La centralità della liturgia nella storia della salvezza

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don Enrico Finotti, La centralità della liturgia nella storia della salvezza, Fede e cultura 2010, Isbn: 978-88-6409-042-9 , Pagine 112, Euro 12,00

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Per tanti anni, quasi 40, come i giorni di Cristo nel deserto, chi nella Chiesa riteneva che la questione liturgica fosse centrale, è stato spesso ignorato, o deriso.

Sembrava che la Fede fosse essenzialmente, o solamente, azione, nel mondo. «Dalle messe alle masse», si diceva tra i cattolici “adulti” negli anni Settanta. Poi, improvvisamente, quasi come un fuoco che covava sotto le ceneri, l’idea che la liturgia sia “culmen et fons” della vita interiore ha ripreso piede. Piano piano, certo. Ma impetuosamente.

Sono così nati siti internet come messainlatino.it e rinascimentosacro.com, che stanno riscuotendo sempre più successo grazie alla loro capacità di rispondere ad un mai sopito desiderio di bellezza e di vera liturgia. Ma a segnalarsi per l’attività in questo campo è stata soprattutto una giovane casa editrice, “Fede & Cultura”, che si è proposta come apripista di un nuovo “movimento liturgico”, destinato a ridare vitalità e splendore alla Chiesa.

“Fede & Cultura” ha iniziato pubblicando un Messale, quello di san Pio V, che sembrava archiviato per sempre. Una scommessa editoriale, visti i costi, che è stata, incredibilmente, premiata. Poi ha dato alle stampe “La messa antica” di Francesco Cupello, “Introibo ad altare Dei”, di tre ottimi e giovani liturgisti laici, “La liturgia fonte di vita” di Mauro Gagliardi.

L’ultima fatica di questo coraggioso editore è un bellissimo libro di don Enrico Finotti, “La centralità della liturgia nella storia della salvezza”, che vuole analizzare il “movimento pendolare, tra Liturgia ed apostasia, tra adesione obbedienziale e adorante all’unico Dio e avversione e allontanamento da Lui”, proprio di tutta la storia della salvezza.

Per don Finotti, Scritture alla mano, la liturgia è «quell’atteggiamento di adorazione, di stupore, di lode, di sottomissione, di obbedienza, di consegna di sé, di amore e di obbedienza fidente, che sale dal cuore dell’uomo verso Dio e che coinvolge globalmente tutte le facoltà spirituali e le scelte esistenziali». E’ «l’accettazione di Dio e della sua maestà nella nostra vita, che si esprime nella adorazione contemplativa e nella obbedienza operativa». Quando invece la liturgia si corrompe, nasce irrimediabilmente l’idolatria. I primi liturghi sono dunque gli angeli, il cui mandato è duplice: «adorare Dio e servire gli uomini e il mondo». Contemplazione ed azione, come nell’opera creatrice di Dio; come nell’ora et labora dei monaci benedettini. Contemplazione della Verità, che genera gioia, gratitudine, lode, e che a sua volta si traduce in azione amorosa, caritatevole, verso Dio e il prossimo. Il primo “crollo della liturgia” si ha invece con gli angeli ribelli: Lucifero, col suo «Non serviam», rifiuta l’obbedienza, la lode, il servizio, l’adorazione, e rescinde il suo legame vivificante con Dio.

Ecco, leggendo queste ed altre considerazioni di don Finotti, a me sembra di vedere che il male del mondo, e della Chiesa, oggi nasce proprio dal “crollo della liturgia”. L’adorazione, infatti, schiaccia la superbia umana: non esisterebbero neppure, i cattolici “adulti”, quelli che cercano sempre di aggiustare diavolo e acqua santa, se ogni domenica, nel rito liturgico, si pregasse in ginocchio, di fronte a Dio, nel modo opportuno. Non esisterebbe quella terribile Babele di teologi, preti, cardinali, che vogliono ogni giorno primeggiare nel disobbedire al depositum fidei. Dove non c’è adorazione, infatti, c’è protagonismo, e pretesa: di aggiustare la Rivelazione a modo proprio, di stare in piedi, in faccia a Dio, come davanti ad un proprio pari.

Ci sono chiacchiere, sociologia, illusione di trasformare la realtà con le proprie sole forze; c’è azione sterile, puramente umana, che non sgorga dalla contemplazione della Verità; c’è filantropia, non carità; utopia, politica, non spirito soprannaturale. L’uomo che non vuole adorare, pone se stesso e le sue voglie come misura di tutte le cose: non sopporta il richiamo, a volte pungente, della Verità; fatica a riconoscersi colpevole, ad entrare nel confessionale, a testa bassa, per piangere i suoi peccati. Egli non ama affatto le parole “peccato”, “penitenza”, “dovere”, ma solo quella “diritto”; preferisce la ribellione all’obbedienza; rifugge ogni dogma, ogni oggettività, in nome della propria, soggettiva opinione; è una monade chiusa che non vuole mai essere messa in discussione da nessuno.

L’uomo che non adora, lasciato alla sua miseria, fatica a chiedere perdono a Dio, ma anche al suo prossimo, a sua moglie, a suo marito, al suo superiore: è come l’Innominato di Manzoni, che non vedendo «mai nulla né al di sopra di sé, né più in alto», finisce per credersi veramente onnipotente, divenendo un tiranno triste e solitario. L’uomo che non adora fatica a riconoscere nel creato, nel prossimo, in un figlio inatteso un dono di Dio, sacro, misterioso, su cui è vietato calare mani empie e sacrileghe. E’ allora giocoforza riconoscere che la Chiesa, e con essa il mondo, si può salvare solo se ridà alla liturgia il suo spazio e il suo ruolo: se si tornano a costruire vere cattedrali, con le croci, gli altari rialzati, le cripte, le cupole vertiginose, i baldacchini, gli inginocchiatoi…

Non teatri per una recita umana, ma luoghi in cui un’anima possa per un attimo innalzarsi dove l’aria è più pura; possa ricevere la manna per attraversare il deserto; possa attingere al Mistero, e avere Qualcuno, che non sia l’idolo muto, da lodare, ringraziare, adorare, implorare, con il cuore aperto e abbandonato.

Francesco Agnoli
Il Foglio, 10 giugno 2010