CorSera 8-9-2009
Tra retorica e propaganda
Ai piedi del Caudillo
Ma così si festeggia un mito autoritario
di Pierluigi Battista
Chissà se Chávez, stordito dal tripudio veneziano, si è sentito retroattivamente offeso con Teheran per il diverso trattamento che gli è stato riservato. Con Ahmadinejad solo un trionfo fatto di sorrisi, a Venezia ovazioni sfrenate, allegri striscioni di «bienvenido», un fervore rivoluzionario d’altri tempi. In Iran l’intesa tra alleati. Ma qui, calcando il red carpet del Lido, sul magnifico piedistallo eretto da Oliver Stone, con tutti i vip ai suoi piedi, che sorprendente apoteosi. Con la gente del cinema che si inchina al dittatore in erba, viene festeggiato il mito, non la realtà. La graziosa icona, non il Venezuela com’è. Il film edificante e zuccheroso, non la storia tragica che resta, muta, sullo sfondo. Sparisce il Venezuela in cui le tv dell’opposizione vengono chiuse, imbavagliate, intimidite. Dove le squadracce del presidente terrorizzano i dissidenti. Dove la piccola borghesia è ridotta alla fame, frutto dell’esproprio rivoluzionario che distrugge l’industria, fa del petrolio un’arma «anti-imperialista », crea il paesaggio propizio del «socialismo del XXI» secolo che Chávez vuole incarnare. Dove la Costituzione viene stravolta grazie a un plebiscito che rende eterno e incontrastato il regno del nuovo caudillo.
A Venezia Chávez incassava estatico e senza parlare l’omaggio della Mostra. Stavolta non ha avuto bisogno di occupare gli studi di una televisione di Stato per intrattenere i venezuelani con un monologo fluviale, verboso, come una caricatura dell’indimenticabile «Dittatore dello Stato libero di Bananas» di Woody Allen. Ha pronunciato poche e solenni parole. Non ha avuto bisogno di un eroe come Juan Carlos che ne contenesse l’incontinenza logorroica con un rimprovero secco e conciso che resterà negli annali del coraggio politico: «por qué no te callas », cerca di tacere, una buona volta. A differenza di Juan Carlos a Venezia non hanno sottaciuto la sempiterna soggezione che si nutre per le figure autoritarie che, come Fidel Castro, parlano nel seducente linguaggio della rivoluzione e del popolo in armi. La soggezione che non ha Mario Vargas Llosa, che Chávez voleva tenere fuori dei confini del Venezuela perché con la sua ironia e il suo sarcasmo lo scrittore peruviano poteva bucare il pallone gonfiato del caudillo che straparla per otto ore di seguito senza che qualcuno possa contraddirlo.
La soggezione che non ha avuto Angela Merkel che, avendo definito «populista» il regime venezuelano, ha ricevuto per ritorsione la scomunica di Chávez: «erede di Hitler». La soggezione che ha soffiato ancora a Venezia, dove non è più tempo della satira dissacrante di Woody Allen, ma della propaganda encomiastica di Oliver Stone, già aduso, con un incredibile panegirico confezionato per glorificare Castro, all’adulazione dei dittatori rivoluzionari. In Italia l’accoglienza non poteva che essere calda ed entusiastica. Assecondata dalla cultura di sinistra che qui grida al regime ma non sa vedere la fine di ogni contrappeso democratico in Venezuela che possa arginare lo strapotere del Chávez omaggiato sul tappeto rosso. Assecondata con spirito bipartisan, se è vera la leggenda di una calda telefonata tra Chávez e Berlusconi in presenza di Aida Yespica. Assecondata nell’Italia che sa festeggiare come nessun altro i dittatori che vengono a visitarci. Sicuri dell’applauso, mentre la realtà viene messa prudentemente sotto chiave.