E’ uscito un libro di Francesco Piva [“La gioventù
cattolica in cammino …”. Memoria e storia del gruppo
dirigente (1946-1954), Franco Angeli, Milano 2003]
sulle due gravi crisi che ferirono l’Azione Cattolica
Italiana (ACI) nel 1952 e nel 1954, con le dimissioni
di Carlo Carretto e Mario Rossi, entrambi presidenti
del ramo giovanile dell’ACI, la Gioventù Italiana di
Azione Cattolica (GIAC), entrati in contrasto con
Luigi Gedda, presidente generale dell’ACI.
Il libro nasce dall’incontro, avvenuto oltre
quarant’anni dopo, fra i dirigenti della GIAC
protagonisti dei due episodi, riunitisi per
riflettere su quegli avvenimenti con l’aiuto di uno
storico, Francesco Piva, docente di Storia
contemporanea all’università di Roma “Tor Vergata”,
che si è poi fatto carico di raccogliere e scrivere
le loro testimonianze confrontandole con i documenti
dell’epoca.
Il libro è importante perché permette di conoscere
dalla viva testimonianza dei protagonisti l’itinerario
spirituale e intellettuale di una parte della classe
dirigente giovanile della principale associazione
cattolica del tempo; così, offre un contributo alla
riflessione su due dei principali episodi che generarono
profondi contrasti, che ancora oggi permangono, a
proposito della storia del movimento cattolico in Italia.
Tuttavia è un libro “sbilanciato” perché non permette al
principale imputato, Luigi Gedda, responsabile secondo i
dirigenti del tempo di entrambe le dimissioni, di essere
difeso dal processo che, di fatto, viene intentato
contro di lui – e in generale contro la Chiesa di Papa
Pio XII – dalle pagine dell’opera di Piva.
Infatti, l’immagine che esce, o che può uscire, dalla
lettura del libro e, per esempio, dalla presentazione che
ne è stata fatta su Avvenire del 24 giugno, è quella,
peraltro corrente, di un Gedda autoritario, fanatico
dell’organizzazione, insensibile alla formazione
culturale e spirituale al punto di non avvertire le
giuste esigenze avanzate da Carretto e Rossi; inoltre,
un Gedda irrimediabilmente di destra, ossessionato, come
Pio XII, dall’ipotesi che il Partito comunista possa
conquistare la maggioranza e governare l’Italia e per
questo avverso anche alla Democrazia Cristiana, che
voleva controllare attraverso i Comitati Civici.
Ho conosciuto Gedda pochi anni prima della sua morte e
l’ho incontrato soltanto due volte, quindi non sono in
grado di giudicare quegli aspetti della sua personalità
che pur sarebbe importante conoscere per spiegare gli
atteggiamenti che gli vengono imputati.
Tuttavia, mi sembra che questa immagine del presidente
dell’ACI non corrisponda alla realtà.
Gedda ricevette dal Pontefice l’incarico di promuovere
la campagna di mobilitazione per le elezioni del 18
aprile 1948 e a questo fine organizzò i Comitati Civici,
un organismo di formazione e propaganda nell’ambito
dell’educazione civica, che non era né un partito né
un’associazione religiosa, ma qualcosa che si occupava
parzialmente di entrambi, della religione e della
cultura politica, e anche delle consultazioni elettorali.
Inoltre, e contemporaneamente, dirigeva prima gli adulti
e quindi la totalità dell’ACI, che arrivò ad avere
milioni di iscritti durante la sua presidenza.
Dirigeva un’associazione di massa – felicemente di
massa, quando le masse erano ancora cattoliche –
nell’epoca delle ideologie e dei partiti di massa, con
i quali dovette confrontarsi, rispondendo direttamente
al Papa, del quale godeva piena fiducia.
Cosa avrebbe dovuto fare?
Trascurare le masse per curare la formazione specifica
dei singoli, per invadere l’ambito del quale avrebbero
dovuto occuparsi i movimenti specializzati, come i
laureati o gli universitari cattolici, o altre realtà
associative?
In parte, tra l’altro, lo fece, costituendo già nel
1944 la Società operaia, che guiderà fino alla morte,
un organismo riconosciuto dalla Chiesa con lo scopo
di formare spiritualmente i suoi membri attraverso
la spiritualità del Getsemani, cioè invitandoli a
“fare compagnia” al Signore nell’orto degli ulivi, a
lui affidando le iniziative degli “operai”.
Quest’uomo, che aveva raggiunto i vertici del laicato
italiano e aveva goduto la piena fiducia di Pio XII,
che aveva rifiutato un seggio al Senato perché non
venisse confuso l’apostolato cattolico con la vita
politica, ha saputo sopportare in silenzio l’isolamento
e l’ostracismo a cui è stato sottoposto dopo il 1959,
senza mai rinunciare alla fedeltà nella Chiesa intesa
come comunità vivente e operante nella storia, senza
contrapporre la Chiesa del tempo in cui era stato un
importante dirigente a quella in cui ritornò a essere
un semplice fedele.
Non così fecero quei dirigenti che entrarono in
polemica con lui negli anni di cui tratta il libro di
Piva e in genere coloro che vissero il periodo
precedente e successivo al Concilio Vaticano II come
le fasi di una contrapposizione frontale, di una
rottura epocale, evocando anche legittime esigenze e
sottolineando oggettive mancanze nel cattolicesimo del
tempo, ma con un atteggiamento di contrapposizione e
non di maturazione, quasi che il Vaticano II non fosse
il XXI Concilio della storia della stessa Chiesa, ma
il primo di un’altra storia che stava per cominciare.
Costoro non si rendono conto che se il cattolicesimo
italiano non recupererà tutta la sua storia e non ne
farà una memoria condivisa, non uscirà dall’incertezza,
dalla mancanza d’identità, dal complesso d’inferiorità
nei confronti delle ideologie.
Si potrà fare questo importante lavoro di recupero e
di sintesi senza negare i contrasti, le diversità
legittime di opinione e di cultura, ma senza “uscire
dal seminato”, cioè accettando “tutto” il Magistero
della Chiesa, anche quelle parti che al momento
appaiono di difficile comprensione?
Se Gedda ha dato un esempio di fedeltà, non così si
può dire di molti dei dirigenti protagonisti degli
episodi raccontati nel libro di Piva.
Alcuni sono nomi noti e non certo esemplari per il
movimento cattolico, come Umberto Eco (anche se
“Famiglia cristiana” ne diffonde oggi i libri a
prezzi di favore) o Furio Colombo, altri sono finiti
nella teologia della liberazione, come don Arturo
Paoli, o nei partiti della sinistra o nella sinistra
della DC.
Sono questi gli esempi da seguire?
I modelli da proporre?
Negli stessi anni, in Italia e nel resto del mondo,
nascevano senza strappi e contrapposizioni
dialettiche, senza “odiare” il passato ma cercando
di integrarlo, altri movimenti ecclesiali che poi
saranno gli “altri frutti” del Concilio.
Erano e sono diversi dall’ACI di Pio XII e di Gedda,
che era espressione di una Chiesa chiamata a difendere
una società cristiana aggredita e perseguitata
dall’ideologia comunista, perché sono chiamati a una
“nuova evangelizzazione” di un mondo privo anche delle
false certezze dell’ideologia.
Marco Invernizzi
30 giugno 2003
[articolo scritto appositamente per politica_cattolici]