La TV? quanta fuffa!

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\"MaDietro la fuffa

Lo sapevate che gran parte delle cose che vi raccontano i giornali sulle elezioni più belle del mondo sono bufale? Eccone un florilegio

di Alberto Simoni

«Ehi, ma è vero che hanno tentato di uccidere Obama?». È un amico che chiama dall’Italia. Non capisci se è agitato o elettrizzato. Intuisci solo che chiede a te, che sei a Denver, fai il giornalista e per questo sei considerato (ovviamente a torto) depositario di chissà quali verità, se quella notuzia bomba sia vera. I delegati alla convention democratica affollano Main Street, la via dei negozi e dei ristoranti che taglia la capitale del Colorado. Il sole scalda, il clima è festoso, e anche solo l’idea di un complotto per ammazzare il pretendente democratico alla Casa Bianca suona strana. Pareva surreale anche il “plot” di Dallas nel 1963, però. E chi avrebbe scommesso che 19 kamikaze avrebbero sconvolto la storia l’11 settembre del 2001? In fondo Obama qualche minaccia nel corso della lunga campagna elettorale l’ha ricevuta. L’amico che ti telefona sembra saperne più di te. «Lo scrive il sito del Corriere della Sera», dice, come se l’autorevolezza della fonte non ammetta deroghe. Anche le agenzie internazionali rimbalzano la notizia. Parlano di tre balordi beccati non lontano dall’Invesco Field (lo stadio dove Obama avrebbe ricevuto l’investitura ufficiale) con armi di precisione e cannocchiali. Ma in sala stampa, che pullula di reporter provenienti da ogni dove, non si batte ciglio. Il tempo di fare qualche verifica, di scorrere le agenzie, di sintonizzarsi sulla Cnn e tutto si smorza. Nothing, nada, la notizia non c’è. Così i giornali americani la collocano al piede, se non in qualche breve, (il New York Times in 20 righe a pagina 15), destino che accomuna tutte le notizie che nelle ore perdono vigore, forza e intensità.
Il Corriere della Sera (e non solo) invece no. Il 27 agosto il titolo di apertura del quotidiano è: “Un piano per uccidere Obama”. Poi due pagine gonfie di servizi sui neonazisti e un gruppo di suprematisti bianchi, invasati che non tollerano il candidato di colore evidentemente, gruppo al quale per qualche ora sembrava appartenessero i tre cospiratori. Il Messaggero: “Sventato attentato a Obama”. E punta il dito su quattro neonazisti. Peccato che, la sera prima, l’Fbi avesse già smontato tutto o quasi: «Nessun pericolo per Obama». I dettagli della cospirazione sono grotteschi. Tale Tharin Robert Gartrell era totalmente “fatto” di anfetamine e quando è stato fermato mentre zigzagava lungo una strada di Aurora, vicino a Denver, ha detto di voler uccidere Obama. Era così convinto che si stava recando alla periferia sud della città dove credeva alloggiasse il candidato. Il quale, invece, è arrivato in città solo la sera seguente e certamente non ha dormito nei sobborghi. Ma di questo i lettori dei giornali “innamorati” della cospirazione non avranno sentito parlare.
In compenso sanno tutto della candidata vicepresidente repubblicana Sarah Palin, compreso (Corriere della Sera, 16 settembre) il numero di fantasie a luci rosse che i maschi americani hanno avuto sulla 44enne governatrice dell’Alaska, o quanti tanga e bamboline con il volto di Sarah sono stati venduti. Il sito del Corriere la definisce (29 agosto) «ultracattolica». Ma perché chi è contrario all’aborto, difende la sacralità della famiglia fondata sul matrimonio e si oppone alla distruzione di embrioni umani per la ricerca scientifica, deve essere per forza un “ultrà” per i colleghi di via Solferino? Solo “cattolico” è forse poco? Peccato comunque che Sarah Palin non solo non frequenti gli ambienti del “tifo organizzato”, ma nemmeno sia una fedele della Chiesa di Roma. Maurizio Molinari, sempre preciso, sulla Stampa ha spiegato che non «si sa se sia pentecostale o evangelica». Al Corriere si accorgono dello svarione. E sul sito web dopo qualche ora la Palin torna ad essere semplicemente «cristiana».
Con le sviste della stampa italiana sulla running mate di John McCain si potrebbero riempire pagine e pagine. Peraltro, vista la scarsa abitudine del personaggio alla ribalta nazionale, anche i media statunitensi hanno preso fischi per fiaschi in diverse occasioni. Tutti sempre ben foraggiati dai blogger, bravi a ingigantire fatti assenti e a trasformarli in notizie inesistenti. E nella penuria di fatti su Sarah Palin, a St. Paul ci si è arrangiati con tutto ciò che passava. Compreso il vostro cronista.
Ai lettori di Repubblica hanno raccontato che Sarah Palin è una sorta di Irene Pivetti prima maniera: non solo una cristiana conservatrice, ma anche leghista. Nel 1998, ha denunciato il quotidiano di largo Fochetti, si è iscritta al Movimento per l’indipendenza dell’Alaska, il cui motto è la secessione dagli Stati Uniti. Peccato che sia una bufala. La Palin si è limitata a partecipare a un’assemblea dell’organizzazione in questione. Non è nemmeno vero che sia stata una sostenitrice di Pat Buchanan, il paleoconservatore che nel 1992 fece perdere la Casa Bianca a Bush senior.

L’impeachment impossibile
Corriere e Repubblica, quasi all’unisono (30 agosto), presentando la Palin, hanno scritto che lo scandalo era già servito e che la candidata era “a rischio impeachment”. Il riferimento è alla vicenda del poliziotto che la governatrice dell’Alaska avrebbe fatto rimuovere per non aver licenziato un suo sottoposto (ex cognato della Palin). Peccato che lo “scoop” dello scheletro nell’armadio non fosse esattamente quella che si definisce una primizia. Ne aveva già parlato all’inizio di agosto il Los Angeles Times. E McCain, quando ha scelto Sarah Palin, sapeva dell’inchiesta indipendente in corso (peraltro autorizzata dalla stessa governatrice).

Dàgli al bambino disabile
Durante la convention repubblicana, anche i rumors più insignificanti diventavano notizie. Sulla Palin, vista la scarsa notorietà, un abbaglio è quantomeno comprensibile. Ma a Repubblica dovrebbero essere ciechi per non vederli. O forse non vogliono. Sembra dare fastidio il fatto che in piena coscienza Sarah Palin abbia dato alla luce un figlio affetto da sindrome di Down. Per il quotidiano romano tutto quello che la governatrice dell’Alaska rappresenta è simbolo di «una trita pantomima moralista». E Trig, il figlio di quattro mesi nato disabile, «ostentato come un programma politico e non come un amore straordinario», oppure «come un attrezzo di scena usato sfacciatamente».
Il fatto è che Sarah Palin sta dalla parte sbagliata della barricata. È una donna, come l’ex sfidante di Obama Hillary Clinton. Ma è repubblicana, ovvero sta dalla parte dei cattivi, quelli di Bush che alla convention di St. Paul avevano quattro delegati neri. Vuoi mettere con il mix di etnie nei quattro giorni di Denver? La stampa liberal (da noi, più prosaicamente, “di sinistra”) non accetta che una donna possa fare figli, andare a caccia, appassionarsi di hockey e persino fare politica. Sono cose da Midwest, da zone rurali dove, per dirla con Obama, la gente combatte le frustrazioni e le difficoltà economiche rifugiandosi «nelle armi e nella Bibbia» (il senatore dell’Illinois poi pagò questa gaffe perdendo le primarie in Pennsylvania).
Se la Palin fosse stata pro aborto, pro matrimoni gay, pro ricerca sulle staminali embrionali, che trattamento avrebbe avuto? Il dubbio è lecito. Come forse sarebbe stato lecito dubitare della copertina “sexy” dedicata alla governatrice da Vogue, quella che il Riformista e la Stampa hanno pubblicato in prima pagina il 30 agosto. Peccato fosse palesemente un “fake”, un fotomontaggio. La Palin in effetti ha posato per Vogue, ma non ha mai avuto l’onore della copertina. La Stampa si è scusata, mentre il blogger che ha diffuso il falso ha avuto oltre 500 mila accessi al suo sito.

Un’altra dimensione
L’America è un paese pieno di sfumature e di angoli sconosciuti, poco compresi e talvolta dileggiati. Per gli europei le praterie del Midwest, i villaggi del Sud e della Bible Belt sono luoghi, quasi concetti, che vanno oltre la nostra comprensione. Nel loro libro The Right Nation, John Micklehwait e Adrian Wooldridge definivano i democratici un partito di centrodestra se visti nell’ottica europea. Già solo questo la dice lunga sul gap fra le due sponde dell’Atlantico. Bill Endicott è stato per qualche anno alla Casa Bianca con Bill Clinton, nello staff della comunicazione. È a Denver per raccontare la convention per alcune radio. Ogni mattina prende il bus delle 7,56 a Wheat Ridge, 30 minuti dal Pepsi Center. «Il limite dei media stranieri – dice – è che si fermano a New York, a Washington e poi volano a Los Angeles. Volete capire gli Stati Uniti? Andate al Sud, Mississippi, Alabama, Georgia. Sembra un altro mondo. E poi nel Midwest, in Kansas e Nebraska. Forse non sarà eccitante come i grattacieli di New York o i think tank di Washington. Ma lì pulsa il cuore dell’America. Lì affondano le radici della nazione». Forse al di qua dell’Oceano talvolta ce ne dimentichiamo.