L’Africa senza tregua e il pericolo di un nuovo genocidio

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di Massimo Introvigne
“Siamo di fronte a un vero e proprio genocidio, non siamo solo alle soglie di un genocidio come la comunità internazionale continua a raccontarci”.
Lo afferma un documento dei Vescovi cattolici del Sudan, diffuso dalla Sala Stampa vaticana, che fa giustizia degli equilibrismi verbali di chi dibatte da settimane se sia appropriato chiamare “genocidio” quello che sta succedendo nel Darfour, nell’Ovest del Sudan. “Le migliaia di civili uccisi, violentati e torturati dalle milizie Jenjawid rendono il termine genocidio applicabile alla situazione in Darfour”, concludono i vescovi. A differenza del Sud del Sudan, dove per ora regge l’accordo di pace firmato grazie alla mediazione di Stati Uniti, Italia e alcuni Paesi africani, nel Darfour non ci sono cristiani. La guerra è fra musulmani: le milizie Jenjawid sono arabe, le vittime africane, in una lugubre riedizione di conflitti di un tempo fra mercanti di schiavi arabi e tribù africane aggredite per fornire schiavi al commercio internazionale.
Dietro le milizie c’è almeno una fazione importante del governo di Khartoum che – dopo avere concesso al Sud un referendum per l’indipendenza, sia pure fra sei anni – non vuole correre il rischio di un nuovo separatismo nel Darfour. Nel frattempo l’ideologo dell’ultra-fondamentalismo Hassan al-Turabi, l’alleato di Al Qaida che il presidente sudanese Bashir ha fatto incarcerare, pesca nel torbido dalla prigione promettendo il suo appoggio ora alle milizie ora agli indipendentisti del Darfour.
Lunedì è scaduto l’ultimatum dell’Onu che chiedeva di disarmare le milizie e di permettere l’arrivo degli aiuti umanitari nel Darfour. L’ultimatum non è stato rispettato, ma secondo fonti americane è improbabile che il Consiglio di Sicurezza voti giovedì le sanzioni contro il governo sudanese richieste dagli Stati Uniti. I francesi, interessati in via diretta al petrolio sudanese, preparerebbero l’ennesimo veto. Russi e cinesi hanno antiche relazioni commerciali con il regime di Khartoum. L’Unione Europea afferma che almeno sono iniziate trattative ed è migliorata la situazione degli aiuti umanitari.
È tutto falso. La risoluzione 1556 dell’Onu del 30 luglio dava al governo trenta giorni per chiudere i campi di addestramento delle milizie Jenjawid. Non ne è stato chiuso neppure uno, anzi ne sono stati aperti di nuovi. L’Onu chiedeva l’arresto dei dirigenti delle milizie. Non è successo: mentre il governo mostrava alla stampa estera alcuni detenuti comuni spacciati per Jenjawid, i capi delle milizie – liberi e tracotanti – tenevano la loro conferenza stampa in un albergo a cinque stelle di Khartoum. Certo, gli aiuti umanitari hanno potuto transitare verso il Darfour: dove però sono in gran parte stati rubati dalle milizie.
Si parla di concedere tempo al Sudan, ma i morti non aspettano. Hanno già superato i centomila, e il rischio è che ogni settimana di attesa costi agli africani del Darfour diecimila morti. L’Occidente teme, in caso di intervento, un nuovo Irak: avrà invece un nuovo Ruanda. Eppure, l’invio di truppe occidentali non è necessario. La lezione del Sud del Sudan dimostra che, se le belle parole falliscono, serie pressioni – blocco dei passaporti e dei conti esteri ai principali dirigenti sudanesi, blocco delle esportazioni, embargo sulla vendita di armi non solo alle milizie private ma anche al governo che le rifornisce – portano i pragmatici generali di Khartoum al tavolo delle trattative. Ma bisogna far presto: il massacro non si ferma, ed è davvero un genocidio.

Il Giornale, 1 settembre 2004, p.12