(Fides) Dossier sulla pace in Africa

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Agenzia FIDES – 3 ottobre 2009

DOSSIER FIDES

L’AFRICA ALLA RICERCA DELLA PACE

LA NATURA DELLE GUERRE AFRICANE

L’INTEGRAZIONE DEI VECCHI NEMICI

LA PROGRESSIVA INTEGRAZIONE DEI MILITARI AFRICANI PER IL PEACEKEEPING CONTINENTALE

I MODERNI “MERCENARI IMPRENDITORI” POSSONO ESSERE DI AIUTO NELLE OPERAZIONI DI PACE?

ALLA RICERCA DI UN SISTEMA DI SICUREZZA CONTINENTALE

LA SOCIETÀ CIVILE

LA CHIESA AL SERVIZIO DELLA PACE E DELLA RICONCILIAZIONE

LE PRINCIPALI CRISI AFRICANE E I TENTATIVI DI RISOLUZIONE

   COSTA D’AVORIO
   REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
   SOMALIA
   SUDAN/DARFUR LA NATURA DELLE GUERRE AFRICANE

Città del Vaticano (Agenzia Fides) – “Guerre tribali”, “conflitti ancestrali”, “scontri etnici”, “jihad”. Sono solo alcune delle definizioni usate per descrivere i conflitti che insanguinano l’Africa da un sistema dell’informazione spesso distratto e impreciso. In realtà, le attuali guerre africane non hanno nulla di diverso dai conflitti che si combattono in altre parti del mondo, inserendosi nella categorie delle cosiddette “guerre post-moderne”.
Gli eserciti che si affrontano in questi conflitti sono spesso formazioni irregolari, in diversi casi derivate dalla frammentazione delle forze armate regolari. In alcune occasioni, sono gli stessi capi di Stato o di governo che promuovono la costituzione di formazioni paramilitari a loro fedeli, a spese delle forze armate regolari che vedono erodere il loro prestigio e il loro status. Le 3 guerre civili nel Congo Brazzaville degli anni ’90, ad esempio, hanno visto affrontarsi le milizie dei contendenti per il controllo dello Stato, con le forze armate regolari praticamente inesistenti. Milizie che assumevano nomi altisonanti (Ninja, Cobra…) ripresi magari dal cinema spettacolare. Le stesse “divise” di questi eserciti sono le più informali possibili ma seguono alcuni schemi: magliette con loghi di note case di abbigliamento, pantaloni mimetici e gli immancabili occhiali da sole.
Il forte indebolimento o la totale scomparsa dello Stato fa sì che gli attori (pubblici e privati) presenti nei teatri bellici africani siano diversi: truppe regolari nazionali, gruppi di guerriglia o paramilitari, unità di autodifesa, mercenari stranieri e truppe regolari straniere. Il finanziamento di questi gruppi armati deriva da fonti eterogenee: trasferimento di beni a favore delle unità combattenti (furti, saccheggi, presa di ostaggi e controllo dei mercati); tasse o tangenti sulla produzione di beni primari e varie forme di commercio illegali (si pensi ai traffici clandestini di diamanti o a quello della droga che anche in Africa sta prendendo piede, vedi il dossier di Fides del 3 agosto 2007); assistenza esterna, come rimesse dei rifugiati all’estero, assistenza diretta dalla diaspora che vive all’estero o aiuti da parte di governi o multinazionali stranieri; sottrazione degli aiuti umanitari a favore delle unità combattenti (esercito o guerriglia).
Le guerre postomoderne dunque alimentano una forma violenta di economia informale. In Costa d’Avorio, ad esempio, la divisione del Paese in due aree, il nord-ovest in mano alle cosiddette “Forze Nuove” e il resto sotto il controllo dell’esercito governativo, ha permesso alle diverse fazioni che controllavano i punti di passaggio da una zona all’area (e anche all’interno della stessa area) di pretendere una sorta di “pedaggio” dagli sfortunati abitanti che dovevano spostarsi da una parte all’altra. Diversi missionari hanno riferito più volte all’Agenzia Fides che l’ostacolo principale alla riunificazione della Costa d’Avorio derivava proprio dalla volontà di mantenere in vigore questo sistema di taglieggiamento della popolazione civile. Nonostante gli accordi di pace firmati a Ouagadougou (Burkina Faso) nel marzo 2007, permane una certa preoccupazione per il volatile confine tra Costa d’Avorio e Liberia (Paese che è appena uscito da una drammatica guerra civile) che rischia di diventare una zona franca aperta a commerci, legali e illegali, di ogni genere, compreso quello degli stupefacenti. L’Africa Occidentale, infatti, con i suoi porosi confini, la facile corruzione di funzionari mal pagati, e la presenza di formazione armate irregolari, è diventata una delle zone di transito della cocaina proveniente dall’America Latina in rotta verso i mercati europei e, in misura minore, dell’America del nord. I proventi di questi traffici possono quindi costituire una nuova fonte di entrata per i diversi gruppi armati della regione.
Gli stessi aiuti umanitari possono diventare preda degli eserciti irregolari, come è accaduto in Somalia negli anni ’90, oppure nell’allora Zaire, nel 1994-96, quando i campi profughi nell’est del Paese, che accoglievano gli hutu rwandesi erano taglieggiati dai resti del vecchio esercito rwandese a maggioranza hutu e dalle milizie interhamwe (responsabili del genocidio in Rwanda del 1994). La presenza di gruppi armati che agiscono all’interno dei campi per rifugiati, dove impongono la loro “legge”, reclutando a forza i giovani ospiti, è stata denunciata dalle organizzazioni umanitarie internazionali in diverse occasioni. I campi che accolgono i profughi del Darfur (la regione del Sudan occidentale teatro di massacri dal febbraio 2003), sia in territorio sudanese sia in quello del confinante Ciad, sono spesso attaccati da differenti gruppi armati.

L’INTEGRAZIONE DEI VECCHI NEMICI

In questo quadro vi sono, però, delle note positive. Negli ultimi anni sono stati raggiunti accordi di pace che hanno messo fine a conflitti sanguinosi. Le intese, in genere, prevedono, tra le altre cose, l’integrazione nelle forze armate regolari degli ex ribelli. Si tratta di un processo difficile, non irto di ostacoli, ma che è del resto indispensabile per impedire che persone ormai addestrate alla violenza si trasformino in banditi. In effetti non è sempre facile inserire nella vita civile persone che sono vissute per anni alla macchia. Il passaggio nell’esercito regolare, se ben diretto, può essere una prima tappa verso la loro completa riabilitazione. La comunità internazionale interviene in questo processo offrendo un sostegno economico, logistico e in personale specializzato, ma non sempre questo aiuto è sufficiente.
Tra gli esempi più recenti di questo tipo di accordi vi è quello del Burundi, la Repubblica Democratica del Congo e il Sudan. In Burundi le intese di pace raggiunte il 16 novembre 2003 tra il governo e le Forze per la Difesa della Democrazia (FDD) prevedono che al principale gruppo ribelle del Paese sia riservato il 40% dei posti degli ufficiali dell’esercito e il 35% di quelli della gendarmeria.

LA PROGRESSIVA INTEGRAZIONE DEI MILITARI AFRICANI
PER IL PEACEKEEPING CONTINENTALE

La maggior parte degli attuali eserciti africani necessita comunque di essere ristrutturata, introducendo una maggiore professionalità anche per acquisire capacità nuove. Alcuni Paesi quindi cercano aiuto all’estero per migliorare le proprie forze armate. Fino a qualche anno fa si chiedeva l’aiuto solo dei Paesi extracontinentali (in genere gli ex colonizzatori come Francia e Gran Bretagna, oppure potenze desiderose di esportare la propria ideologia in terra africana come l’ex Unione Sovietica o la Cina), ora si rivolgono sempre più spesso a Paesi africani amici che hanno una maggiore esperienza militare. L’Angola, una delle potenze militari dell’Africa australe, insieme al Sudafrica, ha raggiunto un accordo con la confinante Repubblica del Congo (Congo Brazzaville) in base al quale Luanda fornisce l’addestramento ad alcuni reparti specializzati congolesi. Si tratta in particolare dell’intelligence militare, della fanteria di marina e delle forze speciali. Sia pure lentamente, si creano quindi i presupposti per migliorare il coordinamento degli eserciti africani anche al fine di costituire forze di pace africane in grado di intervenire nelle diverse crisi del continente, come auspicato dall’Unione Africana.

I MODERNI “MERCENARI IMPRENDITORI” POSSONO ESSERE DI AIUTO
NELLE OPERAZIONI DI PACE?

Accanto agli eserciti regolari e ai diversi movimenti di guerriglia, esistono in Africa anche “eserciti privati” ovvero società militari private (PMC, secondo la dizione inglese), che rappresentano l’ultima evoluzione delle bande di mercenari che hanno operato nel continente fin dagli anni ’60 del secolo scorso. L’antesignana delle moderne PMC è in effetti la famosa Executive Outcomes sudafricana, non più in attività dal 1999. Questa società, formata da ex appartenenti alle forze speciali e ai servizi di sicurezza del regime dell’apartheid, ha aperto la strada al moderno mercenario-imprenditore, dotato di una struttura commerciale all’avanguardia, con uffici di rappresentanza in diversi Paesi, e di una struttura di supporto logistico superiore a quella della maggior parte delle forze armate africane.
Sulla scia di Executive Outcomes sono sorte diverse altre società che operano nel campo dell’addestramento militare, della fornitura logistica, dei servizi di sorveglianza e di intelligence al servizio di entità statali ma anche di privati. Diversi enti umanitari, infatti, si rivolgono alle PMC per assicurare la protezione del proprio personale e delle proprie strutture nelle zone a rischio. Anche organismi delle Nazioni Unite ricorrono ormai ai servizi offerti dai soldati mercenari.
Si è così aperto un dibattito sull’utilizzo per le missioni di pace sponsorizzate dall’ONU di operatori privati al posto dei “Caschi Blu”, che in Africa hanno una presenza importante. Attualmente, le Nazioni Unite gestiscono otto missioni di pace in Africa: al confine tra Repubblica Centrafrica e Ciad, nella Repubblica Democratica del Congo, in Liberia, in Costa d’Avorio, in Burundi, nel Sahara occidentale, nel sud Sudan e nel Darfur (quest’ultima è una missione ibrida Nazioni Unite/Unione Africana).
Nel novembre 2003, l’allora Segretario Generale dell’ONU, Kofi Annan, ha costituito una commissione di studio sulle “minacce di sicurezza globali”, con il compito di valutare i mezzi collettivi di prevenzione e di lotta contro le nuove sfide alla sicurezza mondiale. Tra questi, vi è il ricorso a forze di sicurezza private. Una proposta che ha suscitato naturalmente dibattiti e controversie, anche se lo stesso Kofi Annan era stato tentato di far ricorso a soldati privati per fermare il genocidio in Rwanda del 1994.
Il ricorso a nuove forme di sicurezza collettiva è del resto indispensabile visto che, secondo buona parte degli esperti internazionali, le tradizionali missioni di mantenimento della pace sono in crisi. A parte alcuni casi, la maggior parte delle missioni dell’ONU sono afflitte da tre principali problemi:

– Regole di ingaggio troppo severe che costringono i militari dell’ONU all’impotenza fino ai casi estremi nei quali essi stessi diventano ostaggi, come accaduto in Liberia nel 2000.
– Crisi finanziaria delle Nazioni Unite che scoraggia gli Stati occidentali a impegnare le proprie truppe sotto la bandiera ONU. Gli Stati fornitori di truppe infatti sono rimborsati dall’ONU con un forfait di un migliaio di dollari al mese per ogni singolo soldato. Si tratta di una somma modesta per un militare occidentale ma importate per soldati dei Paesi in via di sviluppo, alcuni dei quali (Pakistan, Uruguay, India, Bangladesh, Ghana e Nigeria) sono diventati i maggiori fornitori di “Caschi Blu”.
– L’indisciplina e l’impoverimento di alcuni contingenti hanno condotto a derive nefaste. In diversi casi, infatti, gli Stati che hanno inviato truppe sotto le insegne dell’ONU, trattengono lo stipendio versato dal Palazzo di Vetro, versando solo ai propri militari il salario abituale (meno di 300 dollari al mese). In cambio, i comandanti chiudono gli occhi sulle attività illegali delle proprie truppe (mercato nero, sfruttamento della prostituzione). Nelle operazioni dell’ONU in Africa occidentale e nella stessa Missione delle ONU in Congo (MONUC) sono stati denunciati episodi criminali. Si tratta di azioni commesse da una minoranza ma che gettano però il discreto sull’intera operazione.

ALLA RICERCA DI UN SISTEMA DI SICUREZZA CONTINENTALE

Per rimediare a queste carenze un rapporto dell’ONU del 2000, suggeriva di aumentare del 50% i fondi a disposizione del Dipartimento per il mantenimento della Pace delle Nazioni Unite. Ma è soprattutto il disimpegno delle grandi potenze ad essere indicato come uno dei principali problemi che affliggono le missioni di pace sotto l’egida delle Nazioni Unite. I governi occidentali, infatti, preferiscono favorire la formazione di forze armate straniere da impiegare in queste missioni, piuttosto che impegnarvi direttamente i propri soldati.
Fin dagli anni ’90, ad esempio gli Stati Uniti hanno promosso una serie di programmi per addestrare gli eserciti africani a condurre missioni di peacekeeping, secondo il motto “l’Africa agli Africani”. Nel 1996 fu varato il primo programma, l’ACRI (African Crisis Response Initiative) che ha offerto addestramento a 8.600 militari di Senegal, Uganda, Malawi, Mali, Ghana, Benin, Costa d’Avorio, e Kenya.
Nel 2002, questo programma è stato sostituito dall’ACOTA (African Contingency Operations Training Assistance) al quale partecipano i Paesi sopra menzionati. Rispetto al precedente, il nuovo programma pone maggiore enfasi sulle tattiche offensive e sulle operazioni antiterrorismo. Nell’ambito dell’ACOTA sono fornite armi leggere e altri equipaggiamenti. Militari africani e statunitensi sono impegnati in una serie di scambi e di visite nell’ambito dell’International Military Education Program (IMET). Questa iniziativa coinvolge 1600 militari di 44 Paesi africani, tra cui Botswana, Etiopia, Ghana, Kenya, Nigeria, Senegal e Sudafrica. A metà aprile del 2005, il Presidente Bush ha annunciato una nuova iniziativa, la Global Peace Operations Initiative, volta a formare un contingente internazionale utilizzabile per operazioni di peacekeeping. Il progetto è rivolto in particolare ai Paesi africani, che dovrebbero essere i primi ad essere coinvolti nell’iniziativa.
La recente decisione di costituire il Comando per l’Africa del Dipartimento della Difesa USA (AFRICOM) rappresenta un rafforzamento dell’impegno statunitense in Africa. Il nuovo comando, divenuto operativo nel 2008, ha il compito di arrestare la diffusione di gruppi di terroristi nel continente e di gestire i programmi di assistenza agli eserciti locali. I responsabili del Pentagono sottolineano comunque che uno dei compiti prioritari di AFRICOM è il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni africane. La povertà infatti è un elemento sul quale fa leva la propaganda estremista per penetrare in nuove aree e reclutare nuovi combattenti.
Non tutti gli Stati africani sono però convinti che la risposta ai problemi di sicurezza del continente possa venire dall’esterno. La sfida per l’Africa è infatti quella di creare un sistema di sicurezza collettivo sotto l’egida dell’Unione Africana e con il concorso di organismi internazionali, come l’ONU, e delle maggiori potenza mondiali. Vi sono già tentativi e iniziative in questa direzione. L’Unione Africana si è dotata di un Consiglio per la pace e la sicurezza, sul modello di quello delle Nazioni Unite, mentre alcune organizzazioni regionali africane hanno promosso delle missioni di pace nel loro ambito di competenza. Nel 2004, ad esempio, gli Stati della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Centrale (CEEAC) hanno annunciato la creazione di uno stato maggiore militare integrato con il compito di guidare una nuova brigata internazionale di sicurezza forti di 2.400 uomini. La creazione di questa struttura era stata sollecita dall’Unione Africana in conformità alla sua politica di sicurezza continentale. Fanno parte della CEEAC, Angola, Burundi, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica del Congo (Congo Brazzaville), Repubblica Democratica del Congo, Guinea Equatoriale, Gabon, Rwanda e Sao Tomé e Principe.
Anche la Comunità di Sviluppo dell’Africa Australe (SADC) ha deciso nel suo Vertice annuale, tenutosi a Lusaka (Zambia) nell’agosto di 2007 di creare una brigata d’intervento rapido per missioni di mantenimento della pace. Si tratta di una delle 5 forze di intervento rapido che l’Unione Africana intende costituire entro il 2010 una per ogni sotto-regione continentale: Africa del nord, dell’ovest, dell’est, centrale e australe. La nuova brigata sarà formata dai militari di Angola, Bostwana, Lesotho, Malawi, Maurizius, Mozambico, Namibia, Repubblica Democratica del Congo, Sudafrica, Swaziland, Tanzania, Zambia e Zimbabwe.
Il futuro della sicurezza del continente è quindi in mano agli africani, che dovranno trovare formule innovative per rinvigorire la funzione di peacekeeping. Per questo gli eserciti africani dovranno essere ristrutturati e integrati in una struttura di comando sotto l’egida dell’Unione Africana.

LA SOCIETÀ CIVILE

Il disarmo e la smobilitazione degli ex combattenti e il ripristino delle condizioni di sicurezza nelle aree di crisi sono solo il primo passo per la costruzione della pace. La vera pace deriva dalla ricostruzione economica e del tessuto sociale. In questo campo è la società civile, e con essa la Chiesa, ad avere un ruolo insostituibile.
Negli ultimi anni, in diverse parti dell’Africa sono nate diverse organizzazioni della società civile, dalle associazioni per la difesa dei diritti umani a quelle umanitarie, dalle organizzazioni femminili a quelle di verifica della regolarità del voto, che forniscono un valido contributo alla costruzione della pace “dal basso”, favorendo il dialogo e la collaborazione tra le diverse componenti della società. In questo contesto la Chiesa cattolica apporta un contributo fondamentale.

LA CHIESA AL SERVIZIO DELLA PACE E DELLA RICONCILIAZIONE

“Cammini di pace sono stati aperti dai Pastori, dalle persone consacrate, dalle Comunità Ecclesiali Viventi, dai laici, individualmente o in associazioni. Restano ancora degli ostacoli da superare… L’instabilità politica che compromette così gravemente la pace nel continente africano affonda le radici nella storia: la schiavitù, la colonizzazione e la neo-colonizzazione. Benché la migrazione interna ed estera delle popolazioni sia un fenomeno sociale normale, essa ha finito per diventare fonte di disordini e conflitti. La pace è certamente molto più del silenzio delle armi, ma i conflitti sono il sintomo della sua assenza (nella R.D. del Congo, nello Zimbabwe, in Somalia, in Sudan [Darfour], ecc.). Le transizioni politiche verso una gestione democratica del potere hanno mostrato al mondo scene fratricide orchestrate da partiti rivali” (Instrumentum Laboris della Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, Nn.63-64).
La Chiesa cattolica ha sempre accompagnato gli sforzi di pace nei Paesi africani. Come ricorda un recente documento del Simposio delle Conferenze Episcopali di Africa e Madagascar (SECAM) “fin dal momento dell’inaugurazione del Simposio, nel luglio 1969, i Vescovi del continente si sono impegnati a sostenere Papa Paolo VI nella sua missione di pace in Africa, con la pubblicazione di due dichiarazioni sulla pace e lo sviluppo al termine dell’Assemblea inaugurale”.
Nel luglio 2008 il documento conclusivo dell’Assemblea dell’AMECEA (che riunisce i Vescovi di Eritrea, Etiopia, Malawi, Kenya, Tanzania, Sudan, Uganda, Zambia a cui si aggiungono come membri affiliati, Gibuti e Somalia) sottolineava che “la Chiesa non possiede tutti i mezzi per risolvere conflitti e tensioni” tuttavia, nel contesto attuale, essa deve continuare ad essere una voce profetica, il che vuol dire “promotrice di giustizia, perdono e riconciliazione”. “Come Pastori, crediamo che la riconciliazione deve essere al centro dell’azione della Chiesa e che deve partire dal cuore di ogni persona. Come cristiani, siamo tutti chiamati ad annunciare la Buona Novella di Cristo ed a denunciare l’ingiustizia, ovunque ci troviamo”.
Oltre alle unione regionali dei Vescovi, le diverse Conferenze Episcopali nazionali, anche attraverso le rispettive Commissione “Giustizia e Pace”, hanno pubblicato e continuano a farlo, diversi documenti di riflessione, di analisi e di esortazione per affrontare alla radice le cause delle violenze. In questi giorni (ottobre 2009), ad esempio, i Vescovi dello Zimbabwe hanno diffuso una Lettera Pastorale nella quale analizzano le cause delle lacerazioni del Paese, suggerendo la via per ritrovare la riconciliazione e la pace.
Le analisi delle diverse Conferenze Episcopali non sono mai fine a se stesse, ma indicano ai responsabili politici cattolici (e non) e più in generale, alla popolazione, una strada concreta per costruire un Paese più unito e pacifico. I Vescovi inoltre denunciano gli interessi economici, spesso con forti ramificazioni internazionali, che alimentano le guerre, chiedendo che le risorse naturali dei loro Paesi siano utilizzate per recare reali benefici alle popolazioni. Ricordiamo ad esempio le continue esortazioni in questo senso da parte delle Conferenze Episcopali della Repubblica Democratica del Congo e della Nigeria.
Oltre a questo la Chiesa ha svolto un servizio di promozione umana e di formazione alla democrazia. Un caso per tutti è quello della Repubblica Democratica del Congo, dove le elezioni del 2006, sono state precedute da un’intensa e capillare campagna di formazione dell’elettorato congolese promossa dalla Chiesa. Una campagna apartitica il cui scopo era di permettere ai congolesi di comprendere il significato e l’importanza del voto, in un Paese dominato per 30 anni dal Maresciallo Mobutu, e sconvolto da 10 anni di guerra civile. La forte partecipazione al voto e il regolare svolgimento delle elezioni sono dovuti anche agli sforzi prodotti dalla Chiesa, attraverso migliaia di volontari che in tutto il vasto territorio del Congo hanno svolto questa importante campagna di sensibilizzazione.
In particolare, il Coordinamento delle operazioni per la riuscita della transizione della Chiesa cattolica (CARTEC) ha svolto un’importante opera di sensibilizzazione della popolazione sulle modalità del voto e sull’importanza del referendum costituzionale del 2005 e delle elezioni del 2006. Tra gli osservatori elettorali indipendenti vi era inoltre una forte rappresentanza di cattolici. Durante il secondo turno delle elezioni presidenziali congolesi, nella sola Arcidiocesi di Kinshasa vi erano 1.446 osservatori elettorali cattolici, che hanno totalizzato 30 ore di lavoro durante le quali sono stati percorsi complessivamente 200 chilometri, per raccogliere le schede degli osservatori e dello spoglio. Lo stesso volume di ore e di chilometri è stato impiegato per raccogliere le sintesi dei rapporti provenienti dai decanati e dalle parrocchie.
Le organizzazioni umanitarie della Chiesa (in particolare le diverse Caritas nazionali in coordinamento con la Caritas Internationalis e altri organismi assistenziali cattolici) intervengono inoltre in tutte le situazioni di emergenza, provocate da disastri naturali oppure dalla violenza dell’uomo. E sono spesso i missionari a rimanere accanto alle popolazioni vittime della guerra quando gli operatori degli organismi umanitari internazionali sono stati ritirati per “motivi di sicurezza”.
Fedele all’insegnamento di Cristo, la Chiesa predica il Vangelo non solo a parole ma anche con atti concreti a beneficio di tutte le popolazioni africane.

LE PRINCIPALI CRISI AFRICANE E I TENTATIVI DI RISOLUZIONE: SCHEDA

COSTA D’AVORIO

La Costa d’Avorio si appresta a partecipare alle elezioni presidenziali più volte rimandate. Il voto previsto il 29 novembre, dovrebbero segnare il ritorno alla stabilità dopo anni di divisioni. Le elezioni sono previste dagli accordi di pace di Ouagadougou (Burkina Faso), firmati nel 2007, che ha posto fine alla divisione nel Paese, creatasi dal settembre 2002, quando a seguito di un fallito colpo di Stato, alcuni militari ribelli di origine settentrionale hanno occupato le regioni del nord-ovest, dando vita a una crisi che ha lacerato gli animi della Costa d’Avorio. I ribelli si sono costituiti in una serie di gruppi armati che sono poi confluiti sotto un’unica sigla, le “Forze Nuove”, raggruppando gli uomini del Movimento Patriottico della Costa d’Avorio (MPCI) – nel nord del Paese- del Movimento per la Pace e la Giustizia (MPJ) e del Movimento Popolare Ivoriano per il Grande Ovest (MPIGO) – nell’ovest – contro il governo di Laurent Gbagbo. Le milizie delle “Forze Nuove” sono costituite da circa 7mila uomini, alcuni dei quali sono militari ribelli delle FANCI (Forze Armate Nazionali della Costa d’Avorio). Anche buona parte dell’armamento proviene dagli arsenali delle caserme e delle basi dell’esercito governativo del nord del Paese, che furono conquistate durante il tentativo di golpe del 2002. Il Presidente Gbagbo ha però accusato alcuni Paesi stranieri di aver fornito ai ribelli armamenti nuovi.
Le FANCI, demotivate e scarsamente equipaggiate all’inizio della crisi, dal 2003 sono state completamente ristrutturate con l’arrivo di consiglieri militari stranieri e di nuove armi.
Il 4 aprile 2004 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato l’invio di una forza di pace (United Nations Operation in Côte d’Ivoire -UNOCI) con l’incarico di assicurare il rispetto della tregua e procedere al disarmo delle milizie irregolari. Questa operazione deve essere però ancora avviata a causa degli ostacolo frapposti dai diversi protagonisti della crisi. L’UNOCI è formata da 7.601 uomini dei quali 6.703 sono militari inquadrati in reparti d’intervento, 191 sono osservatori militari, 707 sono poliziotti. A questi si aggiungono 335 civili, 392 membri dello staff locale e 200 volontari delle Nazioni Unite. L’accordo di Ouagadougou (Burkina Faso) firmato nel marzo 2007 ha portato alla formazione di un governo di unità nazionale guidato da Guillaume Soro, leader delle Forze Nuove, e l’abolizione della cosiddetta “zona di confidenza” dove sono spiegati i “Caschi Blu” della Nazioni Unite e militari francesi dell’Operazione Licorne. La “zona di confidenza” è stata sostituita da una “linea verde” con posti di osservazione gestiti da “forze imparziali il cui numero sarà ridotto della metà ogni due mesi fino al loro ritiro parziale” afferma il documento.
L’accordo prevede anche il disarmo e l’integrazione dei ribelli nel futuro esercito integrato ivoriano. Per sorvegliare questo processo è prevista la creazione di un Centro di Comando Integrato, alla cui guida vi sarà una direzione congiunta dello Stato Maggiore dell’esercito regolare (FANCI) e delle Forze Armate della ribellione delle Forze Nuove (FAPN). Il governo di unità nazionale ha il compito di preparare il Paese alle elezioni, di aggiornare le liste elettorali (ricorrendo ad un sistema di schedatura digitale degli elettori, per garantire la massima trasparenza) e di gestire le operazioni di disarmo delle diverse milizie e di smobilitazione e reinserimento degli ex combattenti. Dal 2007 a oggi il voto è stato più volte rimandato, anche per le difficoltà nelle procedure di registrazione degli elettori.
REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

Dagli anni ’90 del secolo scorso, la Repubblica Democratica è attraversata da diversi conflitti, alcuni dei quali sono ancora in corso. Nel 1994, si insediarono nel Kivu (est dell’allora Zaire, ora Repubblica Democratica del Congo) i resti dell’esercito rwandese a maggioranza Hutu e delle milizie della medesima etnia responsabili del genocidio nel piccolo Paese africano. È l’inizio di un terremoto che sconvolgerà la vita del gigante africano, dominato da 30 anni dal dittatore Mobutu. L’insediamento di milioni di profughi rwandesi nel Kivu, infatti, provoca la reazione della popolazione del luogo, che si organizza in gruppi armati o rimpolpa le fila di quelli da tempo esistenti, per cacciare i nuovi arrivati. I combattenti hutu rwandesi, in effetti, avevano ricevuto il permesso di continuare a portare le armi, con le quali non solo conducevano raid contro il territorio del Rwanda (dove si era insediato un governo a guida tutsi) ma taglieggiavano anche la popolazione civile congolese. Si venne così a formare un’alleanza di ribelli congolesi, guidata da Laurent-Désiré Kabila, un vecchio leader guerrigliero di ispirazione guevarista, che ricevette il sostegno delle truppe di Rwanda e Uganda, e riuscirono a far cadere il dittatore Mobutu. Nel 1998, Rwanda e Uganda che avevano contribuito a portare al potere Laurent-Désiré Kabila, tentarono di rovesciarlo. Il conflitto che ne è seguito è stato definito come la “prima guerra mondiale africana” per il numero dei Paesi coinvolti e per la posta in gioco. Il Congo è infatti un vero e proprio scrigno ricolmo di ricchezze naturali, dall’acqua al legname delle foreste, dall’oro a minerali strategici, come il Coltan, indispensabili per l’industria ad alta tecnologia. La guerra vide contrapposti da una parte, Rwanda e Uganda con alcune milizie dell’est congolese da loro armate e finanziate, e dall’altra, l’esercito congolese fedele al Presidente Kabila (al quale nel gennaio 2001 successe il figlio Joseph, dopo che Laurent-Désiré rimase ucciso in un misterioso attentato), con il sostegno di Angola, Namibia e Zimbabwe. Sullo sfondo si muovevano gli interessi di potenze, piccole e grandi, e di alcune multinazionali che armavano con discrezione i diversi contendenti. Nel 1999 con gli accordi di Lusaka i belligeranti decisero il cessate il fuoco e i diversi Paesi intervenuti nel conflitto acconsentirono al ritiro delle proprie truppe. Nell’est del Paese sono però rimaste le diverse milizie congolesi. Le tre principali fazioni che si sono combattute negli anni successivi agli accordi di Lusaka sono l’esercito regolare di Kabila, l’Unione Congolese per la Democrazia (RCD) con base a Goma e il Movimento di Liberazione Congolese attivo soprattutto nel nord-est, senza dimenticare i Mai-Mai, un nome generico usato da diverse milizie locali dell’est Congo, alcune delle quali alleate dell’esercito di Kabila. Oltre a questi gruppi operano altre formazioni, specie nell’Ituri al confine con l’Uganda.
Nel 2002, gli accordi di pace di Sun City (Sudafrica) prevedevano, tra l’altro, la condivisione del potere tra i firmatari delle intese durante un periodo di transizione in attesa delle elezioni generali, che si sono svolte alla fine del 2006. Venne formato un governo di unità nazionale, con la partecipazione degli ex ribelli, con il compito di preparare le elezioni politiche e presidenziali. Sul piano della sicurezza, gli accordi prevedevano in modo alquanto generico l’integrazione delle diverse milizie che fino ad allora si erano combattute in un nuovo esercito nazionale (FARDC, Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo).
Il 6 ottobre 2003, il Capo di stato maggiore, generale Liwanga Mata, ha designato e destinato ai loro posti i comandanti delle 10 regioni militari. Tre regioni sono state affidate all’ex governo, tre al Movimento di Liberazione del Congo (MLC), due al Raggruppamento Democratico per la Democrazia (RCD/Goma) e due al movimento dei Mai-Mai.
Il processo di integrazione dei diversi reparti militari ha però incontrato seri ostacoli, tanto è vero che, alla vigilia delle elezioni generali del 30 luglio 2006, solo 12 nuove brigate “integrate” erano dispiegate, sul terreno sulle 18 previste dagli accordi.
Le elezioni del novembre 2006, vinte dal Presidente Kabila, hanno segnato un passo importante nella storia congolese, perché per la prima volta dopo 40 anni un Capo dello Stato veniva insediato dal voto popolare, e non con l’uso della forza. Tra i compiti che attendevano Kabila vi era quello di consolidare la pace nell’est del Paese. Dopo alterne vicende, attualmente (ottobre 2009) sono due i gruppi di guerriglia che continuano a seminare la morte e la distruzione nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Il primo, l’Esercito di Resistenza del Signore (LRA), è stato formato nella seconda metà degli anni ’80 nel nord Uganda, ed è composto soprattutto da Acholi. Questo movimento è stato per anni aiutato dal Sudan che, in questo modo, ricambiava il governo sudanese per l’appoggio offerto alla guerriglia del sud Sudan. Dopo gli accordi di pace del 2005, che hanno posto fino alla guerra nel sud Sudan, l’LRA ha perso, almeno ufficialmente, ogni appoggio da parte del regime di Khartoum. Anzi, l’amministrazione autonoma sud-sudanese, nata con gli accordi del 2005, aveva avviato una mediazione tra il governo ugandese e la dirigenza dell’LRA. Si era giunti ad un passo dalla firma di un’intesa definitiva, poi saltata all’ultimo momento. Di fronte all’intransigenza della leadership della guerriglia, i governi di Uganda, sud Sudan e Congo avevano deciso di coalizzare le loro forze per sconfiggere militarmente il movimento ribelle (vedi Fides 4/6/2008). Il gruppo di guerriglia, in teoria privo di qualsiasi appoggio da parte dei governi della regione, invece di essere sconfitto, ha ampliato la sua zona di operazioni (oltre che in Congo, i guerriglieri ugandesi compiono incursioni nel sud Sudan e nella Repubblica Centrafricana), stabilendo il proprio quartiere generale nella foresta di Garamba, in Congo. È qui che tra il dicembre 2008 e gennaio 2009 è scattata l’offensiva tripartita congolese-ugandese-sud sudanese, che però non è riuscita a colpire la dirigenza del movimento.
Anche le Forze Democratiche per la Liberazione del Rwanda (FLDR), in teoria, dovrebbero essere state sconfitte da tempo, perché ufficialmente sono un gruppo “paria”, respinto da tutti. Eppure sono attive dal 1994 nel nord e sud Kivu. In questo lasso di tempo, come scrive il quotidiano congolese “Le Phare”, i ribelli rwandesi “avrebbero dovuto essere indeboliti dal rigore delle vita errabonda ed essersi annullati nella popolazione congolese. Ma hanno stranamente resistito, e sono diventati forti e pugnaci in un territorio straniero come se fossero a casa loro in territorio rwandese”. “Da chi o da dove hanno preso i mezzi necessari per riorganizzarsi e riprendere l’offensiva non contro il Rwanda, il loro Paese, ma contro la popolazione congolese dell’est? Da dove ricevono le armi e le munizioni che sembrano non esaurirsi mai?” si chiede il giornale, che ipotizza l’esistenza di mandanti occulti che sfruttano i due gruppi per continuare a saccheggiare illegalmente le ricchezze congolesi. Una realtà denunciata da un recente rapporto dell’ONU che afferma come i diversi gruppi di guerriglia dell’est del Congo, e le FDLR in particolare, si finanziano sfruttando le miniere di oro e di cassiterite locali.
Ma non si tratta solo di semplici attività criminali, condotte da alcune aziende con la complicità dei gruppi armati locali. Le ricchezze naturali del Congo sono strategiche per le maggiori potenze mondiali. Ricordiamo solo che l’uranio usato per la bomba atomica di Hiroshima proveniva dall’allora Congo Belga.
Uno sviluppo positivo è la proposta, rilanciata anche da alcuni esponenti del Congresso statunitense, di creare un sistema di certificazione dei minerali congolesi (sul modello di quanto fatto con i diamanti, con il Processo di Kimberly), al fine di evitare che siano immessi sul mercato minerali di contrabbando, provenienti da miniere illegali gestite dai movimenti ribelli.

SOMALIA

La Somalia è sconvolta dal 1991 da una guerra civile che nella sua ultima evoluzione vede contrapposte le milizie islamiste degli Shebab (“giovani” in arabo) dell’ Hezb al-Islamiya (“Partito dell’islam”) al governo dell’islamista moderato Sheikh Sharif Ahmed. Questi, come avvenuto per i precedenti governi di transizione appoggiati dalla comunità internazionale, di fatto controlla solo una parte della capitale, Mogadiscio, mentre il resto del Paese è suddiviso tra le milizie islamiste e i diversi clan nei quali è ripartita la società somala.
Vi sono inoltre due regioni che si sono proclamate, in diversa misura, autonome rispetto al governo di Mogadiscio. Il Puntland, regione centro-settentrionale che si affaccia sul golfo di Aden, si è dato un’amministrazione autonoma, pur riconoscendo di fare ancora parte della Somalia. Il Somaliland ( l’area settentrionale della Somalia ed ex colonia britannica che confina con Gibuti, affacciandosi sullo strategico Stretto di Bab el Mandeb) ha proclamato la sua indipendenza fin dal 1991. Queste due zone erano fino a poco tempo fa relativamente sicure, poi gli integralisti legati a gruppi stranieri hanno compiuto alcuni sanguinosi attentati. Il Puntland inoltre è la base dei pirati che depredano il naviglio che transita in aree anche distanti dalle coste somale. Per contrastare i pirati somali diversi Stati hanno dispiegato le loro unità militari al largo della Somalia.
In supporto al governo di Mogadiscio, l’Unione Africana ha schierato una forza di pace, composta da circa 4mila uomini (dovevano essere 8mila), una presenza simbolica per un Paese di oltre 637mila kmq. L’Uganda ha inviato 1.600 militari. Nigeria, Burundi, Malawi e Ghana hanno promesso l’invio di propri soldati che porterebbero il numero dei militari dell’Unione Africana a 4mila, la metà di quelli inizialmente previsti. I soldati africani si trovano ad affrontare una guerriglia esperta capace di colpire anche gli aerei utilizzati per trasportare le truppe ugandesi nell’aeroporto di Mogadiscio. Il problema della Somalia non ha una soluzione militare: si deve trovare un accordo politico, nell’ambito del quale i militari stranieri possono avere un ruolo, in particolare quello di fornire il supporto per la ricostruzione delle forze di sicurezza di un governo che sia accettato da tutta la popolazione somala.

SUDAN/DARFUR

Le origini del conflitto nel Darfur vanno ricercate nel quadro delle tradizionali tensioni interetniche tra le tribù africane dei Fur, Zaghawa e Masalit – a carattere stanziale e agro-pastorale – e le tribù nomadi di origine araba, in una zona dalle scarse risorse naturali. In tale scenario, nel febbraio 2003, tre gruppi a base etnica africana hanno costituito 2 diverse formazioni ribelli – il Sudan Liberation Movement/Army (SLM/A) ed il Justice and Equality Movement (JEM) – ricorrendo alle armi per protestare contro l’esclusione dai negoziati di pace in corso tra Nord e Sud, le insufficienti risorse destinate dal Governo centrale al Darfur e la mancata protezione dei villaggi africani dalle razzie delle tribù nomadi. Il Governo di Khartoum ha risposto armando e sostenendo militarmente le milizie Janjaweed (i “diavoli a cavallo” d’origine araba) contro le tribù di etnia africana.
La guerra civile che ne è scaturita ha prodotto uno delle più gravi crisi umanitaria attuali, caratterizzata da una persistente violazione dei diritti umani delle popolazioni civili. Nei quattro anni di guerra civile, 200 mila persone sono morte, assassinate, stuprate o per malattie, e due milioni e mezzo sono state costrette ad abbandonare le loro case.
Nel Darfur, la firma dell’Accordo Umanitario sul Cessate il Fuoco (Humanitarian Ceasefire Agreement – HCFA) fra le due parti in lotta, in data 8 aprile 2004, ha consentito lo schieramento, a partire dall’estate del 2004, di un contingente dell’Unione Africana, costituito da unità militari di Nigeria, Rwanda, Kenya, Sudafrica, Gambia e Senegal, nell’ambito della cosiddetta "Missione dell’Unione Africana in Sudan" (AMIS), che dispone anche di osservatori, elementi di polizia e personale civile.
Dopo il suo avvio, già dall’autunno successivo, l’Operazione è stata potenziata, assumendo la denominazione ufficiale di AMIS II e costituendo la DITF (Darfur Integrated Task Force).
AMIS II schiera circa 2.500 uomini, di cui 2.100 militari (450 dei quali sono Osservatori), 250 agenti di polizia ed il resto personale civile di supporto.
Il mandato dei militari dell’Unione Africana è quello di controllare il cessate il fuoco e di proteggere gli osservatori. AMIS II, infatti, non dispone né dell’autorizzazione, né di un numero sufficiente di militari per poter proteggere la popolazione civile, fatti salvi gli interventi in caso di constatazione di una minaccia imminente per le vite umane.
Il Consiglio per la Pace e la Sicurezza dell’UA, a conclusione della riunione ad Addis Abeba, ha deciso di sostenere il trasferimento della Missione dell’Unione Africana in Sudan in una missione condotta sotto l’egida dell’ONU. L’UA ha ritenuto, inoltre, di estendere fino al 30 giugno 2007 il mandato dell’AMIS in Darfur.
A seguito di una specifica richiesta dell’Unione Africana, dal mese di luglio 2005 l’Alleanza Atlantica ha deciso di offrire il proprio contributo in termini di trasporto aereo per la rotazione delle forze militari dell’UA impiegate. La NATO ha, inoltre, fornito il proprio contributo in termini di addestramento degli ufficiali di staff dell’UA nella conduzione di un Quartiere Generale e nella gestione delle informazioni relative all’operazione.
Nel giugno 2007 il Sudan ha raggiunto un accordo preliminare con l’Unione Africana e le Nazioni Unite per il dispiegamento di una forza di pace “ibrida” ONU/UA da inviare nel Darfur. La Missione ibrida di pace Nazioni Unite/ Unione Africa in Darfur (UNAMID in inglese e MINUAD in francese) è stata stabilita dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 21 luglio 2007 con la risoluzione 1769. L’UNAMID ha il compito di proteggere i civili, di contribuire all’assistenza umanitaria, di osservare e verificare l’applicazione degli accordi e osservare e riferire della situazione lungo i confini tra Ciad e Repubblica Centrafricana.
Nel settembre 2009 la crisi del Darfur è stata dichiarata “virtualmente conclusa” dal generale Luther Agwai, comandante uscente della forza di pace mista Nazioni Unite- Unione Africana in Darfur, un’affermazione che però è stata contestata da diversi esperti, anche perché la situazione umanitaria è diventata ancora più grave da quando il presidente sudanese Omar Al Bashir, per protestare contro il mandato d’arresto spiccato nei suoi confronti dalla Corte penale internazionale dell’Aia, ha espulso la maggior parte delle organizzazioni umanitarie che portavano il 40% degli aiuti totali. Vi sono ancora 2 milioni e 700.000 abitanti del Darfur che vivono in campi per rifugiati (su una popolazione di circa 5 milioni). Le organizzazioni umanitarie internazionali denunciano la grave insicurezza provocata dalla diffusione del banditismo, che impedisce ai convogli di aiuti di giungere in diverse località della regione.
Il sud Sudan, che ha combattuto per oltre 20 anni contro il governo di Khartoum guarda con un misto di speranza e di timore al referendum del 2011, previsto dagli accordi di pace di Nairobi (Kenya).
L’intesa firmata nel 2005 (nota come Comprehensive Peace Agreement), ha posto fine a 20 anni di guerra civile tra il governo di Khartoum e i ribelli del Movimento per la Liberazione del Popolo Sudanese (SPLM), che operavano nelle regioni meridionali del Paese. L’accordo ha dato vita a un governo autonomo del sud Sudan, guidato dal SPLM, e prevede un referendum, da tenersi nel 2011, con il quale le popolazioni delle aree meridionali sono chiamate a decidere se rimanere nell’ambito di un Sudan unitario (ma con una forte autonomia) oppure dare vita ad uno Stato indipendente.
Nonostante l’accordo (che prevede pure la partecipazione di rappresentanti dell’SPLM al governo centrale di Khartoum), permangono paure e diffidenze tra le due parti, anche perché le intese del 2005 hanno lasciato alcune delicate questioni irrisolte, come l’attribuzione (al nord o al sud) di alcune zone di confine, ricche di petrolio. Si assiste quindi a un riarmo sia dell’esercito di Khartoum sia di quello del sud Sudan. Recenti episodi di scontri tra alcune popolazioni del sud Sudan fanno temere al governo autonomo del meridione che le autorità centrali stiano cercando di sfruttare le tensioni locali per condizionare o impedire il referendum del 2011.
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Dossier a cura di L.M. – Agenzia Fides 3/10/2009