Tempi
Delitto, castigo e conversione
di Luigi Amicone
«Cosa c’è di nuovo nella mia vita? La consapevolezza di aver fatto del male. E un’umanità incredibile che mi ha aperto un mondo davanti: la fede». Intervista a Rosario Giugliano, camorrista redento
Giugno 1996. In un certo ufficio milanese squilla il telefono. Dall’altra parte della cornetta c’è un politico importante. Che domanda: «Sempronio?». «Sempronio». «Sono Roberto Formigoni».
«Bè, ci conosciamo. Qual buon vento?». «Mi sono impegnato a realizzare un certo intervento sulle carceri. Un ente della Regione che ha già fatto esperienze pilota nel campo del reinserimento sociale dei detenuti ci ha presentato un bel progetto. Stiamo parlando di ergastolani. Non è che vuoi darci una mano?». «Anche due. Basta che non sia volontariato». Detto fatto. A partire dal luglio 1996 fino alla primavera dell’anno successivo, Sempronio affiancherà per quasi un anno il progetto dell’ente lombardo come “professore di cultura generale” presso le sezioni a elevato indice di sorveglianza del carcere di Voghera. Mentre l’iniziativa della Regione Lombardia interessa tutti i detenuti, le lezioni di “cultura generale” sono proposte solo agli ospiti del “braccio di massima sicurezza” e si svolgono nella cosiddetta “aula di socialità”. L’aula è una stanza di una cinquantina di metri quadrati, con una massiccia porta chiusa dall’esterno e sorvegliata a vista da due guardie. Le lezioni si tengono con cadenza settimanale e secondo orari prefissati. Inizialmente le classi sono tre. Quella dei napoletani, camorra, più un paio di ergastolani generici e il raffinato gangster Bruno Turci. Quella dei siciliani, mafia. La terza è decisamente la più composita. Si va dal turco condannato per commercio e spaccio internazionale di droga al brigatista, ultimo arrivato dopo che per tredici anni aveva rimosso il passato, si era dimenticato i processi in contumacia, si era sposato in Francia, aveva avuto due figli, era diventato manager di una multinazionale, era finito nelle maglie della giustizia, intercettato da uno zelante poliziotto italiano al controllo passaporti dell’aereoporto di Malpensa, area tran-siti internazionali. C’è l’ergastolano della banda del Brenta e il nerissimo Mario Tuti, Giovanni Goddi, sardo condannato per sequestro di persona, e Nino Marano, siculo tutto nervi, incazzoso e che una cronaca giudiziaria ansiosa di stereotipi ha già marchiato come “killer delle carceri”. Da questi tre gruppi, le autorità del penitenziario decidono di estrarre una sola classe. Quella che verrà riempita di libri di don Luigi Giussani, letture leopardiane, film tipo Dio ha bisogno degli uomini, discussioni memorabili che svariano dalla politica al teatro. E chilometriche passeggiate su e giù dalla stanza di cosiddetta “socialità”. Dopodiché, passato il ’97, i contatti tra l’amico di Formigoni e questo gruppo di detenuti diventano quasi esclusivamente epistolari. Ma almeno con una mezza dozzina di carcerati occasione di stringente amicizia. E amicizia non generica, ma cristiana. O come la prese a definire Bruno Turci, sempre immancabilmente citando don Giussani, in ogni chiusa delle sue missive, la “Invincibile Compagnia”.
Rosario Giugliano non fa parte di questo gruppo originario. Rosario, come in una catena di sant’Antonio di incontri, conoscerà più tardi, a metà degli anni Duemila, uno di quegli uomini che un giorno aveva fatto capolino in “socialità”, casualmente scampando (proprio come succede in ogni regime carcerario imperfetto) al 41 bis a cui era stato fatto obbligo di sottostare, non sappiamo per quanti anni, ma certamente sulla base di una motivata relazione stilata dalla Procura Antimafia. Corretto l’errore e riconsegnato al 41 bis, l’uomo dovette aver rimuginato qualcosa di quelle conversazioni a cui aveva partecipato nelle sue prime e uniche 48 ore di socializzazione. Conversazioni che, secondo la fonte informata di Tempi, non raramente incrociavano il problema “Gesù Cristo” e la proposta cristiana così come emergeva nei testi di don Giussani. Così l’uomo cominciò a scrivere agli amici e finì con l’intessere un fitto scambio di corrispondenza con persone di Comunione e Liberazione. È grazie a lui, grazie alla “Scuola di comunità” in carcere, che Rosario Giugliano è diventato uno del giro di quel gruppetto di Voghera, nel frattempo trasferito e disperso nelle più disparate sedi detentive italiane. Gruppetto, dice a Tempi una persona informata dei fatti, i cui principali artefici e animatori furono Bruno Turci e Mario Tuti.
Rosario Giugliano si trova attualmente in carcere. Questa intervista è stata realizzata per via epistolare.
Innanzitutto, ricordiamo ai lettori chi sei, perché sei in carcere, quanti anni hai scontato e quanti te ne restano da scontare.
Sono Rosario Giugliano, campano, ho fatto parte per moltissimi anni della criminalità organizzata (nello specifico, della camorra del clan Alfieri-Galasso), ma grazie a Dio dal 1995 me ne sono allontanato dissociandomi. Sono in carcere per 416 bis e diversi omicidi (guerra tra opposti clan), in totale ho scontato ad oggi 29 anni di carcere. Una prima carcerazione di 11 anni e 8 mesi (settembre 1977-maggio 1989) e poi l’attuale, per la quale sono detenuto dal 22 aprile 1991. Per quest’ultima sto scontando l’ergastolo.
Perché hai accettato di parlare con Tempi?
Ho accettato di parlare con Tempi perché da un po’ di anni a questa parte il mio percorso di vita si è molto avvicinato a Gesù. Questo mi ha dato l’opportunità di entrare in contatto con alcuni amici di Comunione e Liberazione, attraverso i quali ho iniziato a leggere Tempi e ho trovato che è molto vicino al mio modo di essere.
Cos’è la camorra? E cosa vuol dire esserne un affiliato?
La camorra è tante cose, ma è soprattutto un rappresentante laddove lo Stato non esercita il proprio ruolo. Esserne un affiliato vuol dire non sentirsi più emarginati, perché ti dà l’illusione di essere forte e rispettato.
Dall’epoca in cui tu eri coinvolto nella camorra è cambiato qualcosa nel modo di ragionare, agire, presidiare il territorio da parte di quella organizzazione criminale?
Premesso che sono tanti anni che non sono più a conoscenza delle dinamiche criminali, quindi questa è un’opinione che mi sono fatto anche attraverso gli organi di informazione, secondo me l’avvento delle droghe ha modificato radicalmente il modo di pensare. Visto che circolano fiumi di soldi, quindi, è più potente e feroce, ma il dato più sconvolgente è il coinvolgimento dei giovanissimi, i quali pur di arrivare ai soldi non si pongono nessun ostacolo.
Quali sono i principali clan ancora attivi, e su quante “milizie” possono contare?
Per ovvi motivi (lunghissima carcerazione), non so quali siano i clan attivi, ma di una cosa sono certo: finché lo Stato non affronterà il fenomeno con serie politiche sociali, l’esercito del male non conoscerà mai crisi.
body {margin: 1em;background-color: #fff;}
th {text-align: left;color: #006;border-bottom: 1px solid #ccc;}
tr.odd {background-color: #ddd;}
tr.even {background-color: #fff;}
td {padding: 5px;}
#menu {visibility: hidden;}
#main {margin: 1em;}
a:link {color: #000;}
a:visited {color: #000;}
a:hover {color: #00f}
a:link img, a:visited img {border:0}
.print-footnote {font-size:small;}
.print-logo {border:0;}
.print-site_name {}
.print-title {font-size:200%;font-weight: bold;margin:0.67em 0 0.67em 0}
.print-submitted {}
.print-created {}
.print-content {}
.print-hr {border:0;height:1px;width:100%;color:#9E9E9E;background-color:#9E9E9E;}
.print-source_url {}
.print-links {font-size:small;}
.print-footer {}
Perché un ragazzo finisce in un clan? Perché ci resta?
Lo so che non dirò nulla di nuovo, ma la causa principale rimane il contesto sociale in cui si vive. Che in Campania vuol dire innanzitutto un tasso di disoccupazione spaventoso, quindi genitori che fanno fatica a garantire ai propri figli anche il minimo indispensabile; poi significa mancanza di qualsivoglia struttura sociale di aggregazione: scuole, centri sportivi, biblioteche, sale cinema eccetera. Quando tutto questo manca e il solo riferimento che ti rimane è il malavitoso del quartiere, non è difficile stabilire perché si finisce nelle grinfie dei clan. Con i quali, una volta compromessi (commissione di reati), diventa difficile, e pericoloso, poterne uscire.
Quanto pesano, secondo te, nella lotta alla criminalità organizzata, le idee e le personalità che in Italia incarnano le “mani pulite”, le manifestazioni anticamorra, le petizioni e, più in generale, la mobilitazione e gli appelli dei media?
Secondo me ogni iniziativa che parla di questi temi è meritoria, ma quella su cui bisognerebbe investire di più è senza dubbio alcuno la scuola, perché solo attraverso programmi di educazione si può realmente pensare ad un domani con una generazione più consapevole e che sappia distinguere il bene dal male.
Clan e politica. Per chi vota la camorra?
Io non so oggi qual è la situazione, ma per quella che è stata la mia passata esperienza criminale posso dire che alla camorra non interessava il colore politico, basta guardare gli atti delle inchieste che in passato hanno riguardato il clan Alfieri-Galasso (così come le audizioni parlamentari rese dallo stesso Galasso Pasquale) per rendersi conto che c’entrava poco il colore politico. La questione è appunto di uomini. Quindi, il politico di destra o sinistra che sia, il poliziotto, il magistrato, l’avvocato, l’imprenditore eccetera. L’importante per il clan è avere la disponibilità di questi soggetti. Il potere? Quando un’entità criminogena rappresenta delle aree della società, non si può dire che non sia forte. Poi la globalizzazione, come tutte le attività, riguarda anche il fenomeno criminale.
Hai letto Gomorra? Cosa ne pensi?
Ho letto Gomorra, e penso che in alcune cose che racconta ci sia enfatizzazione.
Come giudichi il “caso internazionale” che si è creato intorno a Roberto Saviano?
L’idea che mi sono fatto è che Saviano ha senz’altro il merito di avere acceso i riflettori su un fenomeno che è deleterio per l’intera Campania, però paradossalmente, allo stesso tempo, è anche un danno per quel territorio, perché insistere, personalizzando la questione, sta mitizzando il fenomeno.
Cosa c’è di nuovo nella tua vita?
C’è la consapevolezza di aver fatto del male. Poi, da quando è cessato il mio desiderio di supremazia, mi si è aperto davanti un incredibile mondo: la fede. Che attraverso l’umanità di chi la possiede è per me un incredibile arricchimento.
Cosa resta da vedere e da fare a un uomo che ha trascorso la giovinezza nella vita criminale, l’età adulta in prigione e oggi, a 48 anni, vede ancora il mondo da dietro le sbarre?
Semplicemente, vorrei vedere mia madre, ammalata, ancora in vita da uomo libero (purtroppo questo non è stato possibile per papà, scomparso tre anni fa). Ed essendo un inguaribile ottimista-sognatore, spero si creino le condizioni e mi sia data la possibilità di dimostrare che il Giugliano di oggi è un’altra persona. Augurandomi anche di conoscere una donna (affettivamente credo di poter dare ancora moltissimo) che non abbia pregiudizi, e abbia voglia di fare un percorso di vita assieme, magari mettendo su un progetto di famiglia per veder crescere dei figli.
C’è un compito, una responsabilità, che oggi ti senti addosso in modo particolare?
Mi sento addosso tutto il peso e la responsabilità di aver provocato patimento a molte persone (soprattutto ai parenti delle vittime). Comportamento che ha condizionato anche l’intera esistenza dei miei familiari. Invece il mio proposito, se Dio vuole, è quello di potermi spendere in favore dei ragazzi che vivono nei quartieri difficili, affinché non intraprendano la strada a cui mi accostai io all’età di quattordici anni.
Links:
[1] http://www.tempi.it/prima-linea/004819-il-sopravvissuto
[2] http://www.tempi.it/interni/004791-lettera-di-rosario-giugliano