JOSEPH RATZINGER, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000, euro 6,20
Questo volumetto pubblicato nel 1998 (titolo originale: Die Vielfalt der Religionen un der Eine Bund) e apparso in italiano nel 2000, raccoglie quattro contributi del regnante pontefice – allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – concepiti separatamente nel periodo 1994-1997 e scaturiti dalla riflessione intorno a due grandi temi, il «dialogo tra le religioni del mondo, che con il progredire dell’incontro e della compenetrazione delle culture è ormai divenuto una necessità interna» (p. 5), e il rapporto tra Chiesa e Israele – inscindibilmente connesso al rapporto tra Antico e Nuovo Testamento – in relazione ad una diffusa tendenza esegetica ad “accantonare” Cristo dalle Scritture, che se apparentemente eliminerebbe gli ostacoli al dialogo col giudaismo, «porterebbe al tempo stesso alla dissoluzione della parentela spirituale che ci lega ad Israele e, quindi, alle conseguenze estreme già delineate da Marcione: il Dio di Israele apparirebbe come un Dio estraneo, che non è certo il Dio dei cristiani» (p. 6).
Il primo capitolo, «Israele, la Chiesa e il mondo. I loro rapporti e il loro compito secondo il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992» (pp. 9-26) prende le mosse dalla necessità – soprattutto dopo Auschwitz – della riconciliazione nella storia dei rapporti tra Israele e la cristianità, una storia caratterizzata alternativamente da ostilità e da accoglienza. Ci si è dunque chiesti se questa ostilità non derivi proprio dalla fede in Cristo crocifisso – e se ciò implichi automaticamente una condanna degli ebrei. «Davvero le cose stanno così, quasi che il nucleo stesso della fede cristiana porti all’intolleranza, anzi all’ostilità nei confronti degli ebrei […]?» (p. 10). Partendo da queste premesse la vicenda di Cristo ha subito diverse letture riduttive – tendenti, ad esempio, a posticiparne la divinizzazione, attribuita all’influsso ellenistico – che però «non parlano del Gesù delle fonti storiche, ma costruiscono un Gesù nuovo e differente» (ibid.). La questione non viene così affrontata, bensì aggirata, e la domanda di partenza resta tale e quale. Il cardinale Ratzinger cita il n. 528 del Catechismo della Chiesa cattolica del 1992: la venuta dei Magi «sta a significare che i pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi ai giudei e ricevendo da loro la promessa messianica quale è contenuta nell’Antico Testamento. L’Epifania manifesta che “la grande massa delle genti” entra “nella famiglia dei patriarchi” e ottiene la dignitas israelitica – la dignità israelitica» (p. 12). La stessa missione di Gesù si configura così come riconciliazione di tutti i popoli con Dio, mediante il loro «innesto» nel popolo di Israele.
Ciò non toglie ulteriori interrogativi: «L’immagine storica di Gesù, il suo messaggio e la sua opera corrispondono a questa visione o non finiscono proprio per contraddirla?» (p. 14). In particolare «sono proprio i temi della Legge, del Tempio, dell’unicità di Dio [cui il Catechismo dedica rispettivamente i nn. 577-582, 583-586, 587-591, n.d.r.] a portare con sé tutta la carica esplosiva delle lacerazioni ebraico-cristiane» (p. 15). Molte letture moderne si fanno portatrici del clichè della contrapposizione tra un legalismo farisaico e un Cristo ribelle che libererebbe dal giogo della Legge. In realtà i farisei non sono attaccati solo alla lettera, ma anche allo spirito, e Gesù non è venuto ad abolire la Legge ma a svelarne le potenzialità. Se l’annuncio del Sinai e il discorso della montagna sono intimamente legati, come si giunge allora al conflitto conclusosi sul Calvario? E come sarebbe possibile, in ogni caso, universalizzare una Legge riferita concretamente a Israele, senza che mediatori umani si pongano al posto di Dio?
«Gesù non ha agito come un liberale, che raccomanda e pratica lui stesso un’interpretazione della Legge aperta e accomodante. Nel confronto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non sono di fronte un liberale e una gerarchia ottusa nel proprio tradizionalismo. Una tale ottica tanto diffusa, misconosce alla radice il conflitto del Nuovo Testamento; in tal modo non si rende ragione né di Gesù né di Israele. La sua apertura della Legge Gesù l’ha piuttosto realizzata in senso pienamente teologico, nella consapevolezza e con la pretesa di agire nella più intima unità con Dio, il Padre, proprio in quanto Figlio, di agire cioè nella piena autorità di Dio. […] Il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non riguarda in definitiva questa o quella singola prescrizione legale, ma la pretesa di Gesù di agire ex auctoritate divina, anzi di essere lui stesso questa auctoritas. “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30)» (p. 21).
Questo rivela sia la legittimità dell’operazione di Gesù, sia, al contempo, la profondità del contrasto: egli è colpevole, agli occhi di chi non ne riconosce l’auctoritas, di aver violato non un precetto qualsiasi, bensì quello fondamentale dell’unicità di Dio. Il conflitto si conclude sulla croce, che non ha il duplice effetto di condanna per ebrei e redenzione per i pagani, bensì l’unico scopo di redenzione per tutti; ed è sulla croce che avviene il compimento e l’universalizzazione della Torah, senza togliere neppure uno iota e lasciando intatta la sua unità di culto ed ethos: «tutte le prescrizioni cultuali dell’Antico Testamento vengono assunte in questa morte e in essa condotte al loro significato più profondo» (p. 22), poiché «nella croce viene raccolto tutto il culto, anzi, solo nella croce esso si fa pienamente reale. Secondo la fede cristiana, sulla croce Gesù manifesta e adempie la totalità della Legge e la trasmette così ai pagani, che ora possono farla propria in questa sua totalità, divenendo con ciò figli di Abramo» (p. 23).
La riflessione sulla crocifissione implica inevitabilmente la questione della «responsabilità collettiva» dei giudei, rifiutata dal Concilio Vaticano II, poiché essa è da imputare a tutti i peccatori. «Il Catechismo Romano del 1566, citato dal nuovo Catechismo (598), aggiunge poi che gli ebrei, secondo la testimonianza dell’apostolo Paolo, “se l’avessero saputo non avrebbero mai ucciso il Re della gloria” (1Cor 2,8). Prosegue quindi: “noi invece professiamo di conoscerlo e poi, negandolo con i fatti, pare che leviamo le mani violente contro di lui” (Catech. R. 1,5,11)» (p. 25). Ciò che conta, conclude Ratzinger riferendosi alla lettera agli Ebrei (12,24), è che «il sangue di Gesù ha una voce diversa – più eloquente – da quella del sangue di Abele, del sangue di tutti coloro che nel mondo sono morti ingiustamente. Non invoca punizione, ma è riconciliazione» (ibid.).
Nel secondo capitolo, «La nuova alleanza. Sulla teologia dell’alleanza nel Nuovo Testamento» (pp. 27-48), Ratzinger parte da una questione terminologica – testamento o alleanza? – che va oltre gli aspetti puramente filologici relativi all’interpretazione della parola ebraica «berit»: se «testamento» implica una disposizione unilaterale da parte di Dio, alleanza indica una reciprocità che pone i contraenti sullo stesso piano – e ciò è incompatibile con l’idea di Dio. Ma se da una parte Dio compie un atto sovrano e unilaterale, «la dinamica del concetto di Dio cambia dall’interno la sostanza del processo, il senso del suo porsi come sovrano. Se ora la vera sostanza di ciò che accade non è più vista a partire dall’idea di patto statuale, ma nell’immagine dell’amore sponsale, come avviene nei Profeti – nel modo più toccante in Ezechiele 16 -, se l’atto contrattuale appare come una storia d’amore tra Dio e il popolo eletto, continua ancora a sussistere l’asimmetria nella sua antica forma? […] Da una parte, rispetto all’infinita alterità di Dio, il concetto di Dio deve apparire come la più radicale esaltazione dell’asimmetria, dall’altra la vera natura di questo Dio sembra realizzare però un’inattesa reciprocità» (pp. 29-30).
A questo punto l’autore si pone un’altra domanda: «come si distinguono l’“antica” e la “nuova” alleanza? In che cosa consiste l’unità e in cosa la diversità del concetto di alleanza nei due Testamenti?» (p. 30). Se «nella seconda lettera ai Corinzi Paolo pone in netta antitesi l’alleanza instaurata da Cristo e quella di Mosé, definendo quest’ultima transitoria e l’altra permanente» (p. 31), altri testi paolini, in particolare la lettera ai Romani, rivelano la molteplicità dell’antica alleanza – meglio: delle alleanze, al plurale – quella fondamentale con Abramo, incentrata sulla promessa, e quella successiva con Mosé, costituita dalla Legge: «con questa distinzione viene meno la rigida contrapposizione tra antica e nuova alleanza e si esplicita l’unità carica di tensione della storia della salvezza, in cui nelle diverse alleanza si realizza l’unica alleanza. Se le cose stanno così, non si possono assolutamente contrapporre l’Antico e il Nuovo Testamento come se si trattasse di due diverse religioni; c’è una sola volontà di Dio nei riguardi degli uomini, un solo agire storico di Dio con gli uomini, che si compie nei suoi interventi, certamente diversi e in parte anche contrapposti, ma in verità sempre intimamente legati l’uno all’altro» (p. 34).
Anche nei testi dell’Ultima Cena è presente questo legame. Nella versione di Matteo e Marco (cfr. Mt 26, 26-29; Mc 14,22-25), Cristo dice che il calice è «il mio sangue dell’alleanza» richiamando «il sangue dell’alleanza» (Es 24,8) con cui Mosé asperge l’altare il popolo ai piedi del Sinai: «la Cena è intesa come conclusione dell’alleanza, cioè come prolungamento dell’alleanza sinaitica, che qui non viene messa da parte, ma appare rinnovata» (p. 38). Nella versione paolino-lucana (Lc 22,19-20; 1Cor 11,23-26), Gesù parla della «nuova alleanza nel mio sangue», richiamando la tradizione profetica confluita in Ger 31,31-34. «Al posto dell’alleanza violata del Sinai Dio stipulerà una nuova alleanza – così promette il profeta – che non potrà più essere violata, poiché essa non starà più dinanzi all’uomo come libro o come tavola di pietra, ma sarà scritta nel suo cuore. […] l’Antico e il Nuovo Testamento non sono semplicemente posti l’uno di fronte all’altro come due mondi separati, ma […] l’idea dell’alleanza violata e di quella nuova, stabilita da Dio, era già presente nella fede stessa di Israele» (p. 39).
Dunque per tornare alla domanda di partenza, in che rapporto stanno le alleanze vetero-testamentarie con la nuova alleanza? Innanzitutto bisogna ricordare che già l’alleanza con Abramo «mostra un indirizzo universalistico e guarda ai molti che dovranno essere dati ad Abramo come discendenza. […] In questo senso la promessa fatta ad Abramo garantisce fin dall’inizio l’intrinseca continuità della storia della salvezza, dai padri di Israele fino a Cristo e alla Chiesa dei giudei e dei pagani» (p. 42). Quanto all’alleanza con Mosé, è bene tener presente che Legge e Profeti, cioè Legge e attesa del Messia non vanno dialettizzati: sia perché la prima non è solo un giogo, anzi «la Legge stessa è la forma concreta della grazia» (ibid.), in quanto permette di conoscere la volontà di Dio; sia perché il Messia non toglie il diritto, è lui stesso la legge da seguire. «Così in effetti l’alleanza sinaitica è davvero superata, ma, nel momento in cui le viene tolto ciò che di essa era provvisorio, appare la sua vera definitività, viene alla luce ciò che di essa è definitivo. Per questo l’attesa della nuova alleanza, che emerge con crescente chiarezza nella storia di Israele, non si contrappone all’alleanza sinaitica, ma corrisponde alla dinamica dell’attesa che in essa è racchiusa» (p. 44).
Infine possiamo tornare sulla questione terminologica: testamento o alleanza? Se tutte le alleanze della Bibbia sono asimmetriche, e pertanto «testamenti», disposizioni sovrane di Dio, d’altra parte Egli si auto-impone degli obblighi, «si è fatto nostro debitore, non perché ha ricevuto qualcosa da noi, ma perché a noi ha promesso cose tanto grandi» (p. 45), come diceva Agostino.
Nella visione di Abramo, Dio stesso passa tra gli animali sacrificati, gesto che significa la volontà di pagare di persona l’eventuale rottura di un giuramento. L’esegesi vi vede un’anticipazione della croce, «in cui Dio, con la morte di suo Figlio, di fa garante dell’indistruttibilità dell’alleanza e si consegna radicalmente all’uomo (Gn 15,1-21). Fa parte dell’essenza di Dio l’amore per la creatura, e da questa essenza discende anche la sua libera scelta di legarsi, che si spinge fino alla croce» (p. 46), affinché assumendo Egli la nostra natura umana, noi partecipassimo della Sua natura divina: «in questo scambio delle nature, che costituisce l’immagine cristologica fondamentale, il carattere incondizionato dell’alleanza divina si è trasformato in una bilateralità definitiva» (ibid.). Il testamento diventa alleanza.
Infine, alla luce dell’essenza trinitaria di Dio, si comprende come «per lui, che è fino in fondo relazione, l’alleanza non sarebbe allora qualcosa che si colloca al di fuori della storia, lontano dalla sua essenza, ma il farsi manifesto di ciò che lui stesso è, “lo splendore del suo volto”» (p. 48).
«La nuova manna» (pp. 49-55) è l’omelia per una messa officiata nell’agosto 1997 a Monaco di Baviera. Anche qui si colgono continui contatti tra i due Testamenti, e quindi tra Chiesa e Israele. Nella prima lettura (1Re 19,4-8) il profeta Elia, ultimo profeta rimasto in un Israele divenuto pagano, «deve tornare indietro, per quaranta giorni e quaranta notti, fino al punto dove la storia della fede è propriamente cominciata, fino al monte Oreb» (p. 50), cioè il Sinai. «Un simile ritorno, il recupero della propria storia, deve ripetersi in continuazione. Avviene nei quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto. La Chiesa cerca di farlo ogni anno nei quaranta giorni di preparazione alla Pasqua: uscire nuovamente dal peso del paganesimo, che continua a spingerci lontano da Dio, tornare sempre a rivolgerci a lui. E all’inizio della celebrazione eucaristica, nella confessione dei peccati, cerchiamo anche noi di riprendere questo cammino, di uscire nuovamente, di tornare ad incontrare sul monte di Dio la sua parola e la sua presenza» (pp. 50-51). In questo cammino Elia è sostenuto soltanto da un pezzo di pane e da una brocca d’acqua: è la nuova manna, che richiama quella di cui si era nutrito Israele nei quarant’anni di peregrinazione verso la terra promessa. «La manna doveva mostrare che l’uomo può vivere solo di Dio, deve imparare a vivere di Dio; solo allora vive davvero, solo allora possiede cioè la vita eterna, poiché Dio è eterno» (p. 52). «Ciò che significa questo “vivere di Dio” è espresso con forza in due frasi del vangelo, intimamente legate tra loro: Chi crede ha la vita eterna. Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo [Gv 6, 47 e 51]. Vivere di Dio significa anzitutto credere ed entrare così in rapporto con lui, entrare in intima armonia con lui. Ma da quando Dio si è fatto carne […] il credere stesso è divenuto qualcosa di corporeo» (p. 53) nella Chiesa, nei sacramenti, e soprattutto nel sacramento dell’Eucaristia, in cui Cristo si dona affinché viviamo in lui, diventando, come dice San Paolo nella seconda lettura (4, 30 – 5, 2), «imitatori di Dio», nelle piccole virtù in cui si concretizza l’amarsi gli uni gli altri – «come Cristo ci ha amati e ha dato sé stesso per noi come dono e sacrificio gradito a Dio» prosegue san Paolo -, cosa impossibile a realizzarsi se non ci si nutre della «vera manna» (p. 55), cioè di Cristo stesso.
L’ultimo saggio, dal titolo «Il dialogo delle religioni e il rapporto tra ebrei e cristiani» (pp. 57-74), prende le mosse da un brano del De pace fidei, scritto nel XV sec. dal cardinale Nicola Cusano, cui il fallimento del tentativo di unione con la Chiesa greca e la minaccia turca seguita alla conquista di Costantinopoli ispirano una sorta di «utopia ecumenica»: «“Cristo come logos universale convoca un concilio celeste, perché lo scandalo della molteplicità delle religioni sulla terra è divenuto intollerabile”; in esso diciassette rappresentanti delle diverse nazioni e religioni, mediante il logos divino, saranno portati a riconoscere che nella Chiesa rappresentata da Pietro le domande religiose di tutti possono essere appagate”» (p. 57). Nel frattempo, osserva Ratzinger, questo concilio è disceso sulla terra e la questione ecumenica è ormai all’ordine del giorno. Lungi dal risolvere i problemi, tale questione pone sempre ulteriori domande: «come può accadere ciò? Come è possibile l’incontro nella diversità delle religioni e fra i contrasti che proprio oggi assumono spesso forme violente? Che tipo di unità può mai esserci? In quale misura si può almeno tentare di perseguirla?» (p. 60).
Un approccio falsamente «rassicurante» è quello «mistico», che sfumerebbe la molteplicità delle religioni e dei loro dogmi – con annesse presunte intolleranze – in una esperienza sentimentale, il cui carattere prevalentemente interiore terrebbe al riparo dal conflitto con la ragione. «La New Age è per così dire la proclamazione dell’età della religione mistica, che è razionale proprio in quanto non avanza nessuna pretesa di verità e dunque per sua natura è tollerante; anche se nel contempo garantisce all’uomo la rottura dei limiti dell’essere di cui egli ha bisogno per poter vivere e accettare la propria finitezza» (p. 62). Come logica conseguenza «l’imperativo centrale di Israele: “Ascolta, Israele, il tuo Dio è un Dio vivente”, che di fatto resta costitutivo anche per cristianesimo e islam, perde così i suoi contorni» (p. 63). Tuttavia, date queste premesse, «la religione […] diventa, per così dire, una terapia individuale: la salvezza si trova al di fuori del mondo; per operare in esso non ci viene data altra indicazione al di fuori della forza che si può accrescere ritirandosi regolarmente nella dimensione spirituale. Ma questa forza, come tale, non ha per noi alcun messaggio chiaramente definibile. Nel nostro agire all’interno del mondo restiamo dunque abbandonati a noi stessi» (p. 64).
Malgrado l’importanza dell’elemento mistico all’interno delle religioni teistiche, «la fede nell’unico Dio implica necessariamente il riconoscimento della volontà di Dio: l’adorazione di Dio non è semplicemente un’immersione, bensì ci restituisce noi stessi e ci impone l’impegno nella vita quotidiana, reclama tutte le energie del nostro intelletto, del nostro sentimento e della nostra volontà» (p. 65).
Altro modello è quello «pragmatico», secondo il quale, al solito, le religioni dovrebbero mettere tra parentesi le differenze dottrinali e la pretesa di verità di ciascuna, per privilegiare l’impegno pratico in difesa della pace, della giustizia, della salvaguardia del creato, in breve sostituendo l’ortoprassi all’ortodossia. «Ma le religioni non possiedono una conoscenza a priori di ciò che hic et nunc è utile alla pace, di come sia possibile costruire la giustizia sociale negli Stati e fra gli Stati, di come si possa tutelare nel modo migliore la creazione» (p. 65). Il perseguimento di questi scopi spesso richiede mezzi differenti, che rientrano nel campo dell’opinabile: per fare un esempio, posto che la pace non è la semplice assenza di operazioni militari – che di per sé sola sarebbe al massimo una tregua – bensì la «tranquillitas ordinis», un ordine basato sulla giustizia e la carità, non è detto che l’unico mezzo per ottenerla sia la non-violenza; al contrario talvolta proprio per consolidare la pace è necessario l’uso della forza nei confronti di chi la minaccia (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio, nn. 480-486). «Dove questo pluralismo, spesso non superabile, dei percorsi e il faticoso confronto razionale vengono scavalcati da un moralismo con motivazioni religiosi e una sola via è dichiarata giusta, la religione si trasforma in dittatura ideologica, il cui furore totalitario non costruisce la pace, ma la distrugge» (p. 65)
A questo punto, «falliti» i tentativi di sfumare le asperità delle religioni teistiche, relativizzando la propria idea di Dio e i dogmi, per portare in primo piano l’impegno pragmatico o l’esperienza mistica, ci si chiederà: «la religione teistica, dogmatica e gerarchicamente ordinata, è di necessità intollerante? La fede nella verità formulata nel dogma rende incapaci di dialogo? L’attitudine alla pace è legata alla rinuncia alla verità?» (p. 69). La risposta è no.
Ratzinger dice chiaramente che «l’incontro tra le religioni non può avvenire nella rinuncia alla verità, ma è possibile solo mediante il suo approfondimento. Lo scetticismo non unisce. E nemmeno il puro pragmatismo unisce. […] Vanno incoraggiati invece il rispetto profondo per la fede dell’altro e la disponibilità a cercare, in ciò che incontriamo come estraneo, la verità che ci può concernere e può correggerci e farci progredire» (pp. 71-72), pronti anche ad una onesta autocritica – aggiungiamo, senza tradire troppo: previa verifica della fondatezza delle accuse e ricordando che le guance da porgere sono solo due.
Qual è dunque il vero ecumenismo? Consiste forse nello smettere di evangelizzare, limitandosi invece ad «aiutarsi reciprocamente a diventare migliori cristiani, ebrei, musulmani, induisti o buddisti? Rispondo di no. Questa sarebbe infatti la completa assenza di convinzioni, in cui – con il pretesto di convalidare ciò che ciascuno ha di meglio – non prenderemmo sul serio né noi né gli altri e rinunceremmo definitivamente alla verità. La risposta mi sembra essere piuttosto che missione e dialogo non devono più essere forme contrapposte, ma compenetrarsi reciprocamente.
Il dialogo non è un intrattenimento senza scopo, ma ha di mira la persuasione, la scoperta della verità, altrimenti è senza valore. Dall’altro canto la missione in futuro non può più essere compiuta come se si comunicasse con un soggetto fino a quel momento privo di qualunque conoscenza di Dio, a cui deve credere.
[…] All’altro non si dice qualcosa di completamente ignoto, ma si dischiude la profondità nascosta di ciò che egli ha già sperimentato nella sua fede» (p. 73).
Stefano Chiappalone