, è per molti versi un dibattito falsato. Falsato dalla voluta dimenticanza delle caratteristiche dell’ideologia liberale, per sua natura totalitaria. I liberali non potevano che dare vita ad uno stato monolita: solo così avevano qualche speranza di rifare gli italiani.
Europa federale o Europa centralizzata? Chissà che il caso delle gesuitesse non costituisca un monito anche per il futuro prossimo venturo. Molte sono le analogie fra le modalità di formazione dello stato italiano –esclusivamente elitarie- e quelle del vagheggiato stato europeo.
Mille e non più mille
L’epopea dei Mille è nota in tutto il mondo. Mille uomini, e per di più ‘civili’, che conquistano un regno vecchio di oltre settecento anni. Un regno ricco, che vanta la seconda marina del continente dopo quella inglese. Episodio tanto incredibile da essere definito miracoloso da Ippolito Nievo, garibaldino della prima ora.
Miracolo? Nulla di più lontano dalla realtà. L’impresa dei Mille è frutto di una preparazione meticolosa. Per tre anni, tutti i giorni, Giuseppe La Farina (il siciliano massone divenuto segretario della Società Nazionale) ed il presidente del Consiglio del Regno di Sardegna Camillo di Cavour, si incontrano in camera da letto del conte per pianificare l’intervento armato in Italia meridionale. Lo fanno in gran segreto. Al punto che La Farina deve passare per una scala di servizio che comunica direttamente con l’appartamento di Cavour e deve farlo prima dell’alba. Che le cose stiano così è provato nel modo più inconfutabile dalle lettere e dagli articoli dello stesso La Farina.
Della minuziosa organizzazione dell’impresa dei Mille nessuno sa e nessuno deve sapere niente. Ufficialmente il regno di Sardegna e quello di Napoli sono in pace. Il re Francesco II per di più è cugino di Vittorio Emanuele II. Ufficialmente si sa solo -come è stato sbandierato al Congresso di Parigi davanti a tutto il mondo, ricorrendo alle calunnie più spudorate e senza la presenza della controparte- che gli abitanti dell’Italia meridionale “gemono” oppressi dal malgoverno borbonico.
La geniale trovata di Cavour consiste nel preparare un’invasione, e cioè una guerra, senza dichiarazione di guerra, facendo leva sulla potenza della corruzione e sulla connivenza dei massoni meridionali con quelli settentrionali ed europei. Ne sa qualcosa l’ammiraglio Persano che tallona Garibaldi –di cui Cavour si fida poco- per organizzare lo sbarco di armi e di uomini e per ultimare l’opera di corruzione capillare. A documentare con puntigliosa precisione la condotta davvero poco onorevole del regno sardo sono i diari di Persano. Dopo la sconfitta di Lissa (nel 1866 la flotta sarda è sbaragliata da quella austriaca significativamente più debole) e la successiva incriminazione, l’ammiraglio per difendersi ricorre all’inaudita pubblicazione di veri e propri segreti di stato.
Arrivati a Palermo e Napoli i Mille cosa fanno? Per saperlo basta leggere, oltre alle lettere di La Frina, qualche pagina di quanto scrive il deputato Pier Cesare Boggio, autorevole massone torinese. Il conquistatore Garibaldi, una volta arrivato in Sicilia, sembra essersi scordato di chi ce lo ha mandato e sembra aver preso gusto alla conquista-passeggiata: dando retta a Mazzini si scorda dei patti con Cavour e medita di marciare su Roma. Se così succede l’intervento di Napoleone III in difesa del papa è sicuro, e per il Regno di Sardegna è la bancarotta. Indebitato fino al collo per organizzare la rivoluzione italiana, senza la possibilità di ricorrere alle finanze e alle ricchezze del Regno delle Due Sicilie, per il regno sardo è la fine. E così Boggio, nell’intento evidente di ricattare Garibaldi, mette nero su bianco le gesta davvero poco eroiche del generale. Cavour o Garibaldi? si intitola il prezioso libretto di cui oggi -come ovvio- nessuno sa nulla. Garibaldi pensa di poter fare a meno di Cavour? Il deputato incalza il generale con una batteria di domande retoriche. Eccone qualcuna: che fine hanno fatto le «somme di pubblica ragione trovate in Palermo, e delle altre della stessa natura, ma anche più considerevoli trovate in Napoli?”.
“Volete un saggio di quel poco che moltissimo giunge insino a noi? La dittatura è fatta sinonimo di anarchia; –di qua e di là del Faro non sono più leggi, non è più amministrazione regolare, non tutela delle persone e delle proprietà, non tribunali, non ordine, nulla insomma di ciò che costituisce il vivere civile di uno Stato”; ai cittadini “è venuta meno la tutela delle leggi antiche, senzaché siasi introdotta la protezione delle leggi nuove; suppliscono alla lacuna il capriccio e l’arbitrio». I pro-dittatori si fanno e si disfanno: «Pro-dittatore scelto con molta solennità fu il Depretis»; dopo una settimana si cambia e pro-dittatore diventa Mordini «senza che pur una parola, una sillaba accenni che egli surroga Depretis. Che pensare di tanta instabilità di persone e d’offici?».
Boggio prosegue: l’ufficio di pro-dittatore «è nominale e illusorio; dietro e sopra il governo officiale, sta un governo segreto, che è il solo padrone vero di tutto e di tutti. Il Principe di Torrearsa legge nel foglio ufficiale la propria nomina a Presidente il Consiglio dei Ministri, della quale è affatto inconsapevole: attende l’annunzio diretto del Capo dello Stato: passa un giorno, passano due, nulla riceve; e intanto escono sulla Gazzetta decreti e provvisioni che appaiono da lui emanate. Si presenta per tre volte al Dittatore per chiedere una spiegazione: gli dicono che non ha tempo di riceverlo; a gran fatica riesce il terzo giorno a farsi sentire, per protestare contro lo indegno abuso del nome».
«Voi dovete ricordarvi che non siete in un paese di conquista», conclude Boggio. Conquista: la parola è esatta. Conquista, e per di più negata. Conquista in nome della libertà. Conquista senza pietà e senza vergogna. Ecco cosa scrive la Civiltà Cattolica il 14 settembre del 1861: “Negli Stati sardi esiste la tratta dei Napoletani. Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in gran quantità, si stipano ne’ bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano in Genova”. L’autore della corrispondenza dal capoluogo ligure racconta: “Ho dovuto assistere ad uno di que’ spettacoli che lacerano l’anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato”.
Per quanto tempo ancora ripeteremo giulivi la favola di Giuseppe Garibaldi ‘eroe dei due mondi’ e di Vittorio Emanuele II ‘liberatore’?
Padre di quale patria?
Giuseppe Mazzini: genovese, avvocato, di professione cospiratore. E, col senno di poi, Padre della patria. Di cosa è padre esattamente Mazzini? Di quale patria?
Di quella che avrebbe dovuto scaturire dal trionfo del Progresso: “Crediamo che il Progresso -scrive a Pio IX nel 1865- legge di Dio, deve infallibilmente compiersi per tutti"; il Progresso è «la sola rivelazione di Dio sugli uomini, rivelazione continua per tutti». Messa così, è chiaro che la patria che Mazzini ha in mente non è quella abitata da cattolici. Questi infatti credono che Dio si è rivelato nella Scrittura ed, in pienezza, in Cristo. Non nel progresso.
Ma allora come mai Mazzini ha sempre in bocca e sulla penna la parola Dio? Il perché lo spiega Giuseppe Montanelli, uno dei capi della rivoluzione toscana del 1848. Descrivendo la dinamica delle società segrete nella prima metà dell’Ottocento, Montanelli, a proposito di Mazzini, scrive: a lui «debbonsi lodi per alcun bene che fece, non come fuoruscito orditore di cospirazioni impotenti e sacrificatrici, ma come letterato propugnatore di spiritualismo». «Né fu piccolo servigio», aggiunge.
Montanelli ha ragione. Dal punto di vista liberale Mazzini certo non va lodato per i tanti giovani mandati a morire inutilmente da un Maestro che -dall’estero- dirige le fila delle loro vite. Mazzini va invece lodato per il suo "spiritualismo": per aver colto ogni occasione (opportuna ed inopportuna) per parlare di Dio: "Dio e il popolo"; Dio lo vuole. Così facendo Mazzini ha avvicinato al Risorgimento anticattolico un buon numero di cattolici, ingannati dal suo linguaggio.
"Noi crediamo in Dio, Intelletto e Amore, Signore ed Educatore", scrive a Pio IX.
Dio "educatore". Di chi si serve Dio per svolgere il suo compito di educatore? La domanda, dal punto di vista dei mazziniani, è retorica: è ovvio e naturale che Dio si serva di Mazzini. Quanto a lui, l’Esule si sente perfettamente a suo agio nei panni del profeta. Del profeta del Dio Progresso.
Di una cosa è infatti certo il padre nobile del -quasi defunto- partito repubblicano: il Progresso deve diventare legge per tutti. E se il "popolo" si ostina a non intendere questa necessità, bisogna imporgliela. Bisogna fare la rivoluzione. Quella rivoluzione che Mazzini, fin dal 1832, ha ben chiaro cosa significhi:: "LE RIVOLUZIONI, generalmente parlando, NON SI DIFENDONO CHE ASSALENDO […] se non è guerra d’eccidio, se non è guerra rivoluzionaria, guerra disperata, cittadina, popolare, energica, forte di tutti i mezzi, che la natura somministra allo schiavo dal cannone al pugnale, cadrete e vilmente!".
Perché Mazzini crede nelle virtù salvifiche della rivoluzione? Cosa lo spinge a ritenere che la "guerra d’eccidio" si trasformerà come per incanto in un balsamo riparatore? La risposta è semplice. Per lui, come per tutti i rivoluzionari. Mazzini nutre una fede "cieca" nella verità della propria analisi. Ha una certezza assoluta nell’infallibilità del proprio ragionamento.
Dall’alto del progresso che è convinto di incarnare il Maestro sentenzia: "qualunque s’arroga in oggi di concentrare in sé la rivelazione e piantarsi intermediario privilegiato fra Dio e gli uomini, bestemmia". Ma se il papa bestemmia perché osa di parlare ex cathedra, come mai Mazzini si "arroga" il compito di mettere a tacere il papa ed i cattolici, che all’epoca in cui scrive sono la totalità di quel popolo che è convito di rappresentare? La risposta è solo una: perché Mazzini teorizza che il progresso, per far progredire la realtà, si serve del genio e della virtù (il "Genio" e la "Virtù" sono "i soli sacerdoti dell’avvenire", scrive). E perché è sicuro -al di là di ogni ragionevole dubbio- di essere virtuoso e geniale per eccellenza.
Nel suo sconfinato senso di onnipotenza, Mazzini è anche convinto di poter modificare a piacere il significato delle parole. E’ convinto di poter riscrivere la lingua italiana a partire dalle proprie personali definizioni. Così, sotto la sua bacchetta magica, il bellissimo aggettivo "libero" cambia significato e diventa "colui che condivide le idee di Mazzini"; "tiranno" è, al contrario, chi le ostacola. Quanto ai "martiri", questi non sono più coloro che vengono barbaramente uccisi per testimoniare la propria fede, ma coloro che uccidono per imporre il proprio credo: "martiri della libertà".
"Crediamo che Dio è Dio e che l’Umanità è il suo Profeta», ha l’impudenza di scrivere a Pio IX. Felice Orsini, l’attentatore a Napoleone III che pagherà con la vita il proprio gesto, ha gioco facile nell’apostrofare l’antico Maestro col beffardo nomignolo di "secondo Maometto".
Secondo Maometto: una definizione che ben si confà al rivoluzionario Mazzini, ciecamente convinto di essere portaparola e Voce dell’Umanità con la U maiuscola.
Tornando alla patria ed ai suoi padri. I Padri della Patria, anche se morti, devono poter continuare a vivere. Se no che padri sarebbero? Dopo aver ordinato per legge che Dio è morto ed aver posto il proprio pensiero (l’Idea, avrebbe detto Mazzini) al posto del decalogo, i Padri della Patria sono stati ufficialmente dichiarati immortali e, non avendo niente di meglio a disposizione, sono stati mummificati.
Così è successo a Lenin, così a Mao, ma così in prima assoluta è successo anche a Mazzini. La sua mummia ha vagato in treno per l’Italia in cerca di laici adoratori.
Scrive Edoardo Sanguineti sul numero del 14 luglio 2001 dello Specchio (il settimanale de La Stampa): “L’idea repubblicana; le tecniche politiche di tipo clandestino, occulto, settario; il laicismo radicale; il culto della nazione; tutto il metaforismo religioso degli eroi patriottici visti come santi. Senza Mazzini non esisterebbe l’Altare della Patria, né l’offesa alla bandiera, all’esercito, alla nazione; né si parlerebbe di martiri per un ideale politico o nazionale”. Non si poteva dire meglio.
Chi ha detto che il cattolicesimo è veicolo di superstizione si sbagliava. Il cattolicesimo è baluardo della ragione.
Risorgimento e massoneria (2003)
In un articolo comparso su La Stampa nel dicembre 2000 Norberto Bobbio accusa “gruppi di cattolici militanti” che pretendono di “riscrivere” il risorgimento dandone “una interpretazione che non esiterei a chiamare di destra, secondo cui il Risorgimento è stato un movimento guidato da élites anticlericali, per non dire addirittura massoniche, il cui scopo ultimo era l’abbattimento del potere temporale dei Papi”.
“Per non dire addirittura massoniche” -scrive Bobbio- e la cosa suscita più di un sorriso. Che lo scopo ultimo della massoneria dell’Ottocento fosse proprio l’abbattimento del potere temporale dei papi e che per raggiungere questo obiettivo i “fratelli” di tutto il mondo si siano affidati ai Savoia che hanno realizzato un’unificazione italiana ad immagine e somiglianza dei desiderata del pensiero massonico, sta scritto nero su bianco in centinaia di documenti sia di parte massonica che cattolica.
Tanto per esemplificare. Il risorgimento è iniziato dal massone Napoleone che invade l’Italia e la saccheggia impunemente in nome della “libertà”. Prima di entrare a Milano, il futuro imperatore ha l’ardire di rivolgere alla popolazione il seguente bando: “Noi siamo amici di tutti i popoli, ed in particolare dei discendenti dei Bruti e degli Scipioni. Ristabilire il Campidoglio, collocandovi onorevolmente le statue degli eroi che lo reser celebre: e risvegliare il Popolo Romano assopito da molti secoli di schiavitù, tale sarà il frutto delle nostre vittorie, che formeranno epoca nella posterità”.
Napoleone attribuisce a sé stesso il ruolo di liberatore. Vuole che gli italiani non siano più schiavi. Ma da chi e da cosa gli italiani, carichi di storia e di primati, avrebbero dovuto essere liberati? Lo si capisce con immediatezza considerando lo stemma del Regno d’Italia che vede la luce nel 1805, frutto della fervida fantasia del generale-imperatore. Come distintivo del nuovo tipo di regalità, spicca, tra gli altri, un simbolo molto impegnativo: un Pentalfa massonico (una stella a cinque punte) con due punte rivolte verso l’alto e una sola verso il basso. Un’insegna satanica. Ciò significa che Napoleone non si vergogna di mostrare in bella vista cosa intende per l’Ordine Nuovo che vuole imporre al mondo: un ordine fondato sulla potenza di Satana. Un ordine anticristiano.
Per capire come il binomio massoneria-satanismo sia in qualche modo costitutivo, bisogna tener presente che la visione del mondo massonica è interamente costruita intorno a due presupposti. Il primo è il rifiuto della Rivelazione: i massoni ritengono spetti all’uomo in totale autonomia e col solo aiuto della ragione stabilire quali siano le leggi della morale e del vivere civile. Questo è anzi il compito che i massoni ritengono loro proprio ed esclusivo: non a caso il 10 febbraio 1996 una pagina intera di pubblicità sul Corriere della Sera ricorda che i massoni “hanno la responsabilità morale e materiale di essere guida di altri uomini”.
Il secondo presupposto è che la natura dell’uomo (della specie umana, non del singolo) è costantemente perfettibile: si tratta del mito del Progresso che induce a ritenere possibile il raggiungimento su questa terra della felicità (il diritto alla felicità tanto solennemente iscritto nella Costituzione americana) conseguito attraverso il pieno sviluppo di tutte le potenzialità umane.
La massoneria ritiene dunque possibile raggiungere la tangenza uomo-dio con le sole forze della ragione, e cioè per natura: gli aspetti di satanismo che colorano tante posizioni massoniche derivano da questa convinzione. Nel libro della Genesi quando Satana si rivolge ad Eva lo fa proprio per insinuarle il desiderio di diventare Dio come se ciò fosse possibile in forza di un semplice atto di volontà: “Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio” (Gn 3, 5). Tanto per restare in Italia, è in questo contesto teorico che Giosuè Carducci compone l’Inno a Satana (“Salute, o Satana,\ O ribellione,\ O forza vindice\ De la ragione!”).
Tenendo presenti questi assunti diventa chiaro in che senso Napoleone (ed i liberali dopo si lui) spaccino sé stessi per i liberatori del popolo italiano: si propongono di “liberare” gli italiani dal cattolicesimo che, a loro modo di vedere, ha trasformato gli “eredi degli Scipioni” in un popolo di schiavi.
Più in generale la massoneria ritiene che gravi sulle sue spalle il compito ciclopico di liberare l’uomo dalla superstizione, da ogni superstizione. Ecco cosa scrive nel 1853 il luminare della massoneria francese J.M. Ragon: l’ordine apre i suoi templi agli uomini “per liberarli dai pregiudizi dei loro paesi o dagli errori delle religioni dei loro padri”. Ancora: la massoneria “non riceve la legge ma la stabilisce dal momento che la sua morale, una ed immutabile, è più estesa e più universale di quelle delle religioni native, sempre esclusive”.
La massoneria italiana è perfettamente allineata su questa posizione. La Costituente che si riunisce nel maggio del 1863 dopo aver stabilito che l’ordine “Non prescrive nessuna professione particolare di fede religiosa, e non esclude se non le credenze che imponessero l’intolleranza delle credenze altrui”, precisa (art.3) che i principi massonici debbono gradualmente divenire “legge effettiva e suprema di tutti li atti della vita individuale, domestica e civile” e specifica (art.8) che il fine ultimo dell’istituzione è “raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e l’autorità teocratica, a tutti i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per costruire la vera e sola chiesa dell’Umanità”.
“Legge suprema di tutti gli atti della vita individuale, domestica e civile”, prescrive la costituente. Detto fatto. Tutti gli ordini religiosi cattolici all’indomani dell’unità d’Italia vengono aboliti ed i loro beni svenduti all’1% della popolazione di fede liberale. Tutte le opere pie costruite nel corso dei secoli soppresse. Le processioni cattoliche vietate, permesse quelle massoniche. Le scuole cattoliche chiuse, imposte quelle di stato a guida “illuminata”. E via continuando.
Stando così le cose, è ovvio che fra chiesa cattolica e massoneria ci sia incompatibilità radicale. Fra Cristo e Belial -ricordano Pio IX e Leone XIII- non ci può essere compromesso. Eppure è stato reiteratamente sostenuto il contrario. Per convincere le masse cattoliche della bontà della proprie intenzioni, l’élite massonica ha avuto a disposizione, in primo luogo, la menzogna. I fratelli hanno spesso gridato ai quattro venti di essere cattolici più cattolici del papa. Così hanno fatto i fautori del nostro risorgimento. A questa propaganda calunniosa i papi hanno risposto come potevano: ripetendo all’infinito la serie delle scomuniche contro la massoneria: ogni volta c’era qualcuno che sosteneva che le censure ecclesiastiche, per lui e per i suoi, non valevano. E ogni volta i papi dovevano ricominciare.
Durante il risorgimento la guerra contro la chiesa cattolica condotta dalla massoneria nazionale ed internazionale è stata particolarmente cruenta e distruttiva. Essendo la popolazione italiana tutta cattolica per far trionfare il proprio punto di vista assolutamente minoritario i liberal-massoni hanno fatto ricorso ad una strategia che si potrebbe definire coperta: hanno provato in ogni modo ad infiltrarsi all’interno della Chiesa per condizionarla dal di dentro, hanno colto ogni possibile occasione per definirsi cattolici perfettamente ortodossi, hanno fatto scattare sul piano interno ed internazionale una campagna di denigrazione e falsificazione sistematica delle condizioni di tutti gli stati italiani ad eccezione del Piemonte.
Contro lo Stato della Chiesa era già in corso una pluricentenaria campagna d’odio e di calunnia orchestrata dalle potenze protestanti. La massoneria organizza un’intensificazione di questa propaganda e lo stato pontificio viene descritto come il più sanguinario, retrogrado e mal amministrato di tutta la terra. Contro ogni ragionevolezza e contro ogni verità storica, l’ordine cerca di convincere i cattolici che la semplice esistenza di uno stato pontificio sia contraria all’insegnamento di Cristo, vissuto povero e morto in croce, e assicura che rinunciando alla sua visibilità (dal momento che non siamo puri spiriti ciò equivale alla rinuncia all’esistenza) la Chiesa avrebbe guadagnato in spiritualità e purezza.
Pio IX ha combattuto come un leone in difesa della verità. In decine di encicliche ha descritto a cosa corrispondevano nei fatti le belle e suadenti parole della propaganda liberale. Per evitare che il suo gregge rimanesse abbagliato dalla menzogna trionfante, a cominciare dal 1849 (costretto all’esilio all’epoca della repubblica romana) ha preso carta e penna per raccontare ai cattolici cosa succedeva durante il supposto “risorgimento” della nazione. I massoni, ricorda il Papa, proclamano ai quattro venti di agire nell’interesse della Chiesa e della sua libertà. Si professano cristiani e pretendono di rifarsi alle più pure volontà di Cristo. Le cose non stanno così: “noi desidereremmo prestar loro fede, se i dolorosissimi fatti, che sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti, non provassero il contrario”. E’ in corso una vera e propria guerra, ammonisce il papa: “da una parte ci sono alcuni che difendono i principi di quella che chiamano moderna civiltà, dall’altra ci sono altri che sostengono i diritti della giustizia e della nostra santissima religione”. L’obiettivo che i massoni perseguono è “non solo la sottrazione a questa Santa Sede ed al Romano Pontefice del suo legittimo potere temporale”, ma anche “se mai fosse possibile, la completa eliminazione del potere di salvezza della religione cattolica”.
Dalla dura guerra di religione scatenata durante il risorgimento ad oggi le cose sono cambiate? Sotto tanti aspetti sì. Però c’è un inquietante particolare che indurrebbe a non esserne così sicuri: l’attitudine dei mezzi di comunicazione di massa a sostenere che l’atteggiamento della chiesa nei confronti della massoneria è radicalmente mutato. Così nel 1995 la più diffusa enciclopedia su dischetto – la Grolier Multimedia Enciclopedia- scrive: “il divieto ai cattolici di far parte di logge massoniche è stato cancellato nel 1983”. Così, ed è caso molto serio, il Corriere della Sera nel luglio dello scorso anno in un’inchiesta pubblicata su Sette dal titolo Il risveglio della Massoneria. Lindner, firmatario dell’articolo, sostiene: “L’istituzione ha dovuto fare sempre i conti con gli ostacoli frapposti dal Vaticano che solo nel 1983 ha tolto la scomunica”.
E’ vero l’esatto contrario: nel 1983 la chiesa non ha cancellato nessuna delle centinaia di scomuniche comminate nel tempo contro la massoneria. La chiesa ha fatto di più: nella Dichiarazione sulla Massoneria del 26 novembre 1983 ha ribadito ad opera del card. Ratzinger, prefetto per la congregazione della Dottrina della Fede, che nulla è cambiato dall’epoca della prima censura contenuta nella bolla In eminenti redatta il 28 aprile 1738 da Clemente XII. Nulla di nuovo sotto il sole.
Plebiscito: che bella parola! (novembre 2003)
Bisogna dire che la favola dell’unità d’Italia realizzata dai Savoia e dai liberali in nome della costituzione e della libertà, è stata ben raccontata. E ancora meglio ripetuta.
I popoli -si diceva (e si continua a ripetere)- “gemevano” sotto il giogo del malgoverno papalino e borbonico. I popoli, dunque, andavano liberati e Vittorio Emanuele era lì pronto per l’occasione. Cuore forte e magnanimo, il Re di Sardegna si sarebbe mosso solo perché intenerito dal pianto di coloro (tutti gli italiani) che giustamente aspiravano ad una vita da uomini liberi e non da schiavi.
Questa leggenda, dicevo, è stata propagandata con cura. Peccato che sia radicalmente falsa.
Prima di invadere (senza dichiarazione di guerra, e sempre negando, come nel Meridione, la propria diretta partecipazione all’impresa) uno dopo l’altro tutti gli stati italiani, il governo sardo aveva fatto in modo che avvenissero “sollevazioni spontanee” in favore dei Savoia. Si trattava di garantire il buon nome del re sabaudo di fronte all’opinione pubblica italiana e straniera. Ecco cosa scrive Giuseppe La Farina, braccio destro di Cavour, in una lettera a Filippo Bartolomeo: «È necessario che l’opera sia cominciata dai popoli: il Piemonte verrà, chiamato; ma non mai prima. Se ciò facesse, si griderebbe alla conquista, e si tirerebbe addosso una coalizione europea». Il re Vittorio Emanuele – continuava – dice: «io non posso stendere la mia dittatura su popoli, che non m’invocano, e che collo starsi tranquilli danno pretesto alla diplomazia di dire che sono contenti del governo che hanno».
Fatto sta che, nonostante il gran daffare che si sono dati, i liberali sono riusciti ad organizzare le “insorgenze” popolari solo a Firenze, a Perugia e nei ducati. A Napoli come a Roma non c’è stato nulla da fare. E dove pure sono riusciti ad organizzarle, lo hanno fatto con la corruzione e la frode. A Firenze, per esempio, a “insorgere” sono stati un’ottantina di carabinieri fatti venire per l’occasione da Torino e spacciati per popolani toscani da Carlo Boncompagni, ambasciatore sardo in città. Quando si dice la fantasia! Questa di certo non difettava alla classe dirigente piemontese desiderosa di conquistare un regno prestigioso come l’Italia.
A case fatte, a conquista avvenuta, si trattava di mostrare urbi et orbi quanto felici fossero gli italiani del nuovo stato di cose. A questo scopo i padri della patria hanno fatto ricorso ai plebisciti. Hanno cioè chiamato tutta la popolazione a votare (cosa inaudita in un’epoca in cui aveva diritto di voto meno del 2% della popolazione) perché tutti, ma proprio tutti, avessero modo di manifestare in modo democratico, e cioè col voto, il proprio entusiasmo unitario.
Indetti l’11 e 12 marzo 1860 in Emilia, Toscana, Modena e Reggio, Parma e Piacenza, il 21 ottobre in Italia meridionale, il 4 e 5 novembre nelle Marche e nell’Umbria, i plebisciti hanno dato un risultato strabiliante. Praticamente tutti erano per Vittorio Emanuele Re d’Italia. Non c’era nessuno, quasi nessuno, che rimpiangesse i vecchi governanti. Meno che mai il papa.
Il fatto è strano, bisogna dirlo. Come strana fu la straordinaria affluenza alle urne, tenuto soprattutto conto che la maggioranza della popolazione era analfabeta e che la prassi del voto era una novità quasi assoluta. Tanta stranezza ha una facile spiegazione: il dato plebiscitario, tanto propagandato, è stato il risultato di una truffa gigantesca, confezionata ad arte.
Il capo della polizia politica Filippo Culetti, così rievoca nel suo Memorandum come andarono le cose: “Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto dell’annessione. Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti. Non è malagevole spiegare la facilità con cui tali manovre hanno potuto riuscire in paesi del tutto nuovi all’esercizio del suffragio universale, e dove l’indifferenza e l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone sparire ogni controllo”.
Culetti ci tiene a chiarire che le cose stanno proprio come le racconta e specifica: “per quel che riguarda Modena, posso parlarne con cognizione di causa, poiché tutto si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione. D’altronde le cose non avvennero diversamente a Parma ed a Firenze”. Per quanto riguarda la Toscana abbiamo una divertente testimonianza raccontata dalla Civiltà Cattolica. Lì una pressante campagna di stampa aveva dichiarato “nemico della patria e reo di morte chiunque votasse per altro che per l’annessione. Le tipografie toscane furono poi tutte impegnate a stampare bollettini per l’annessione: e i tipografi avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel regno separato. Le campagne furono inondate da una piena di bollettini per l’annessione. Chiedevano i campagnuoli che cosa dovessero fare di quella carta: si rispondeva che quella carta dovea subito portarsi in città ad un dato luogo, e chi non l’avesse portata cadeva in multa. Subito i contadini, per non cader in multa, portarono la carta, senza neanche sapere che cosa contenesse”.
Il 9 ottobre, da Ancona, Vittorio Emanuele aveva indirizzato ai Popoli dell’Italia meridionale il seguente proclama: “Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l’ordine: Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a fare rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestarla: la Provvidenza, che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell’urna”. Forte del favorevolissimo risultato plebiscitario, il 7 novembre il Re aveva dichiarato: «Il suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste nobili province. Accetto quest’alto decreto della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza d’italiano».
“Uscite, popolo mio, da Babilonia” (Ap 18,4). Bene ha fatto Pio IX a proclamare il non expedit. I cattolici, con quel tipo di stato, non dovevano aver nulla a che fare.